TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Validità dello Statuto dei lavoratori e contrattazione collettiva autonoma
La introduzione di María Vittoria Ballestrero alla tavola rotonda dell’ AIDLASS ci invita a riflettere ancora una volta, a oltre 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, sulla sua attualità, sulle carenze rivelate dal tempo e sulla necessità di attualizzarne i principi per trarne conseguenze per il tempo presente.
Il dibattito su questi temi è stato avviato già all’indomani della approvazione della legge ed è continuato quasi ininterrottamente negli anni successivi. Tale continuità di interesse è una conferma del valore e della vitalità eccezionali dello Statuto che, come si è detto, “declina il patrimonio genetico della nostra disciplina”. Tanto più che i commenti alla legge 300 sono stati spesso l’occasione per riflettere sullo stato e sulle prospettive del diritto del lavoro.
Molti di noi, me compreso, hanno partecipato a questo dibattito in vari momenti, con contributi talora ancora utili e che vanno comunque tenuti presente.
Non volendo ripetermi troppo e seguendo le indicazioni tematiche di Maria Vittoria, mi concentro sui problemi delle relazioni industriali e della contrattazione, che sono quelli ove l’intervento dello Statuto è stato di proposito limitato e che secondo il mio parere hanno manifestato da tempo la necessità di integrazioni, anzi di un diverso approccio regolativo.
Credo che sia opportuno dedicarci maggiore attenzione non solo teorica, almeno per quelli come molti di noi secondo cui le relazioni industriali e la contrattazione collettiva sono ancora parte essenziale del nostro ordinamento sociale e della stessa democrazia pluralistica.
D’altra parte non ritengo, come invece si sostiene da alcuni, che questa componente delle relazioni sociali sia ormai “uscita dai radar“ né quindi che sia inutile o velleitario occuparsene. Anzi nei mesi della pandemia la contrattazione collettiva è stata molto attiva ed è intervenuta a regolare gli aspetti più critici della crisi, con protocolli sulle misure di prevenzione e di controllo del contagio nelle aziende, con molti accordi, specie aziendali, di regolazione del lavoro a distanza, e con misure di welfare a sostegno del reddito dei lavoratori e della conciliazione fra tempi di lavoro e di vita.

2. Mancanza di regole sulle relazioni industriali e mutuo riconoscimento
Procedo da un assunto base per il mio ragionamento, un assunto che viene spesso trascurato, anche se dovrebbe essere ben chiaro a chi conosce la nostra storia delle relazioni industriali. Mi riferisco al fatto che l’ordinamento delle relazioni collettive è rimasto privo, per scelta dello Statuto, di regole legali riguardanti le sue componenti strutturali (rappresentatività degli attori, procedure della contrattazione ed effetti dei contratti collettivi, disciplina del conflitto) e che tale stato di anomia si è sostanzialmente mantenuto nel tempo, solo in parte integrato da interventi giurisprudenziali diretti a definire il (vago) concetto di associazioni sindacali maggiormente rappresentative (o comparativamente più rappresentative).
A fronte di simile debolezza di regolazione eteronoma l’ordinamento intersindacale italiano si è sviluppato per forza propria, in base al principio del mutuo riconoscimento fra gli attori principali del sistema, cioè fra le organizzazioni identificatesi come effettivamente rappresentative.
È tale principio che ha conferito non solo autorevolezza reciproca alle parti contrattuali, ma anche riconoscibilità da parte dell’ordinamento statale.
Il principio del mutuo riconoscimento si è rivelato così il presidio della effettività delle relazioni contrattuali fra le parti e per lungo tempo anche della loro stabilità. Tanto più che le stesse parti hanno specificato le condizioni del loro riconoscimento reciproco adottando nel tempo una serie di regole contrattuali riguardanti i principali aspetti delle loro relazioni contrattuali e i criteri della loro rappresentatività.
La adozione del principio di mutuo riconoscimento e lo sviluppo di forme di autoregolazione fra le parti sociali non sono affatto sconosciuti nella storia delle relazioni industriali. Anzi sono stati a lungo presenti e dominanti specie nei sistemi di origine anglosassone caratterizzati da una forte impronta volontaristica dei rapporti fra le parti e da un atteggiamento largamente astensionistico dello Stato.
Anche in Italia la rilevanza decisiva del mutuo riconoscimento, con le implicazioni ricordate, riflette una analoga astensione della legge nella regolazione dei rapporti collettivi di lavoro.
Senonché nel diritto italiano sul mutuo riconoscimento fra le parti sociali non si sono appoggiate solo le relazioni fra di loro, ma si è anche fondata l’attribuzione alle stesse parti di poteri giuridici e di posizioni istituzionali di grande rilevanza nell’ordinamento statale. Queste posizioni delle parti sono state oggetto di valutazioni diverse nel tempo, non prive di critica; ma non sono mai state abbandonate; anzi le crisi recenti sembrano averne confermato la rilevanza.
Alla deregolazione dei rapporti contrattuali collettivi ha fatto riscontro la costruzione nel tempo di una fitta rete di presenze delle organizzazioni di interesse in molte istituzioni nazionali e locali competenti nelle maggiori questioni di politica del lavoro e della previdenza sociale.
