Testo integrale con note e bibliografia

Innanzitutto, ringrazio chi ha accettato di partecipare a questo incontro su un tema come quello dei vaccini contro il Covid-19 che mi sembra accentui ulteriormente l'importanza di uno studio interdisciplinare del fenomeno del lavoro, come già sottolineato nel suo intervento dal Prof. Maresca. Infatti, le questioni problematiche che derivano dall’analisi delle conseguenze sul rapporto di lavoro delle vaccinazioni e, soprattutto, delle mancate vaccinazioni, rendono il terreno dissodabile da diverse ottiche.
Sul tema “vaccino e rapporto di lavoro” si è acceso un lungo dibattito sulle cui sfumature non posso soffermarmi . Il mio intervento riguarda più da vicino le conseguenze che derivano dalla mancata vaccinazione. Riprendo quindi quanto accennato da Angelo e dagli altri relatori che mi hanno preceduto e approfitto dell’occasione per proporre una utile schematizzazione interna al gruppo dei lavoratori non vaccinati.
Stiamo ipotizzando in premessa che il vaccino sia anche efficace, ancorché ovviamente non al 100%, contro il contagio – dacché in caso contrario non potremmo differenziare lavoratori vaccinati e non – e che, d’altra parte, sia già stato reso disponibile a tali lavoratori.
Alcuni lavoratori possono essere chiamati, sinteticamente, “renitenti” in quanto volontariamente non si sottopongono alla vaccinazione per ragioni ideologiche, personali o comunque non legate a motivazioni mediche comprovate e. soprattutto, approvate dalla comunità scientifica. Altri lavoratori possono essere definiti “impossibilitati” dato che per ragioni mediche accertate non sono possono farsi somministrare il vaccino.
Tale schema deve essere oggi replicato all’interno di due campi d'applicazione: da una parte il campo di applicazione del d.l. 44 del 2021 , il cui art. 4 è rubricato “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SARS-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse”. Per effetto di tale disposizione, anche in ragione del carattere specifico e professionale del rischio biologico di contagio da COVID-19, sussiste per i sanitari contemplati dalla norma un “obbligo” (situazione giuridica soggettiva da qualificare meglio, forse, come onere altamente procedimentalizzato). D’altra parte, si delimita a contrario un’area dove, invece, v’è un onere “semplice” che – lo abbiamo già sentito e quindi non mi ripeto – è perfettamente compatibile con una libertà costituzionalmente garantita come quella dell’art. 32 Cost.
Il passaggio argomentativo mi spinge a formulare un’ulteriore, utile, premessa, che prende le mosse da alcune osservazioni già svolta da Angelo Delogu: è bene chiarire che l’idoneità (concetto-chiave della sorveglianza sanitaria, ma cruciale anche per comprendere come operino le norme del codice civile in materia di impossibilità) può essere osservata esclusivamente da un punto di vista oggettivo ovverosia in modo indipendente dalla volontà della persona, la cui prestazione lavorativa diviene inutilizzabile in conseguenza della mancata vaccinazione (e non dell’assenza di volontà in tal senso). Ne dovrebbe seguire l’irrilevanza, almeno sul piano generale, della differenza tra coloro che scelgono di non vaccinarsi e coloro che, per ragioni mediche, non possono vaccinarsi. D’altro canto, coloro che non possono vaccinarsi non sono malati ai sensi e per gli effetti dell’art. 2110 c.c., dacché la malattia presuppone uno stato morboso certificato che in questo caso difetta. Se ne deduce un pieno parallelismo di partenza tra soggetti renitenti e impossibilitati.
Tale ragionamento in ordine all’inutilizzabilità-inidoneità in senso oggettivo della prestazione lavorativa del non vaccinato, peraltro, prescinde dalla previsione di un obbligo (rectius un onere rafforzato) nell’art. 4 del d.l. 44. Al contempo, l’impianto normativo dell’art. 4 citato non è estraneo alla logica del d.lgs. 81 del 2008, e in particolare alla logica della sorveglianza sanitaria. Semmai sembra che la disposizione speciale si integri nel corpo normativo generale, come si evince anche dal fatto che già le nozioni di datore di lavoro e lavoratore (Pascucci) contenute nell’art. 4 sono mutuabili dal d.lgs. 81.
L’art 4 non si differenzia dal modello dell’art. 81 nell’approccio, dacché anche in quel caso il regime dell’idoneità alla mansione degli art. 41 e 42 del testo generale in materia di sicurezza sul lavoro è volto a constatare e far emergere, per il tramite dell’apporto scientifico del medico competente, condizioni soggettive rilevanti sul piano obiettivo. E neppure può individuarsi una differenza netta fondata sulla circostanza che l’art. 4 sarebbe più che altro diretto a tutelare la cittadinanza, mentre l’art. 42 sarebbe norma per la tutela del lavoro, atteso che non sono estranei al d.lgs. 81 esigenza protettive estese al di là dell’ambiente di lavoro. Basti leggere la nozione stessa di prevenzione accolta dal decreto citato, definita come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno».
