Testo integrale con note e bibliografia

1. In merito alla sussistenza o meno di un obbligo vaccinale nei contesti lavorativi contro il virus SARS-CoV-2 si è sviluppato un vivace dibattito sul cui orizzonte si staglia l’imprescindibile affermazione dell’art. 32 Cost. sui trattamenti sanitari, fra i quali rientrano a pieno titolo le vaccinazioni. Infatti nessun dubbio può esserci sul fatto che la vaccinazione costituisca un trattamento sanitario: un concetto che si riferisce a qualunque «attività diagnostica o terapeutica, volta a prevenire, o a curare malattie», o, in altri termini, a un intervento medico finalizzato alla tutela della salute.
Dopo aver sancito nel comma 1 che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, l’art. 32 Cost. stabilisce nel comma 2 che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, non potendo la legge in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
La duplice dimensione della salute – individuale e collettiva – fornisce la misura della complessità di tale concetto, evidenzia anche il potenziale conflitto tra le due dimensioni, il quale può deflagrare in relazione all’applicazione di un trattamento sanitario ove, rivendicandosi l’indisponibilità del diritto individuale alla salute, si rischi non solo di compromettere la stessa sopravvivenza del suo titolare, ma anche e soprattutto di mettere a repentaglio la salute della collettività, come appunto nel caso del rifiuto individuale di vaccinarsi a fronte di una pandemia.
Come chiarito dalla Corte costituzionale, tale conflitto può essere governato solo mediante il principio del contemperamento, il cui punto di equilibrio, ove la tutela della dimensione collettiva della salute postuli l’obbligo di un trattamento sanitario, può essere individuato solo per disposizione di legge, preservando comunque il nucleo essenziale del diritto individuale alla salute consistente nel rispetto della persona umana.
Al di là dell’esatta natura della riserva di legge di cui all’art. 32, appare più che ragionevole che la legge imponga specificamente l’obbligo di un determinato trattamento sanitario, mediante un esplicito ed inequivoco richiamo di tale trattamento, e non in modo generico, suscettibile di diverse e fuorvianti interpretazioni.

2. Se è indiscutibile che per imporre l’obbligo vaccinale alla generalità dei cittadini occorra una legge ad hoc, ci si chiede se, nei contesti lavorativi, in cui già esistono disposizioni legislative volte a tutelare la salute e la sicurezza di chi lavora, queste ultime possano essere considerate anche già attuative della riserva di legge costituzionale, potendosi quindi fondare su di esse l’obbligo vaccinale.
In effetti, esistono già casi in cui certi trattamenti sanitari sono configurati come misure di prevenzione per i lavoratori risultando obbligatori in forza di una o più disposizioni di legge. Si pensi all’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione antitetanica per tutte le categorie di lavoratori indicate dalla l. n. 292/1963. Oppure alle visite effettuate dal medico competente nell’ambito della sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 81/2008, le quali, in quanto accertamenti diagnostici, costituiscono inequivocabilmente trattamenti sanitari la cui obbligatorietà trova esplicito fondamento in specifiche disposizioni di legge (artt. 20, comma 2, lett. i, 41, 42 e 18, comma 1, lett. g, del d.lgs. n. 81/2008).

3. Una delle disposizione di legge su cui si è tentato di far leva per sostenere la sussistenza dell’obbligo vaccinale è l’art. 2087 c.c., il quale configura l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro imponendogli di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, tutelino l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Una norma da cui quale traspare che i lavoratori, in quanto creditori dell’obbligo di sicurezza datoriale, debbono cooperare all’adempimento di tale obbligo rispettando le misure di prevenzione adottate dal datore di lavoro ex art. 2087 c.c. Una cooperazione creditoria non semplicemente onerosa, ma doverosa perché l’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro è posto non solo nell’interesse di ogni lavoratore/creditore in virtù di ogni singolo contratto individuale di lavoro, ma anche nell’interesse di tutta la compagine aziendale affinché l’organizzazione dell’impresa nel suo complesso sia salubre e sicura. D’altronde, l’art. 2087 c.c. individua al plurale – «prestatori di lavoro» – chi beneficia dell’attività di prevenzione che grava sull’imprenditore, laddove tutte le altre norme del codice civile relative al contratto di lavoro si riferiscono al «prestatore di lavoro» sempre solo al singolare.
Senonché, si può dubitare che l’art. 2087 c.c. possa essere chiamato in causa in merito alla questione dell’obbligo vaccinale. Ciò non tanto perché l’art. 29-bis del “decreto liquidità” lo avrebbe sterilizzato, prevedendo che i datori di lavoro adempiono l’obbligo di sicurezza solo mediante il rispetto dei protocolli. L’impossibilità di invocare l’art. 2087 c.c. a fondamento dell’obbligo vaccinale deriva soprattutto dal fatto che, pur potendosi qualificare la vaccinazione come una misura di prevenzione, essa tuttavia non cessa per ciò stesso di essere innanzitutto un “trattamento sanitario”.
Pur condividendo con le altre misure di prevenzione la finalità di tutelare la salute del lavoratore, il trattamento sanitario presenta un elemento fenomenologico aggiuntivo in quanto il lavoratore è sottoposto ad una specifica attività medica che riguarda la sua sfera personalissima e interagisce direttamente con la sua dimensione psico-fisica. Un elemento assente nelle altre misure di prevenzione, le quali al più incidono, in termini comportamentali, sul modo in cui il lavoratore esegue la prestazione: si pensi all’uso dei dispositivi di protezione individuali o collettivi o alle altre misure relative all’organizzazione del lavoro.
Ben può il vaccino costituire una misura di prevenzione purché però si consideri e si rispetti la sua peculiare natura di trattamento sanitario che, in quanto tale, per la sua intima relazione con la sfera personalissima del lavoratore, non può essere imposto se non per specifica disposizione di legge ai sensi dell’art. 32 Cost. E deve trattarsi di una legge statale e non regionale, vertendosi qui in una materia – quella della «profilassi internazionale», comprensiva, come ha affermato la Corte costituzionale proprio a proposito della Covid-19, «di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla» – di esclusiva competenza dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. q, Cost.