Questa rete di istituzioni ha assunto una tale importanza per la gestione quotidiana di tali questioni e per la stessa attività del sindacato da essere talora considerata un equivalente italiano del cd. sistema di Ghent caratteristico delle relazioni industriali di alcuni paesi del centro-nord Europa.
In quei paesi la presenza sindacale in tali istituzioni è un elemento costitutivo del sistema di Relazioni Industriali e ha contribuito non poco a sostenere la consistenza e l’autorevolezza delle organizzazioni sindacali., che non a caso hanno resistito più di quelle di altri paesi all’impatto dei fattori avversi di contesto. Va peraltro rilevato che in quei paesi l’attribuzione alle organizzazioni sociali di poteri cogestionali nelle politiche del lavoro e della previdenza si è accompagnata a una più o meno stretta regolazione della loro identità rappresentativa e talora della loro attività.
La anomalia del sistema italiano così identificata e la scelta attuata dallo Statuto di promozione senza regolazione del sindacato hanno assunto una indubbia rilevanza per la evoluzione delle relazioni industrial. Hanno avuto il merito di favorirne per molti anni il libero sviluppo e di permettere la sperimentazione di forme nuove di azione sindacale, non ultima la contrattazione decentrata aziendale, all’inizio sostenuta soprattutto dalla Cisl.
Ma tale scelta si è rivelata progressivamente inadeguata a regolare le relazioni industriali e a sostenere le attività del sindacato e la contrattazione collettiva ai vari livelli, comprese quelle svolte nelle imprese, che sono state ostacolate dal contesto economico e politico diventato progressivamente meno favorevole e spesso ostile negli anni più recenti.

3. Frammentazione della contrattazione collettiva nazionale e delle organizzazioni dei datori di lavoro
Non mi soffermo sui motivi strutturali delle difficoltà delle relazioni industriali e sui possibili rimedi che sono stati ampiamente dibattuti, peraltro con analisi non convergenti anche per il forte tasso di ideologia che spesso le accompagna.
Rilevo peraltro le conseguenze di questa alterazione del contesto sul sistema di relazioni industriali costituitosi in seguito alle scelte dello Statuto dei lavoratori.
L’ equilibrio fra le due parti della legge 300 si è alterato in profondità a causa del vuoto creatosi nelle regole sulle relazioni collettive e sulla identità dei suoi attori, cioè di quella seconda parte dello Statuto, che nelle intenzioni degli autori doveva sostenere la effettività anche dei diritti individuali dei lavoratori sanciti nelle prime norme della legge.
Nel nuovo contesto anche la regola non scritta del mutuo riconoscimento fra le parti si è andata progressivamente indebolendo.
Lo testimonia in modo eclatante la frammentazione della contrattazione collettiva nazionale che è andata crescendo in misura progressiva negli ultimi anni, come segnala l’archivio del CNEL ove il numero dei contratti depositati ha superato la cifra di 930.
Ed è significativo che risulta cresciuto soprattutto il numero di contratti conclusi da organizzazioni datoriali sorte di recente e spesso poco o nulla conosciute.
Tale moltiplicazione di accordi e di attori negoziali di parte datoriale, è un fatto poco considerato nelle analisi anche degli esperti, e invece merita di essere indagato nelle sue motivazioni profonde che sono alquanto rilevanti per la struttura e per la dinamica dei rapporti collettivi.
Sono convinto che la frammentazione del fronte datoriale si lega alle trasformazioni delle strutture produttive da tempo in atto che hanno letteralmente sconvolto le tradizionali categorie e settori merceologici su cui si è finora appoggiata la contrattazione collettiva nazionale. L’impatto è rilevante non solo per la identificazione dei confini fra contratti collettivi e fra le aree di attività e di reclutamento delle varie organizzazioni, ma anche per un numero crescente di misure pubbliche.
Al riguardo è significativo che molte decisioni di sostegno alle imprese e ai lavoratori assunte dal governo nel corso della pandemia hanno ritenuto inadeguati i codici Ateco, tradizionalmente in uso per identificare i vari settori produttivi e hanno adottato criteri diversi, ritagliati sulla nuova geografia delle imprese.
Questa rottura degli ambiti tradizionali della contrattazione ha colpito soprattutto gli attori negoziali di parte datoriale, perché altera direttamente l’ambito di operatività e a monte rende incerta la stessa base associativa delle singole organizzazioni.
Anche i sindacati dei lavoratori sono interessati da tali tendenze, in quanto esse modificano i caratteri strutturali dell’interlocutore storico della contrattazione nazionale. Ma l’impatto sulle associazioni sindacali è solo indiretto e la modifica degli assetti storici della controparte può non precludere ai sindacati la modifica degli ambiti contrattuali e dei relativi interlocutori, se tali modifiche sono ritenute adeguate e convenienti nel nuovo contesto produttivo.
Non a caso la questione dei perimetri contrattuali è diventata molto controversa soprattutto sul versante datoriale, con il sorgere di controversie sui confini fra categorie e settori di imprese che sono diventati sempre meno definiti proprio per le trasformazioni strutturali in corso.
I contrasti fra le associazioni datoriali sui loro confini sono talora acuite da comportamenti dei sindacati dei lavoratori che non rispettano gli ambiti settoriali storici di contrattazione per cogliere opportunità negoziali che si presentino anche oltre tali confini.