E tuttavia – in ciò consiste la differenza – l’art. 4 implica una procedimentalizzazione ben più complessa e articolata, che include termini e coinvolge soggetti diversi . Ebbene la norma dedicati agli operatori di interesse sanitario, attraverso una più dettagliata procedimentalizzazione, fa chiarezza in un’area (e con riferimento a situazioni) caratterizzata da incertezza e oggetto di allarme sociale.
Chiarito il rapporto tra modello generale (art. 42, d.lgs. 81) e speciale (art. 4, d.l. 44) si può tentare di aggiungere un tassello a questo puzzle normativo. E infatti la disciplina, speciale, in materia di sicurezza si iscrive in un cerchio di più ampio diametro, rappresentato dalla nota regola generale del Codice civile in materia di obbligazioni e, in particolare, l’art. 1256 c.c. La norma del Codice traccia, alla stregua di un cerchio concentrico di maggiore ampiezza, il perimetro della disciplina generale che, se ci si limiti a una indagine sul contratto e sulle relative obbligazioni, contorna integralmente il problema della idoneità medico-sanitaria, da osservare, anche rispetto alle conseguenze giuridiche della mancata vaccinazione rilevante sotto il profilo obiettivo, con le lenti peculiari della sorveglianza sanitaria del d.lgs. 81 (e, se applicabile, con il filtro del d.l. 44).
Invero lo schema a cerchi concentrici proposto rivela qualche falla e, soprattutto nell’intersezione tra d.lgs. 81 del 2008 e d.l. 44, si sono prodotti cortocircuiti. Nell’ambito dell’art. 4 del d.l. 44 le conseguenze sono precise e ripercorrono solo parzialmente quelle che, ai sensi dell'articolo 42 del decreto legislativo 81, avremmo ordinariamente avuto (valutazione del medico competente, adibizione a mansioni anche diverse e ovviamente compatibili con l'esigenza di massima prevenzione, eventuale licenziamento). Ad esempio, la sospensione della retribuzione a fronte di un’impossibilità temporanea di per sé risponde al principio generale di corrispettività, ma produce un effetto importante sul piano dell'interpretazione delle conseguenze di carattere generale, atteso che tale conseguenza è prevista dal d.l. 44 (quindi per i sanitari) esclusivamente per i renitenti. Gli impossibilitati, nel contesto generale, hanno un trattamento identico ai renitenti dacché l’idoneità può apprezzarsi esclusivamente sotto il profilo oggettivo: non rileva la “provenienza” dell'impossibilità dalla volontà riluttante del lavoratore, perché, altrimenti, si darebbe evidenza a un elemento soggettivo. D’altro canto, la scelta espressa del legislatore, per i soli sanitari, è andata, sotto questo profilo ragionevolmente, in direzione opposta: si è ritenuto di non penalizzare coloro che siano impossibilitati per via di un accertato pericolo per la salute in relazione a “specifiche condizioni cliniche” attestate dal medico di medicina generale.
Lo stesso legislatore dispone altresì la conservazione del rapporto di lavoro non solo per gli impossibilitati ma anche per i renitenti; mentre, ai sensi dell’articolo 42 del d.lgs. 81 del 2008, sarebbe stato possibile licenziare per motivo oggettivo consistente nella inidoneità (non temporanea).
Può essere utile soffermarsi proprio su questo problema della temporaneità dell’inidoneità. Il legislatore sembra presumere che l’inidoneità sia temporanea nell’ambito del d.l. 44, mentre di norma l’art. 41 comma 7 afferma che spetta al medico competente indicare i precisi limiti temporali dell’inidoneità. E tuttavia nel caso della pandemia globale da Covid-19 ciò non è possibile, di talché si dovrebbe ritenere che l’impossibilità sia (quasi) subito definitiva (salvo agganciare l’impossibilità alla durata del piano anti-pandemico, con una operazione di dubbia tenuta). Perciò il d.l. 44 autorizza a ritenere temporanea, almeno fino al 31 dicembre 2021, una impossibilità che è, per la generalità dei lavoratori non vaccinati, tendenzialmente definitiva, in assenza di altre mansioni proficuamente assegnabili.
Il d.lgs. 81 resta sullo sfondo, ma riemerge ogniqualvolta si individui un vuoto nella disciplina speciale o quando questa semplicemente non s’applichi. E si verificano anche disparità di trattamento difficili da giustificare, alla luce della tipologia di rischio preso in considerazione. Ad esempio, non si decurta la retribuzione del renitente adibito a mansioni diverse ai sensi della norma generale, mentre nel settore sanitario spetta «il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate» (comma 8). Senza dimenticare, poi, che tale diversione di effetti varrà entro il termine del 31 dicembre 2021.