4. La riserva di legge di cui all’art. 32, comma 2, Cost. non può dirsi soddisfatta neppure dall’art. 20 del d.lgs. n. 81/2008, nel quale non si rinviene alcun esplicito fondamento ad un obbligo di vaccinazione sia là dove individua l’ampia gamma di comportamenti doverosi del lavoratore (comma 2, lett. a, b, c, d,), sia quando obbliga il lavoratore a prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni (comma 1): una formulazione troppo generica rispetto a quanto richiesto a livello costituzionale.

5. La riserva di legge dell’art. 32, comma 2, Cost. non si invera neppure nell’art. 279 del d.lgs. n. 81/2008, inserito nel Titolo X di tale decreto dedicato agli agenti biologici, il quale, dopo aver previsto al comma 1 che, ove l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità, i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, al comma 2 stabilisce che il «datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42».
Infatti, la messa a disposizione dei vaccini efficaci costituisce solo una delle misure speciali di protezione, nominate e non, evocate dal legislatore, ponendosi in una logica di alternatività con le altre. D’altronde, lo stesso art. 279, al comma 5, prevedendo che il medico competente fornisce ai lavoratori adeguate informazioni sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione, inquadra l’intervento vaccinale più in termini di opportunità che di obbligo. E, peraltro, affidando la somministrazione dei vaccini al medico competente, l’art. 279, comma 2, lett. a, fornisce una indicazione sul metodo della vaccinazione, ma non sulla sua obbligatorietà.
Le previsioni dell’art. 279 sulle vaccinazioni debbono essere comunque interpretate nel senso che l’obbligo dei lavoratori a sottoporsi alle stesse, in quanto trattamenti sanitari, richiede comunque un’esplicita disposizione di legge che integri la generica previsione dell’art. 279. Una conclusione che si imporrebbe anche ove si pretendesse di interpretare in senso estensivo l’art. 279, vale a dire ritenendo che il suo riferimento all’«agente biologico presente nella lavorazione» (comma 2, lett. a) riguardasse anche rischi biologici non specifici o professionali. Un’interpretazione estensiva che, a ben guardare, sarebbe però preclusa dal fatto che, come altre disposizioni del Titolo X, anche l’art. 279 è presidiato da sanzioni penali (art. 282, comma 2, lett. a) e, in quanto tale, è soggetto a stretta interpretazione ex art. 14 delle preleggi.

6. Per altro verso, la necessità di un’esplicita legge ad hoc non è smentita dal fatto che la direttiva della Commissione 2020/739 del 3 giugno 2020 abbia modificato l’allegato III della direttiva 2000/54/CE inserendo il SARS-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici che possono causare malattie infettive nell’uomo, inquadrandolo nel gruppo 3 degli agenti biologici. Infatti, la classificazione del SARS-CoV-2 – ora esplicitamente contemplato nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008 – non comporta per ciò stesso l’insorgenza dell’obbligo vaccinale contro tale virus. Poiché alcuni adempimenti previsti dallo stesso Titolo X (come quelli connessi alla valutazione dei rischi) variano a seconda del tipo di agente biologico con cui si ha a che fare, quella classificazione d inciderà solo sull’entità di tali adempimenti, ovviamente sempre in relazione alle “attività lavorative” cui è applicabile il Titolo X.