Quali che siano le giustificazioni di simili scelte sindacali, che vengono spesso denunciate come opportunistiche dalle controparti datoriali storiche, certo è che il moltiplicarsi di tali episodi erode in radice il principio di mutuo riconoscimento.
Infatti, anche se non mette in discussione la qualità e i criteri di rappresentatività delle parti sociali, altera le basi strutturali della loro rappresentanza, cioè gli ambiti categoriali per cui le parti intendono negoziare.
La alterazione delle basi categoriali influisce anche sulla misura della rappresentatività degli attori, perché questa è calcolata in riferimento alle stesse categorie. Ne viene che se tale alterazione dei perimetri contrattuali non viene corretta, essa può introdurre un elemento di incertezza, se non un germe di dissoluzione, delle relazioni industriali e del principio di mutuo riconoscimento su cui il sistema si è finora fondato.
Tanto più che le trasformazioni tecnologiche e competitive in atto sono destinate ad accentuare le tendenze alla variabilità delle strutture produttive e quindi alla fluidità dei confini fra i diversi settori.
4. La definizione dei perimetri contrattuali: autonomia o eteronomia?
La questione ora sollevata è presente alle parti sociali, che vi hanno dedicato una attenzione specifica. Lo conferma da ultimo il cd. patto della fabbrica fra Confindustria Cgil Cisl e Uil del 2018 che impegna le confederazioni stipulanti a esercitare un’attenta verifica dei perimetri di attività delle organizzazioni loro aderenti e quindi dei relativi contratti. Si tratta di un impegno peraltro che, come ogni clausola della nostra contrattazione in questo caso della cosiddetta parte obbligatoria, può operare esclusivamente rispetto alle organizzazioni associate alle confederazioni stipulanti e quindi solo per la definizione dei perimetri interni al sistema industriale.
E’ da notare che tale questione si è presentata in termini simili nei sistemi di relazioni industriali di altri paesi europei pure più assestati del nostro, a riprova del suo fondamento strutturale. Essa ha sollevato non poche controversie di principio, come dimostrano, in particolare, le vicende dell’ordinamento tedesco e gli interventi della Corte costituzionale di quel paese. La Corte ha dichiarato incostituzionale un primo intervento legislativo nelle soluzioni dei conflitti fra diversi contratti collettivi in quanto in contrasto col principio dell’autonomia sindacale. Ha confermato invece un secondo intervento ritenendo che il legislatore può intervenire per regolare i presupposti strutturali che “consentono alla contrattazione collettiva di svolgersi in un contesto di equa parità sociale e di conseguenza di produrre adeguate condizioni di lavoro ed economiche” e che “la legge deve agire quando sopraggiungano guasti durevoli nella capacità di funzionamento del sistema di contrattazione collettiva”. La Corte ha peraltro precisato che tali condizioni devono essere interpretate in senso restrittivo in nome della tutela della libertà sindacale e che legislatore è tenuto a prevedere condizioni nella conclusione del contratto collettivo maggioritario affinché questo tenga in adeguato conto gli interessi dei gruppi professionali che subiscono la regola della maggioranza.
Un intervento legislativo sui perimetri contrattuali, ammesso che di fatto possa realizzarsi nel nostro paese, solleverebbe anche da noi problemi di compatibilità con i principi costituzionali di libertà e di autonomia sindacale, anche se di recente F. Liso ha espresso una opinione contraria. La strada maestra è la ricerca di una regolazione consensuale dei confini per prevenire le controversie giurisdizionali in atto e che possono sorgere in futuro.
In realtà la continua evoluzione delle strutture produttive rende potenzialmente instabili anche patti precisi fra le singole organizzazioni circa i perimetri dell’ attività contrattuale. Infatti la mutevolezza dei sistemi produttivi e delle forme di lavoro, che è all’origine del problema, non si può eliminare una volta per tutte, solo perchè se ne danno carico le parti invece che il legislatore o la giurisprudenza. Il che rende precario l’impegno scritto nel patto della fabbrica, di voler assicurare il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva come dei suoi contenuti.
La verità è che il governo di simile questione richiede un approccio diverso, non definitorio ma essenzialmente procedurale, cioè con l’attivazione di procedure di esame e di monitoraggio fra le parti che permettano di adeguare le soluzioni contrattuali via via necessarie alla evoluzione delle realtà produttive. Questa tecnica procedurale è poco approfondita e ancora meno praticata dalle nostre parti sociali, che hanno sempre trascurato la parte istituzionale e obbligatoria dei contratti collettivi e hanno sempre esitato a sostenerne l’effettività con meccanismi sanzionatori.
Ma una simile procedura è quella più adatta a risolvere controversie interne alle parti che l’hanno posta in essere; anche se risente di un limite intrinseco, come l’intero sistema privatistico di relazioni industriali, cioè quello di operare con effetti solo fra le parti stipulanti. Questo è un limite tanto più grave in quanto le rotture dei tradizionali confini categoriali, come di altre regole consolidate, sono operate da organizzazioni esterne alle parti contraenti, o addirittura ai soggetti storici delle relazioni industriali, le quali ricercano proprio con la rottura di questi assetti tradizionali il motivo di esistenza e la loro legittimazione.