Proseguo rapidamente per non approfittare troppo del tempo di chi ascolta. È fondamentale far quadrare l'art. 1256 c.c., il d.lgs. 81/2008 e l’art. 4 del d.l. 44/2021, alla luce della differenza che esiste nei diversi contesti normativi, quello più generale e quello appunto sanitario, sul piano delle conseguenze. Attraverso la norma con la quale si è affermato espressamente che anche i renitenti sono, al massimo, sospesi, si è detto, implicitamente, che, almeno fino al 31 dicembre, non possono essere licenziati. Ciò, se si desideri attenersi a una lettura obiettiva dell’impossibilità, in quanto il legislatore presume che la (causa della) inidoneità sia temporanea. Ma, così facendo, si è creata una differenza di trattamento marchiana, già messa in evidenza dal professor Pascucci, rispetto ai lavoratori che nel contesto generale, alla luce di una interpretazione delle norme coerente con le intenzioni del d.lgs. 81, da una parte, e del codice civile, dall'altra, potrebbero anche essere licenziati; ciò, ovviamente, qualora ricorrano determinati presupposti e cioè quando non si rinvenga un'ulteriore mansione e – faccio mie le parole dell’art. 1256 c.c. – quando il creditore perda interesse. Come detto, nel contesto generale, la causa di impossibilità corrisponde a una inidoneità (suscettibile di divenire) definitiva. Solo per i sanitari la legge esclude che possa divenire definitiva finché dura il piano anti-pandemico e condurre all’estinzione del rapporto.
A ben vedere, il problema, se si guardi fuori dal campo di applicazione del d.l. 44, è duplice perché si crea non solo una differenza interna tra renitenti e impossibilitati, ma anche una differenza, presupposta, tra non vaccinati del settore sanitario e di altri settori. Differenza che, va detto, mette a dura prova la tenuta dei principi generali. Infatti, la norma generale non può e non riesce a distinguere, atteso che l’impossibilità sopravvenuta – come il regime di inidoneità dell’art. 42 – presuppone una valutazione obiettiva indifferente tanto alla volontà del singolo (trattandosi altrimenti di inadempimento), quanto all’area in cui tale volontà si manifesta. Tradotto: non rileva mai il diverso apporto all’inidoneità prestato dal renitente o dall’impossibilitato, né sembra qualificabile come stato di morbilità la diversa condizione soggettiva dell’impossibilitato .
È già stato rilevato come l’attuale configurazione delle norme determina una differenza di trattamento notevole e irrazionale atteso che il sanitario renitente, chiamato a una maggiore responsabilità in quanto destinatario di un onere rafforzato, non rischia il licenziamento, almeno fino al 31 dicembre 2021, mentre il lavoratore in altri settori, onerato solamente ai sensi dell’art. 42, potrebbe perdere il posto di lavoro per inidoneità .
Ci si deve chiedere allora se non sia il caso di adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni che, in ragione della preminenza delle garanzie dell’art. 32 Cost. e della esigenza conseguente, strutturalmente temporanea, di adottare misure di contrasto alla diffusione del virus Covid-19, renda il licenziamento – caratterizzato da definitività – una misura impraticabile. Invero, se si voglia essere rigorosi, una volta tenuto fermo il punto sulla natura obiettiva dell’impossibilità-inidoneità che dà luogo all’inutilizzabilità della prestazione, sarebbe più corretto riconoscere l'incostituzionalità della differenza di trattamento, salvo poi capire quale sia la norma incostituzionale: se l'art. 1256 c.c. “nella parte in cui” contempla l’estinzione dell’obbligazione o l'articolo 42 “nella parte in cui non” distingue tra impossibilitati e renitenti.
In alternativa sarebbe possibile spiegare la differenza di trattamento, che tenga anche conto dei limiti invalicabili dell’interpretazione costituzionalmente orientata tracciati dalla Corte costituzionale, sebbene in maniera abbastanza ampia. Tale spiegazione alternativa potrebbe far leva proprio sul fatto che l’estrema procedimentalizzazione dell'onere di vaccinazione altro non è che un modo per dare conto in questi settori della maggiore importanza della misura; e tuttavia in questi stessi settori – e non vorrei essere frainteso: il vaccino resta la misura prioritaria tanto è vero che è stato previsto un onere rafforzato – sono presenti in misura notevole ulteriori misure, oltre a quella della vaccinazione (si pensi al fatto che il sanitario indossa spesso dispositivi di protezione avanzati), di talché potrebbe anche essere ragionevole limitare la “reazione” alla sola sospensione. Si tratta però di una interpretazione che tende a graduare tale reazione come se fosse una sanzione (e tale non è), nonché a giustificare una carenza del legislatore. Il legislatore sceglie infatti di mantenere, fuori dal settore sanitario, uno stato di incertezza, senza chiarire la diversa posizione di renitenti e impossibilitati (ad esempio estendendo a tutti alcune previsioni del d.l. 44 ovvero, potenzialmente, aggiungendo un comma o un periodo all’art. 42 del d.lgs. 81 del 2008).

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