7. D’altra parte, un obbligo vaccinale non potrebbe essere previsto neppure dalle parti sociali, essendo demandato solo al legislatore il potere di effettuare il bilanciamento fra libertà del singolo e tutela della salute pubblica presupposto dall’art. 32 Cost. E correttamente il «Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro» del 6 aprile 2021 ha ribadito il carattere volontario dell’adesione, sia dal lato del lavoratore sia del datore di lavoro.

8. In termini più generali, il fondamento dell’obbligo vaccinale non può neppure rinvenirsi nella sostanziale equiparazione fra vaccini obbligatori e vaccini raccomandati che la Corte costituzionale ha istituito solo in relazione all’indennizzo da riconoscere a coloro che abbiano subìto danni a seguito di procedure vaccinali. Cosicché, nessun sostegno all’obbligatorietà della vaccinazione può rinvenirsi nella evidente logica di raccomandazione che permea sia le disposizioni della legge di bilancio 2021 sia il conseguente Piano strategico per la vaccinazione.

9. La mancanza di una specifica legge che ponga l’obbligo vaccinale non significa tuttavia che la mancata vaccinazione non possa produrre alcuna conseguenza. È ovvio che ogni considerazione in merito a ciò presuppone la piena disponibilità dei vaccini. Senonché, nel momento in cui, anche grazie agli importanti impegni assunti con il Protocollo del 6 aprile 2021, la campagna vaccinale potrà finalmente raggiungere capillarmente tutti i lavoratori, sarebbe irragionevole che l’omessa vaccinazione fosse del tutto irrilevante.
Sebbene l’art. 279 del d.lgs. n. 81/2008 non possa costituire il fondamento per l’obbligo alla vaccinazione, tuttavia, pur nell’ambito della propria applicazione, esso delinea un modello regolativo volto a valorizzare i vaccini delineando significative conseguenze nel caso in cui non si intenda accettarli. Un modello rinvenibile anche alla luce delle disposizioni generali del Titolo I del d.lgs. n. 81/2008 al di là dello specifico ambito di applicazione del Titolo X e che risponde correttamente al principio sancito dall’art. 2087 c.c.
Il primo tassello di tale modello risiede nell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008 là dove prevede che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, tra l’altro, «in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione». In effetti, non può dubitarsi che il grado della prevenzione e protezione sia decisamente mutato nel momento in cui è divenuto disponibile un vaccino presumibilmente efficace. Infatti, mediante la vaccinazione il rischio non è più solo contenibile, attraverso dispositivi di protezione individuale o collettiva, ma è potenzialmente – con tutte le riserve del caso – eliminabile alla fonte, in una logica di prevenzione primaria. In altri termini, la disponibilità del vaccino impone una revisione della valutazione dei rischi in funzione della possibile eliminazione del fattore di rischio piuttosto che un suo semplice contenimento e/o riduzione, cui si è fatto affidamento sinora.
Peraltro, poiché l’art. 29, comma 3, prevede che, a seguito della rielaborazione della valutazione del rischio, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate, non potendosi imporre l’obbligo vaccinale in mancanza di una legge ad hoc, non si potrà tuttavia non prevedere una diversa cadenza o, addirittura, la stessa attivazione della sorveglianza sanitaria.
Il secondo tassello, dunque, si rinviene nell’art. 41, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 81/2008 là dove si occupa della visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica, prevedendo che la periodicità di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, sia stabilita, di norma, in una volta l’anno, potendo peraltro assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio. Pertanto, essendo stata aggiornata la valutazione dei rischi, il medico competente dovrebbe modificare la cadenza per la visita periodica sottoponendo il prima possibile i lavoratori alla relativa visita. In tal senso soccorre l’art. 18, comma 1, lett. g, del d.lgs. n. 81/2008 in cui si afferma che il datore di lavoro invia i lavoratori a visita, ma sollecita anche il medico competente al rispetto dei propri obblighi, tra cui l’effettuazione della sorveglianza sanitaria.
E sarà in occasione di tale visita – ecco il terzo tassello – che il medico competente valuterà l’idoneità dei lavoratori alle proprie mansioni alla luce del fatto che si siano vaccinati o meno, potendo esprimere un giudizio di inidoneità (con quanto ne conseguirà ex art. 42) ove ritenga che, nonostante l’utilizzo degli altri dispositivi di protezione, il singolo lavoratore sia esposto (e/o esponga altri) ad un rischio eccessivo che sarebbe scongiurabile mediante la vaccinazione. Un giudizio, sia chiaro, che va espresso caso per caso, senza alcuna generalizzazione o pregiudiziale, dovendosi valutare attentamente se nel singolo caso di specie la mancata vaccinazione incida o meno sull’idoneità alla mansione.
In tal modo, senza forzature rispetto all’art. 32 Cost. e avvalendosi del giudizio tecnico espresso dal soggetto che la legge gli affianca per valutare l’idoneità dei lavoratori, il datore di lavoro potrà garantire la sicurezza dei lavoratori unitamente a quella dell’ambiente di lavoro, a maggior ragione ove questo sia frequentato anche da altri soggetti; e, ovviamente, sarebbe posto al riparo da eventuali contestazioni essendo stato supportato dal giudizio del medico. Un giudizio, quest’ultimo, oltretutto sindacabile da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell’art. 42, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008. In tal modo, si eviterebbe di affidare al soggettivismo datoriale un’iniziativa che, in quanto volta a tutelare l’interesse collettivo, pubblico e generale, non dovrebbe prestare il fianco a dubbi e incertezze.
Sotto altro profilo, va considerato che il dato della vaccinazione è un dato sensibile che può porre seri problemi in termini di tutela della privacy, considerato che, secondo l’opinione espressa dal Garante, il datore di lavoro non può accedere a simili informazioni. Quindi, anche in questo senso appare necessario l’intervento del medico competente.