Nella attuale situazione di incertezza la identificazione dei perimetri si è rivelata problematica non solo per le parti e per la giurisprudenza, ma anche per le istituzioni amministrative competenti, INPS e Ministero del lavoro.
Quanto all’INPS l’incertezza riguarda in primis la individuazione di quali siano le basi retributive stabilite dai contratti nazionali delle varie categorie da prendere in considerazione per calcolare i contributi previdenziali. La scelta dell’Inps ha rilevanza indiretta anche per la questione della rappresentatività sindacale, perché le retribuzioni rilevanti a fini contributivi sono quelle fissate dai contratti nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (cd. contratti leader); e perché la valutazione della rappresentatività e dei relativi criteri si opera in riferimento gli stessi perimetri categoriali.

5. Ridefinire le regole delle relazioni sindacali: una nuova legislazione di sostegno
Le tensioni su questi punti, perimetri contrattuali e contratti leader, finora sono rimaste sottotraccia. A smussarne l’asprezza hanno contribuito sia la vaghezza dei criteri di rappresentatività adottati dalla giurisprudenza e dalle amministrazioni del lavoro, sia la stessa caratterizzazione privatistica della contrattazione.
Ma tali tensioni sono destinate ad acutizzarsi quando si dovranno applicare gli stringenti criteri numerici di rappresentatività del TU 2014; e ancora più se si volesse introdurre qualche forma di efficacia erga omnes dei contratti collettivi. E’ anche per uscire da questa impasse che serve una nuova e più certa regolazione del nostro sistema di relazioni industriali.
Infatti ove si volesse introdurre anche nel nostro ordinamento l’efficacia erga omnes almeno della parte salariale dei contratti collettivi di lavoro, come chiedono le parti del patto della fabbrica e come è stato ritenuto possibile dalla Corte Costituzionale. La definizione dei perimetri contrattuali, come della rappresentatività degli attori negoziali, come dei perimetri contrattuali diventerebbe un presupposto necessario dell’operatività della normativa.
Sul punto specifico della definizione dei perimetri contrattuali le scelte sarebbero agevolate se potessero prendere a riferimento procedure relative al sistema contrattuale come quelle sperimentate nell’ordinamento tedesco, avvalendosi delle conoscenze e della valutazione delle stesse parti.
La considerazione dei materiali e delle valutazioni dell’autonomia collettiva non è infrequente nella prassi giurisprudenziale. Il legislatore l’ha talora raccomandata o addirittura richiesta, imponendo di tener conto delle indicazioni dei contratti collettivi, ad esempio per valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (art. 30 legge 143/2010). Anche in tali casi si tratta di indicazioni legislative la cui applicazione rimane affidata alla discrezionalità del giudice e quindi ammette scostamenti.
E’ noto peraltro che le resistenze ad attuare interventi legislativi su questi temi non sono affatto superate, come conferma il fallimento dei vari tentativi di approvare i disegni di legge da anni presentati in Parlamento, fino al più recente a firma Catalfo (AS 558).
Come ho argomentato altre volte, resto convinto che il rafforzamento della parte sindacale della legge 300 sia oggi più che mai necessario anche per rendere omaggio allo spirito dello Statuto dei lavoratori, il quale ha promosso l’azione sindacale (allora) nell’impresa in quanto riteneva che un sindacato forte e autorevole fosse necessario per migliorare le condizioni di lavoro e per garantire l’esercizio effettivo del diritti dei lavoratori.
Negli anni che ci separano dallo Statuto non sono mancati i tentativi - cui anch’io ho partecipato - di riprendere in qualche forma la normativa promozionale dell’attività giuridica e della contrattazione, in grado di sostenerne la effettività nel mutato contesto in cui queste si sono trovate ad operare. Ma la possibilità che simili proposte, anche le più recenti, rompano il muro delle resistenze tradizionali sono a dir poco incerte, come altri aspetti delle nostre relazioni industriali. L’aspetto qui considerato del sostegno e della rivitalizzazione dell’azione collettiva rinvia peraltro a una questione più ampia. Al riguardo sono persuaso che, per invertire l’attuale tendenza al declino del sindacato, o al suo semplice galleggiamento, servono iniziative almeno su due piani: quello del rinnovamento delle dinamiche sindacali e sociali che rendano capaci gli attori collettivi di intercettare le istanze delle diversificate componenti del mondo del lavoro per rappresentarle nei confronti delle istituzioni e dei poteri economici (ormai non solo nazionali ma anche internazionali); e il piano politico istituzionale, affinché le politiche pubbliche modifichino le condizioni di contesto economiche e sociali che oggi ostacolano l’attività sindacale e la piena espressione delle voce dei lavoratori nell’arena sociale e politica.
Su questo secondo piano non sono l’unico ad auspicare una nuova stagione di politiche di sostegno al sindacato e alle relazioni industriali. Sono peraltro convinto che gli strumenti di sostegno adeguati alle sfide della attuale società non possono limitarsi al livello delle imprese, ma devono misurarsi su obiettivi più ampi delle politiche economiche generali del paese, come è nelle tradizioni migliori del nostro sindacalismo e come ora è richiesto a tutte le parti sociali per contribuire al successo degli impegnativi traguardi delle transizioni digitali ed ecologiche prospettati dal NGEU.

