Testo integrale con note e bibliografia

Mi è stato chiesto di esaminare l’art. 4 del D.L. n. 44/2021 nel prisma della responsabilità civile ed è pertanto da tale prospettiva che mi accingo a svolgere qualche considerazione.

Un primo ordine di considerazioni ritengo vadano svolte in ordine alle responsabilità che possono scaturire dalla mancata vaccinazione dei soggetti obbligati a sottoporvisi, argomento per trattare il quale ritengo opportuno premettere alcuni cenni in tema di responsabilità civile delle strutture sanitarie.
È noto che la RC delle strutture sanitarie nei confronti del paziente, attualmente disciplinata dalla legge Gelli-Bianco, ha natura contrattuale ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. Pertanto, il paziente che ritenga di essere stato danneggiato in occasione di un trattamento sanitario o comunque di permanenza all’interno di una struttura sanitaria gode di quello che viene comunemente anche se non propriamente indicato come ribaltamento dell’onere della prova, rispetto allo schema di cui all’art. 2697 c.c. il cui contenuto è stato cristallizzato dalla interpretazione delle sezioni unite con la nota decisione 13533/2001 secondo cui “nel caso in cui sia dedotto l’inadempimento dell’obbligazione, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento ovvero l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità dovuta a causa a lui non imputabile”.
Recentemente, nello specifico ambito della responsabilità sanitaria, la giurisprudenza ha apportato un importante correttivo a tale ripartizione dell’onere probatorio chiarendo che il paziente, oltre ad allegare l’inesattezza dell’inadempimento, deve altresì provare la sussistenza del nesso causale tra l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e la condotta della struttura o del sanitario. (vedi Cass. 18392/2017).
Dall’applicazione di tali principi nell’ambito della responsabilità sanitaria discende che il paziente che intenda agire nei confronti di una struttura per avergli provocato/non aver impedito una infezione correlata all’assistenza (tra le quali ben può rientrare il COVID-19), non può più limitarsi ad affermare che l’infezione è stata da lui contratta all’interno di una struttura per responsabilità di quest’ultima, ma deve altresì provare che l’infezione è avvenuta all’interno della struttura. Quest’ultima prova, tutt’altro che agevole quando la presenza dell’agente infettivo sia diffusa anche all’esterno delle strutture sanitarie (come avviene per il Covid), diventa però relativamente agevole nel caso di pazienti lungodegenti che non possano aver contratto l’infezione altro che all’interno della struttura. Ultimo elemento che il danneggiato deve provare è che il danno (nell’ipotesi, la morte) sia stato causato dall’infezione e qui ci troviamo di fronte ad altra prova che può essere molto difficile fornire specie laddove non sia stata eseguita l’autopsia sulla vittima. Inoltre, poiché il Covid sembra essere letale soprattutto per i soggetti già afflitti da altre patologie, i parenti delle vittime dovranno dare prova che il congiunto è deceduto “a causa del covid” e non “con il covid”, cioè che l’infezione è stata la causa del decesso e non solo una patologia in corso al momento del decesso.
Chiariti i limiti del c.d. “ribaltamento dell’onere della prova”, possiamo passare ad esaminare la difficile prova che deve essere fornita dalla struttura in materia di i.c.a. (infezioni correlate all’assistenza) che dovrà estendersi alla dimostrazione di aver correttamente adempiuto a tutti gli adempimenti necessari al fine di contrastare la diffusione del covid all’interno della struttura.
Come accennato in precedenza, nell’ambito della responsabilità contrattuale si è soliti indicare come “ribaltamento” la particolare gravosità dell’onere probatorio che incombe sul creditore che, nel caso di specie, è rappresentato dalle strutture sanitarie: poniamoci quindi nell’ottica di capire come le strutture sanitarie possano assolvere a detto onere probatorio a fronte di una richiesta risarcitoria.
A tal proposito, l’art. 1218 c.c. prevede che il debitore debba dare alternativamente prova di aver correttamente adempiuto, ovvero che il mancato adempimento è dipeso da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (dal cd. “Decalogo di San Martino” Cass. 28991 e 28992 del 11.11.2019, sul doppio ciclo causale).
Applicando tale principio di diritto al caso di specie, la struttura dovrà alternativamente provare o di aver correttamente adempiuto la prestazione consistente nel prevenire e contrastare il diffondersi dell’infezione all’interno della struttura, ovvero che ciò è stato impossibile per causa a sé non imputabile.
Esaminiamo il primo scenario, cioè la prova del corretto adempimento della prestazione, per assolvere al quale, nella prassi giudiziaria è comune assistere alla produzione ad opera della struttura della documentazione attinente alla puntuale esecuzione delle prestazioni relative alle operazioni di pulizia, alla sanificazione, alle sterilizzazione delle sale operatorie, dei macchinari e del materiale (tra un intervento e l’altro, a fine giornata e mensilmente), della pulizia e manutenzione delle bocchette di aerazione degli impianti di condizionamento.