10. Il dibattito sull’obbligo vaccinale si è di recente arricchito di un importante elemento, avendo il legislatore, con l’art. 4 del d.l. n. 44/2021, introdotto l’obbligo vaccinale per «gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali». Al di là dei contenuti specifici di tale decreto, che esulano da questo intervento, vanno qui segnalate le sue ricadute sistematiche anche al di là del suo campo di applicazione.
La prima di tali ricadute è la conferma della necessità che l’obbligo vaccinale per la generalità dei lavoratori, o solo per alcune categorie, sia posto da una specifica disposizione di legge ad hoc ai sensi dell’art. 32, comma 2, Cost., non essendo altrimenti possibile rinvenire il fondamento giuridico di una pretesa siffatta nei confronti del prestatore di lavoro.
La seconda ricaduta riguarda le conseguenze dell’inidoneità alla mansione causata dalla mancata vaccinazione. Il d.l. n. 44/2021 prevede infatti che, ove non siano disponibili mansioni diverse, anche inferiori, a cui il lavoratore potrebbe essere adibito – senza peraltro la garanzia del mantenimento del trattamento retributivo originario – il lavoratore sia sospeso senza retribuzione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, così escludendo implicitamente il licenziamento, tanto disciplinare, che per giustificato motivo oggettivo.
Se la scelta di escludere il licenziamento può essere comprensibile, anche a fronte delle incertezze che ancora circondano i vaccini, dalla sopravvenuta disciplina speciale del d.l. n. 44/2021 potrebbe, però, emergere una irragionevole e ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei lavoratori estranei all’ambito di applicazione del d.l. n. 44/2021, per i quali la vaccinazione non è un obbligo ma un onere.
Questi, infatti, in esito alla valutazione d’inidoneità alla mansione ex art. 42 del d.lgs. n. 81/2008, potrebbero correre il rischio – ove non fossero disponibili mansioni diverse “non di contatto”, anche inferiori, in questo caso con la conservazione del trattamento “di provenienza” – di essere licenziati per giustificato motivo oggettivo (quando cesserà il blocco dei licenziamenti). Una conseguenza paradossale considerando che i “non obbligati” verrebbero penalizzati ben più degli “obbligati”.
Di qui la necessità di adottare per i “non obbligati” un’interpretazione costituzionalmente orientata (alla luce dell’art. 3 Cost.) dell’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 che escluda la extrema ratio del licenziamento, ferma restando però la difficoltà di capire cosa accada ove non siano disponibili mansioni “non di contatto”, poiché la sospensione senza retribuzione prevista per gli “obbligati” potrebbe forse rappresentare un rimedio eccessivo per chi obbligato non è.
Così come, per altro verso, resta impregiudicata l’oggettiva difficoltà, al di fuori del campo di applicazione del nuovo decreto, di accedere a un’interpretazione dell’inidoneità come necessariamente temporanea, stante la problematica definizione, da parte del medico competente, dei limiti temporali di validità della stessa, secondo quanto richiesto dall’art. 41, comma 7, del d.lgs. n. 81/2008.
Onde evitare un problematico “effetto domino” potrebbe dunque essere opportuno un ritocco legislativo che, pur confermando le regole più stringenti per i soggetti destinatari dell’obbligo vaccinale chiamati in causa dal d.l. n. 44/2021, non trascurasse di considerare i problemi che affiorano negli altri contesti produttivi. In questi ultimi, fermo restando l’intreccio delle previsioni del d.lgs. n. 81/2008 sulla valutazione dei rischi e sulla sorveglianza sanitaria, sarebbe opportuna una specifica ridefinizione legislativa in parte qua delle conseguenze della valutazione d’inidoneità, la cui esigenza resta attuale nonostante che la legge di conversione del decreto (l. n. 76/2021) non l’abbia purtroppo avvertita.

 

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