6. Le proposte di direttiva europea nel salario minimo
Ma per tornare al tema delle regole riguardanti le relazioni industriali, cioè in primis alla rappresentatività delle parti e alla efficacia della contrattazione collettiva, il dibattito italiano su questi problemi ha ricevuto uno stimolo e forse una accelerazione dalla recente proposta di direttiva della Commissione europea sul salario minimo adeguato.
La iniziativa della Commissione segnala un radicale cambiamento di prospettiva rispetto agli orientamenti seguiti negli anni precedenti; dalle reiterate raccomandazioni a contenere le dinamiche retributive per non ostacolare la competitività dei sistemi produttivi si passa a sostenere la necessità di garantire salari minimi adeguati come strumento per promuovere un lavoro dignitoso per tutti i lavoratori europei e anche per una regolazione equilibrata del mercato del lavoro.
L’urgenza di cambiare rotta è segnalata fra l’altro dal numero crescente di lavoratori poveri e dall’aumento del rischio di in work poverty che sono testimoniati da tutte le fonti nazionali: l’Italia ha fatto registrare nel 2018 un tasso di rischio di in work poverty del 12,3% superiore alla media europea del 9,3%, e tutto lascia ritenere che tale percentuale sia cresciuta nell’anno della pandemia.
Alla spinta di queste condizioni di contesto si è aggiunta la pressione delle parti sindacali europee e di alcuni governi nazionali, a cominciare da quello della Germania, che, vincendo storiche resistenze di quei sindacati, ha approvato nel 2015 una legge sul salario minimo. La prima esperienza applicativa in quel paese ha contribuito a smorzare alcuni timori circa il possibile effetto negativo di tale normativa sulla economia nazionale e sulla tenuta del sistema contrattuale.
A segnalare la importanze attribuita al documento intitolato ai “salari minimi adeguati” e la ferma decisione di procedere della Commissione, è significativo che il testo è stato ripresentato a fine ottobre 2020, nonostante una prima fase di consultazione al riguardo avesse ricevuto risposte negative da tutte le parti sociali.
La seconda versione della proposta, ampiamente modificata rispetto alla prima, ha ricevuto una accoglienza più favorevole di questa, non solo per le modifiche intervenute nel testo, ma anche a seguito delle mutate condizioni di contesto e della nuova percezione da parte delle parti sociali della gravità del fenomeno dei working poors.
Tralascio le questioni non semplici riguardanti le basi giuridiche della proposta, su cui mi sono già espresso, e mi soffermo dalla parte del suo contenuto che appare più rilevante in riferimento alla situazione italiana.
Il testo della Commissione, in coerenza con la dichiarata intenzione di rispettare le tradizioni degli ordinamenti nazionali, indica due percorsi diversi per garantire salari minimi adeguati che riflettono le situazioni dei vari paesi. Nello specifico distingue il gruppo di Stati membri (21) che ha già una legislazione sui minimi salariali, dai paesi (6) che invece affidano la fissazione di tali minimi alla contrattazione collettiva nazionale, pur con varianti di regolazione legate alla storia dei singoli ordinamenti.
Per il primo gruppo di Stati la proposta indica alcune condizioni necessarie affinché i salari minimi legali siano fissati a livelli adeguati, specificando che questi devono essere determinati secondo criteri chiari e duraturi e che devono prevedere aggiornamenti periodici del loro ammontare, anche qui secondo criteri predeterminati. Inoltre si sottolinea che le procedure per la definizione dei minimi dovranno garantire un effettivo coinvolgimento delle parti sociali, come risulta dalle prassi comuni fra i paesi membri. Queste indicazioni sono tutt’altro che formali, ma costituiscono elementi essenziali per sostenere la adeguatezza anche nel tempo dei minimi salariali e una loro rispondenza al contesto economico sociale dei vari ordinamenti quale valutato dai principali stakeholders.
Che i criteri per definire tale adeguatezza siano un punto critico lo dimostra fra l’altro il fatto che ,come rileva la relazione alla proposta, in non pochi stati membri provvisti di salario minimo legale questo non garantisce ai lavoratori un reddito sufficiente a raggiungere la soglia della povertà. Tant’è vero che il numero di lavoratori poveri ricordato dalla Commissione, situato al di sotto di tale soglia ha raggiunto il 10%. Per di più le rilevazioni ufficiali citati dalla relazione alla proposta indicano che un lavoratore europeo su sei è qualificabile come low wage earner, cioè riceve un salario inferiore ai 2/3 del salario mediano.
Al riguardo mi limito a segnalare che nella ipotesi in cui l’Italia intendesse dare seguito all’iter per introdurre un salario minimo legale, dovrebbe adeguarsi alle regole della direttiva una volta approvata. In ogni caso sarebbe comunque opportuno seguirne almeno i punti fondamentali, a cominciare dalla attivazione di procedure formali di coinvolgimento delle parti sociali, che la Commissione ritiene essenziale per garantire che il salario minimo sia adeguato secondo la valutazione dei principali stakeholders. Non sarebbe sufficiente quindi la attuale formulazione di alcuni progetti di legge, compreso quello a firma Catalfo (AS 658), che stabilisce in ogni caso una soglia minima salariale (di 9 euro).