Al fine di essere in grado di assolvere a tale gravoso onere probatorio rispettando le tempistiche imposte dalle decadenze processuali, ormai quasi tutte le strutture sono dotate di un apposito ufficio che si occupa di raccogliere tutta la documentazione relativa alle operazioni svolte a tal fine all’interno della struttura in modo da poterla mettere rapidamente a disposizione dei legali in modo che questi ultimi possano tempestivamente esaminare e se del caso produrla negli eventuali procedimenti giudiziari.
E’ solo il caso di osservare che si assiste talvolta in giurisprudenza a un atteggiamento oltremodo rigoroso che estende l’onere probatorio a carico della struttura al punto di richiedere la prova che la causa del sinistro sia da ricercare in un antecedente estraneo alla propria organizzazione (cioè, in relazione al Covid, che l’infezione sia stata contratta all’esterno della struttura): non si condivide tale atteggiamento soprattutto dopo che, come illustrato in precedenza, l’onere della prova sulla sussistenza del nesso causale è stata riportata in capo al danneggiato.
Come accennato in precedenza, laddove la prestazione sia rimasta inadempiuta perché la struttura non è stata in grado di fare quanto sarebbe stato necessario per prevenire il diffondersi dell’infezione, la responsabilità può comunque essere evitata dal debitore provando che tale prestazione era impossibile. Le cronache della prima e in parte della seconda ondata forniscono numerosi spunti che, debitamente provati, potrebbero assurgere a prova di tale impossibilità: mancanza dei dispositivi di protezione individuale e/o di prodotti disinfettanti per loro indisponibilità sul mercato; carenza di personale dovuta a malattia, eccessivo numero di pazienti, etc. etc.
Premessi tali cenni, è ora possibile passare ad esaminare più nel dettaglio la disposizione in esame osservando innanzitutto che il rispetto della stessa rientra certamente nell’ambito dell’oggetto delle prestazioni che la struttura dovrà provare di aver correttamente adempiuto per andare esente da responsabilità.
Da ciò discende che la puntuale applicazione di tali norme è fondamentale per evitare l’insorgere di possibile responsabilità civile della struttura e costituirà verosimile oggetto di indagine peritale a fronte di domande risarcitorie proposte nei confronti della struttura.
Le considerazioni svolte fino a questo momento dovrebbero indurre i responsabili delle strutture sanitarie ad applicare in modo molto rigoroso le disposizioni in tema di vaccinazione perché ogni eventuale violazione può essere facilmente accertata in sede di eventuale contenzioso promosso dai pazienti e potrebbe comportare la responsabilità diretta della struttura verso i pazienti.
Le considerazioni esposte in precedenza, inoltre, ritengo possano fungere da bussola anche per dare indicazioni utili a guidare l’interprete nell’affrontare la questione di cui hanno accennato i relatori che mi hanno preceduto circa la interpretazione della norma che individua i soggetti obbligati alla vaccinazione.
Non rientra nelle mie competenze avventurarmi nel complesso bilanciamento degli interessi costituzionalmente garantiti che vengono interessati dalla norma in esame ma, scendendo ad argomenti interpretativi basati sulla legislazione ordinaria, mi pare che i criteri indicati dall’art. 12 delle preleggi siano prevalentemente orientati nel senso di consigliare una lettura, se non estensiva, quantomeno equilibrata che includa la quasi totalità del personale dipendente delle strutture sanitarie.
Innanzitutto, mi pare vi siano chiari indici letterali in tal senso: l’art. 4 comma 3 prevede espressamente che l’obbligatorietà riguardi “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario”. La espressa previsione di una categoria ulteriore rispetto a quella degli esercenti le professioni sanitarie mi pare un chiaro indice del fatto che l’obbligo riguardi anche soggetti diversi dal personale sanitario. Inoltre, tale ulteriore categoria risulta individuata e perimetrata dal successivo comma 3 che obbliga le strutture a comunicare l’elenco di tutti i propri dipendenti: la previsione dell’obbligo per i soli dipendenti può far sorgere il dubbio se tale obbligo si estenda anche agli operatori a qualsiasi titolo operante presso le strutture sanitarie o vada limitato ai soli dipendenti. Pare a chi scrive che non vi siano elementi che debbano indurre ad estendere tale obbligo oltre il novero dei dipendenti, anche tenuto conto del fatto che l’art. 7 c. 1. della legge Gelli prevede la responsabilità civile della struttura solo per i danni causati dal personale non dipendente ma solo limitatamente agli esercenti le professioni sanitarie operanti nella struttura (i quali sono comunque soggetti all’obbligo di vaccinazione). Al più, può ipotizzarsi un dovere di controllo della struttura circa l’avvenuta vaccinazione del personale sanitario a qualsiasi titolo operante presso la struttura.
