Testo integrale con note e bibliografia

L’intervento che segue ha ad oggetto il tema della necessità, ovvero opportunità, di un intervento legislativo sulla misurazione della rappresentatività sindacale: è, a mio avviso, il tema centrale rispetto alla più ampia verifica dell’esigenza di dover ricorrere, o meno, ad una c.d. “legge sindacale” di regolazione degli effetti dell’azione collettiva (che è stato tema affrontato da entrambe le relazioni); è il tema che catalizza le tensioni fra fautori e detrattori di una siffatta legge.
Quella della misurazione per legge della rappresentatività sindacale è una istanza (o sarebbe più opportuno definirla iniziativa) figlia dell’evoluzione subita dallo schema originario dello Stat. Lav. cioè, appunto, struttura di sostegno all’azione sindacale e che è stato stravolto divenendo strumento di regolazione del rapporto fra l’agire sindacale ed i vari soggetti con cui il sindacato viene in contatto nella sua ampia esperienza di azione.
Per prendere posizione rispetto al monito che il Prof. Varesi ha voluto, in qualche modo, lanciarci con la sua relazione circa una possibile incoerenza metodologica su questo tema, vorrei precisare che non sono fra coloro che osannano la visione di un ordinamento intersindacale e poi invocano una legge che lo regoli: sia perché ritengo che la visione di un ordinamento intersindacale oggi non sia rappresentativa della evoluzione che l’esperienza sindacale ha avuto in 50 anni di effettività (oltre che di efficacia) dello Statuto dei lavoratori, sia perché ritengo che possa diffidarsi da una regolazione eteronoma in un contesto in cui la libertà di azione sindacale gode del riconoscimento giuridico in una norma forte e diretta come l’art. 39, 1° comma Cost che è riconoscimento giuridico a titolo originario dell’intera effettività dell’organizzazione e, quindi, dell’azione collettive .
Ciò considerando, un intervento eteronomo deve essere assolutamente rispettoso della valenza di quel riconoscimento non solo e non tanto in senso formale rispetto alla sua legittimità costituzionale, quanto rispetto alla portata sostanziale dello stesso che, da solo e di per sé, è riconoscimento capace di sostenere tutta la portata negoziale, autonoma ed originale, dell’azione sindacale.
Ciò non di meno, l’azione sindacale è negozio giuridico, è autoregolamento dei privati interessi alla stregua dell’ordinamento giuridico , dunque, necessita di un contesto normativo che eviti il vuoto istituzionale intorno all’esperienza sindacale.
Così, provando a interrogarsi sulle esigenze che portano a ragionare sull’opportunità di una legge sulla misurazione della rappresentatività, queste potrebbero riguardare i seguenti ambiti: la regolazione del rapporto fra legge e contratto per assicurare la certezza del diritto; la regolazione del rapporto fra i diversi soggetti sindacali, vale a dire, la regolazione delle forze a confronto; la regolazione del rapporto fra interesse generale e interesse collettivo.
Ma in un contesto originato e sorretto dall’art. 39, 1° comma Cost., la regolazione deve essere solo l’effetto e non la causa di una legge sindacale, questa dovrebbe restare di sostegno e non di contenimento.
Se si vuole che una legge sulla misurazione della rappresentatività abbia la funzione di sostegno e non di regolazione, essa, certamente, non deve produrre altre incertezze, deve risultare, per così dire, “comoda” per i soggetti sindacali, deve guardare all’utilità di chi poi la deve “usare”, cioè, in primo luogo, le stesse parti collettive.
Ma se questo vale, allora una legge che differenzi le regole di misurazione della rappresentatività in ragione delle finalità della misurazione stessa o in ragione del contesto del suo utilizzo, non è di sostegno perché costringe il sindacato ad una diversa organizzazione in ragione del contesto di funzionamento della legge stessa; così congegnata quella legge disegnerebbe per il sindacato un contesto di azione sindacale che non è, che non esiste nelle sue differenziazioni ontologiche, con fastidiosi stridori costituzionali. La rappresentatività sostanziale di un soggetto collettivo dipende, infatti, dal complesso delle sue diverse azioni di rappresentanza tutte insieme considerate che compongono, anzi costituiscono, la stessa organizzazione sindacale nella maniera libera che quello stesso agire esprime e che per tale, come noto, trova protezione nella Carta costituzionale.
La soluzione legale circa la misurazione della rappresentatività dovrebbe guardare, dunque, alle soluzioni che le stesse parti collettive fra loro si sono già date a più riprese nei diversi accordi, a diversi livelli, sugli assetti delle relazioni sindacali ; sono tutte soluzioni che hanno, a ben vedere, una matrice comune ponendo al centro del loro funzionamento i prodotti dell’azione sindacale, quelli che contano: anzitutto la diffusione del consenso del loro agire organizzato, vale a dire il dato associativo e quello elettorale; sussidiariamente a questo primo criterio di misurazione va dato peso alle soluzioni di quello stesso consenso, vale a dire la numerosità degli accordi sia nazionali che di secondo livello o quelli c.d. gestionali; queste sono, infatti, misurazioni di effettività dell’azione sindacale che rappresentano la sostanziale rappresentatività e che, fra loro combinate, assolvono al governo della c.d. selezione degli interlocutori necessario tanto all’applicazione della legge quanto dell’accordo.
Questi due elementi a mio avviso possono essere di riferimento effettivo per una misurazione riferibile a entrambi i lati del tavolo, sia alla rappresentanza dei lavoratori che alla rappresentanza datoriale. Anche per questo aspetto, infatti, una differenziazione fra criteri riferibili all’una o all’altra parte falserebbe la sostanziale vita dell’agire collettivo di entrambe; se è vero che dal lato della rappresentanza datoriale la frammentazione soggettiva e la conseguente moltiplicazione di ambiti e oggetti di confronto collettivo è addirittura ben più diffusa che dal lato della rappresentanza dei lavoratori, questo non può essere motivo di razionalizzazione differente di criteri di scelta dell’interlocuzione sindacale complessivamente intesa, sia perché un siffatto approccio non risponderebbe alla realtà sociale dell’esperienza sindacale, sia perché la relativa interlocuzione va intesa nel suo complesso e nella sua dimensione bilaterale e non guardando ad una sola delle parti coinvolte.
E’ vero che altre potrebbero essere le forme di manifestazione dell’adesione all’azione sindacale dei soggetti collettivi, ad esempio le azioni di sciopero e le altre forme legittime di autotutela, il coinvolgimento nel dialogo di informazione e consultazione o anche in quello di concertazione, con il caveat della diversa volatilità episodica di quest’ultimo ambito. Ma le riterrei comunque fenomenologie ancillari a quelle prima indicate come criteri di misurazione senza i quali queste ultime non avrebbero vera, effettiva, ragione indicativa di quella sostanziale rappresentatività.
Concludo, dunque, auspicando che se intervento legislativo vuole essere, questo si limiti a recepire le soluzioni proposte dalle parti collettive nei loro accordi di indirizzo; mi pare che l’auspicio venga anche da loro quando nominano quegli accordi addirittura come “testo unico sulla rappresentanza”.

 

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