7. La “preferenza” per la via contrattuale al salario minimo
Il giudizio sostanzialmente positivo dei sindacati europei, condiviso dalle maggiori confederazioni italiane e dalle rappresentanze delle maggiori associazioni presenti al Cnel, è motivato anzitutto dalla prevalenza riconosciuta dalla proposta della Commissione alla via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei salari minimi adeguati. Non mancano peraltro questioni aperte e richieste di correzioni al testo attuale.
Ad es. è stato rilevato criticamente che secondo la formulazione dell’art. 4 la adeguatezza del salario quando questo è fissato dai contratti collettivi viene data per acquisita, a differenza di quanto avviene nel caso i minimi siano stabiliti per legge. Lo conferma il fatto che nel testo della norma non si fa alcun cenno al criterio della adeguatezza del salario minimo da affrontare con procedure, neppure per tenere conto della sua indicizzazione, ma invece solo a un grado di copertura dei contratti collettivi (il 70%) ritenuto necessario e sufficiente a garantire una tutela abbastanza ampia per contrastare la diffusione dei bassi salari.
Questo è un punto della proposta che solleva dubbi sulla sua congruenza rispetto all’obiettivo di sostenere un salario adeguato. Tanto è vero che ha già sollevato obiezioni in dottrina e che potrebbe esporsi a richieste di integrazione nel corso delle future consultazioni.
Un altro punto della proposta sottoposto a critica dalle organizzazioni sindacali italiane e dal Cnel, riguarda il fatto che il riferimento alla contrattazione collettiva nazionale è formulato in modo troppo indifferenziato, tale da comprendere anche contratti stipulati da organizzazioni non rappresentative di ambedue le parti.
La omissione risulta particolarmente grave a fronte della frammentazione verificatisi, non solo in Italia, nelle rappresentanze sindacali, oggi ancora più da parte datoriale che sul versante dei lavoratori. Questo mi sembra un aspetto della proposta che merita chiarimenti, per condizionare il riferimento alla contrattazione collettiva al fatto che essa sia conclusa da organizzazioni di entrambe le parti negoziali dotate di rappresentatività accertata secondo le regole dei singoli ordinamenti.
Anche il tasso di copertura dei contratti collettivi al 70% dei lavoratori interessati, indicato dalla Commissione come criterio decisivo per valutare la congruenza della tutela salariale minima, si presta a più di una obiezione.
La estensione erga omnes è la sola soluzione che garantisce la capacità del sistema contrattuale di fornire una garanzia dei minimi salariali equivalente a quella offerta dai minimi legali. La soglia del 70% di copertura contrattuale indicata dalla Commissione non realizza lo stesso risultato, ma è stata fissata, anche qui con evidente compromesso, in base alla ipotesi che una simile diffusione permetta comunque alla contrattazione di esercitare una influenza generale di innalzamento dei salari minimi.
Un punto di policy in ogni caso essenziale, come ricorda anche la relazione alla proposta, è la necessità di prevedere strumenti atti a rafforzare la capacità negoziale delle parti sindacali. Un sostegno pubblico in tale direzione è sempre più necessario, dato che questa capacità è da anni indebolita da un contesto economico e spesso politico non amico se non ostile all’ azione collettiva. Lo testimoniano una molteplicità di indicatori: l’indebolimento dell’efficacia economica e sociale dei sistemi contrattuali anche in paesi tradizionalmente forti come il nostro, la frammentazione del sistema con il diffondersi di contratti cd. pirata e la perdita del potere di acquisto dei salari.

8. Il diseguale “tasso di copertura” dei contratti collettivi nazionali italiani e la conseguenza per la applicazione delle proposte
Qui mi interessa sottolineare che il riferimento al tasso di copertura media dei contratti nazionali per valutare la idoneità del sistema non è sufficiente e può essere fuorviante. Su questo punto è pertinente il riferimento della proposta al “livello settoriale o intersettoriale” dei contratti nazionali, perché la copertura dei contratti nei singoli settori può essere alquanto diseguale e non arrivare sempre alla soglia del 70%.
Sulla diffusione e sulla copertura dei contratti nazionali non esistono in Italia indicazioni complete, perché i nostri sistemi di rilevazione non sono (ancora) a regime. Ma già le informazioni disponibili confermano la esistenza di non poche disparità.
In particolare l’archivio dei contratti curato dal CNEL, in collaborazione con l’INPS, contiene informazioni preziose che sono via via aggiornate. I dati più recenti dell’archivio riportati nel rapporto sul mercato del lavoro del 2020 segnalano che degli 856 contratti nazionali vigenti, un numero molto ridotto di questi regola la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro dipendenti. Più precisamente i 60 contratti prevalenti nei dodici settori per cui sono disponibili informazioni sui lavoratori coperti si applicano all’89% di tutti i lavoratori dipendenti; mentre i restanti 796 contratti risultano applicati solo all’11% della platea dei dipendenti.
Come si vede questo dato riduce in parte il grado di dispersione contrattuale; ma resta il fatto che esso conferma la esistenza di una notevole frammentazione del sistema. Il dato è preoccupante perché nei 796 contratti minori presumibilmente rientrano quelli a più elevato rischio di dumping salariale. Tale rischio è confermato da altre rilevazioni, fra cui quelle della Banca d’Italia, le quali segnalano inoltre che in alcuni settori specie dei servizi la copertura contrattuale appare inferiore e spesso di apprezzamento incerto, specie per contratti conclusi da parti sociali di dubbia e non accertata rappresentatività.
Soprattutto è alto, anche se di incerto apprezzamento, il livello di erosione e di evasione dei contratti stipulati in questi settori e da questi agenti negoziali.
Non si può dunque ritenere che il nostro sistema contrattuale soddisfi del tutto i requisiti richiesti dalla ipotesi di direttiva, né che l’Italia possa essere esentata dalla necessità di intraprendere i piani di azioni sollecitati dalla Commissione per rafforzare la contrattazione collettiva specie in questi settori critici.
La debolezza della contrattazione in certi settori, se non corretta, potrebbe richiedere un intervento legislativo sui minimi salariali, sia pure sperimentale e limitato a tali settori.
In ogni caso la proposta della Commissione è destinata a cambiare il quadro di riferimento; è in base ad esso che sia il nostro governo sia le parti sociali dovranno operare le loro scelte. La proposta apre la possibilità di affrontare il problema della tutela dei salari secondo una nuova prospettiva “duale”. Le parti sociali italiane che, al pari della maggioranza dei sindacati europei, hanno mostrato di apprezzarla, hanno la opportunità di superare l’impasse storica che ha bloccato finora ogni iniziativa di legge volta a rafforzare le garanzie della adeguatezza dei salari.
Se le nostre organizzazioni sindacali mantengono la contrarietà all’ introduzione di un salario minimo legale, contrarietà che ne ha finora ostacolato l’approvazione, nonostante le evidenze comparate non avvalorino i loro dubbi, esse dovrebbero attivarsi per dare seguito all’altro percorso indicato dalla Commissione europea.

9. Rafforzare il sistema contrattuale: un erga omens salariale selettivo
Le iniziative da intraprendere sono duplici. Anzitutto i sindacati dovrebbero sollecitare il governo a prendere azioni atte a creare, come richiama la Commissione, “un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva”. Ciò significa ricercare gli strumenti per una nuova legislazione di sostegno, diversi da quelli dello Statuto dei lavoratori, perché devono correggere debolezze degli attori collettivi diverse da quelle del 1970.
Si tratta di una ricerca appena avviata, e che deve orientarsi in più direzioni. Mi limito a ribadire che il rafforzamento e la estensione dei diritti dei lavoratori, con la sanzione di una base comune di tutele per ogni forma di lavoro, restano una parte essenziale della legislazione di sostegno anche del sindacato. Ma è invece da riscrivere la parte sindacale della normativa, sia precisando le regole fondamentali del sistema sia promuovendo condizioni di contesto economiche e sociali favorevoli (e non ostative quali sono spesso oggi prevalenti), all’attività sindacale e alla piena espressione della voce di lavoratori nell’ arena sociale e politica.
Inoltre se si vuole privilegiare la via contrattuale per la garanzia dei minimi salariali, è necessario rafforzare il sistema contrattuale prevedendo meccanismi per la estensione erga omnes dell’efficacia (almeno) della parte retributiva dei contratti collettivi nazionali. Tale proposta è stata fatta propria dalle maggiori confederazioni sindacali nei loro accordi, da ultimo nel cd. Patto della fabbrica, e la sua perseguibilità dal punto di vista costituzionale è stata confermata dalla Corte Costituzionale.
Ma per procedere su questa strada occorre porre in atto i presupposti istituzionali, a cominciare dalla identificazione dei criteri univoci (e condivisi) di rappresentatività di ambedue le parti negoziali.
Gli ordinamenti europei che prevedono meccanismi di estensione generale dei contratti collettivi procedono in modo selettivo; cioè tengono conto delle condizioni dei diversi settori e dei caratteri della contrattazione ad essi relativa, fra cui il grado di copertura che il contratto realizza per forza propria.
Per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori la identificazione dei criteri della loro rappresentatività ha una lunga storia. Essa risale alla normativa relativa al settore pubblico la quale li ha definiti con il consenso allora delle parti interessate e si è via via arricchita fino alla conclusione del TU del 2014 definito fra Confindustria, CGIL, CISL, UIL e dagli accordi interconfederali siglati sul tema per gli altri grandi settori (artigianato, terziario, cooperazione).
La messa in opera di tali criteri peraltro non è ancora completa, né per la parte riguardante la raccolta dalle imprese delle deleghe sindacali, nonostante i tentativi di organizzarla in base a un apposito protocollo fra Ministero del lavoro e Inps, né per la raccolta e la verifica dei dati elettorali delle RSU.
Cosicché in assenza delle regole così indicate dalle parti, la giurisprudenza e le autorità amministrative continuano ad applicare i criteri della rappresentatività sindacale da tempo in uso.
Al di là delle diverse opinioni dottrinali, le decisioni giurisprudenziali sono alquanto divergenti, anche ma non solo in dipendenza del problema per cui si utilizza la nozione.
Sovente si continua a fare riferimento ai criteri tradizionali sopra ricordati, specie quando si tratta di scegliere le organizzazioni titolate a designare rappresentanti in organismi pubblici e la selettività richiesta non è particolarmente stringente. Quando viceversa si richiede un giudizio più rigoroso di selezione fra vari soggetti e fra più contratti collettivi, come ai fini della legge 389/1989 citata, si ritiene che la indicazione legislativa sulla rappresentatività debba desumersi da una valutazione comparativa dei criteri sopra ricordati o anche talora da criteri più precisi di quelli tradizionali (ad es. quelli indicati dal Ministero del Lavoro, fra gli altri nell’interpello 27/2015).
Inoltre mentre la questione della rappresentatività sindacale è stata a lungo (non solo in Italia) oggetto di dibattito, l’analogo problema dell’accertamento della rappresentatività delle associazioni datoriali è emerso solo di recente all’attenzione degli interessati e nel dibattito pubblico.
I motivi sono simili a quelli menzionati, cioè rinviano alla crescente diversificazione dei sistemi produttivi e della geografia (anche internazionale) delle imprese, che ha messo in discussione la acquisita o presunta rappresentatività delle organizzazioni datoriali storiche dei vari settori.
La necessità di affrontare tale questione è ora riconosciuta anche in Italia dalla maggior parte delle grandi organizzazioni sindacali dei datori di lavoro, da ultimo dalla Confindustria nel già citato “patto della fabbrica”. Ma dichiarazioni simili in questo senso sono state espresse dalle maggiori organizzazioni di altri settori (servizi, cooperazione, artigianato).
Senonché i tentativi di definire tali criteri sia ad opera di vari disegni di legge, sia nelle discussioni fra le parti in sede CNEL, non hanno ancora portato a risultati conclusivi. La novità di questo aspetto della questione e la diversità delle situazioni aziendali e associative da considerare lasciano prevedere una ricerca non facile. Ma una soluzione condivisa fra le parti sarebbe anche qui la base migliore per garantirne la efficacia e per aprire una strada all’intervento di sostegno del legislatore.
Superare le esitazioni e l’ impasse per trovare consenso sociale e politico su questo punto è una condizione essenziale per affrontare il tema dell’erga omnes salariale; non è l’unica perché altre questioni delicate restano da risolvere, a cominciare dalla definizione degli ambiti entro i quali attribuire la efficacia dei singoli contratti nazionali di categoria o di settore.
Qui voglio richiamare l’attenzione su una questione specifica alquanto rilevante per il tema in esame. Se per seguire le indicazioni della Commissione europea, si vuole intervenire (solo) nei settori dove la contrattazione non raggiunge la copertura effettiva del 70%, anche la efficacia erga omnes va ripensata nel suo impianto al fine di ritagliarla su tali settori.
Una simile soluzione non trova ostacoli insormontabili, salvo appunto la individuazione degli ambiti contrattuali, e trova riscontro nella pratica di altri paesi.
Gli ordinamenti europei che prevedono meccanismi di estensione generale dei contratti collettivi procedono in modo selettivo; cioè tengono conto delle condizioni dei diversi settori e dei caratteri della contrattazione ad essi relativa, fra cui il grado di copertura che il contratto realizza per forza propria.
Si tratta di una forma di intervento che si adatta alle diverse realtà produttive, come segnala anche Varesi nella sua relazione AIDLASS, e che offre sostegno ai contratti collettivi solo negli ambiti in cui è necessario rafforzare la operatività. La strumentazione del nostro art. 39 Cost. sembra invece prefigurare un meccanismo automatico e generalizzato di estensione; o meglio così è stata per lo più interpretata, ma non perché fossero impossibili letture diverse, bensì piuttosto per la mancanza di approfondimenti specifici, dato l’abbandono storico di questa parte della norma costituzionale.
In conclusione mi sembra che ci siano buoni motivi per raccogliere lo stimolo della Commissione europea per riprendere la strada della erga omnes dei contratti collettivi nazionali; e si può farlo con una maggiore consapevolezza delle possibili soluzioni, come della nostra storia e dei suoi limiti.
Questa dell’ erga omnes è la strada che altri ordinamenti hanno perseguito da tempo, spesso prima di legiferare sui minimi salariali. Si tratta di una scelta prioritaria coerente con la nostra tradizione di relazioni industriali e con le indicazioni della Commissione europea, perché entrambe danno priorità alla via contrattuale su quella legislativa, senza dimenticare di sostenere la prima.
Perseguendo una simile opzione la garanzia che il nostro ordinamento offrirebbe ai lavoratori di avere minimi salariali adeguati non presenterebbe nessun rischio di incidere impropriamente sulle dinamiche della autonomia collettiva, ma anzi avrebbe il valore di contribuire al rafforzamento del sistema contrattuale nel suo complesso.
Inoltre fornire un simile strumento per rafforzare la contrattazione collettiva sarebbe in questo momento particolarmente importante per mettere in condizione questo strumento storico della autonomia collettiva di contribuire, come è stato in passato, non solo al miglioramento delle condizioni del lavoro, ma anche alla ripresa di quella crescita sostenibile indicata dal NGEU e a orientare le grandi transizioni sociali ed economiche in atto affinché esse siano giuste come vogliono le stesse indicazioni europee.

 

 

 

 

 

 

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