Ad analoghe conclusioni induce l’interpretazione teleologica della norma: essendo evidente la finalità di prevenzione del contagio all’interno delle strutture sanitarie e potendo lo stesso essere veicolato tanto dal personale sanitario quanto da altri dipendenti che operino all’interno della struttura, non pare esserci ragione per escludere dall’obbligo di vaccinazione il personale non sanitario, se non nei limiti in cui le mansioni cui tale personale è addetto e il luogo di lavoro (del tutto separato da quello ove vengono erogate le prestazioni sanitarie) rendano impossibile ogni contagio da parte del personale della struttura nei confronti dei pazienti.
Concludo osservando che quanto esposto fino a questo momento si basa sul presupposto (dato per scontato dal legislatore e fortemente auspicato da tutti) che la vaccinazione anti-covid costituisca una barriera che impedisca con sicurezza quasi certa la trasmissione dell’infezione da parte dei soggetti vaccinati. Le notizie di stampa, tuttavia, riferiscono di efficacia variabile tra i diversi vaccini, tra la prima e la seconda dose e nei confronti delle varianti dello stesso e di quelle future, con percentuali oscillanti da poche decine di punti fino alla quasi certezza. Questa variabilità dell’effetto protettivo potrebbe avere pesanti ripercussioni su quanto detto finora perché presupposto della responsabilità civile è la sussistenza del nesso causale che (allo stato attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, è bene precisarlo, perché non è sempre stato così e forse non sarà più così in futuro o, almeno, io auspico che il criterio oggi utilizzato venga abbandonato) viene ritenuto sussistente ogniqualvolta tra la possibile causa e l’evento vi sia un rapporto di probabilità superiore al 50%. Qualora dovesse risultare che l’efficacia del vaccino nel contrastare la trasmissione del virus fosse inferiore al 50%, verrebbe meno l’efficienza causale della eventuale violazione della norma, con la conseguenza che non si avrebbe alcuna ipotesi di responsabilità verso gli ospiti anche qualora dovesse risultare la mancata vaccinazione di uno o più operatori.
Ma si tratta di uno scenario che mi piace pensare irreale perché confido che l’efficacia dei vaccini ci porti rapidamente al superamento della pandemia.

Cambiando ora prospettiva vorrei svolgere qualche considerazione ulteriore cambiando diametralmente prospettiva e, cioè, passando dall’ottica della responsabilità per mancata vaccinazione a quella derivante dalla vaccinazione, ossia in relazione ai danni che possono essere subiti dai soggetti che abbiano ricevuto il vaccino.
L’art. 3 delle disposizioni in esame prevede un’esenzione penale per le responsabilità penali derivanti dalla somministrazione del vaccino effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria, purchè “l'uso del vaccino e' conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”.
Si tratta di una norma sicuramente opportuna perché va a prevedere uno “scudo” per il personale sanitario che non sarebbe stato altrimenti “protetto” dalle disposizioni contenute nella legge Gelli in quanto l’esenzione di responsabilità prevista da quest’ultima all’art. 6 richiede che il comportamento del sanitario sia conforme a “raccomandazioni previste dalle linee guida come de-finite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali”: si tratta di requisiti che difficilmente potrebbero sussistere in relazione all’attività di vaccinazione.
Nulla, invece, la disposizione in esame stabilisce per quanto riguarda la responsabilità civile, mentre sarebbe necessaria una disciplina più rigorosa sul tema, perché la responsabilità per danni da vaccino è stata variamente qualificata nella prassi giudiziaria. Per esemplificare, sono state promosse alcune azioni nei confronti del ministero della salute per mancato rispetto degli obblighi di controllo, oltre che contro gli operatori sanitari: tale strategia mira all’accertamento di una responsabilità soggettiva che impone al danneggiato l’onere di provare quali attività di vigilanza sono state commesse o non sono state poste in essere dal ministero o dai sanitari. Contro quest’ultimi, la maggior parte delle azioni giudiziarie imputa non tanto l’errore nell’atto medico , quanto la mancata raccolta del consenso informato del paziente. A questo proposito segnalo che opportunamente c’è stata un’integrazione da parte del decreto legge n. 1/21 per quanto riguarda la raccolta del consenso degli incapaci ricoverati nelle strutture (norme la cui applicazione è poi stata opportunamente estesa anche agli altri incapaci anche non ricoverati dall’art. 5 del D.L. 44/2021), cosicchè i sanitari possano più agevolmente assolvere alla necessaria raccolta del consenso.
Altro soggetto potenzialmente responsabile per i danni da vaccinazione è il produttore del vaccino. In questo caso l’attore ha a disposizione una pluralità di alternative: è possibile applicare la normativa in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (Direttiva 85/374/CEE) oppure quella sulla responsabilità per attività pericolose, come stabilito dalla cassazione con sentenza 6241/1987.
Tuttavia, al fine di salvaguardare gli interessi dei danneggiati, garantendo loro un indennizzo anche nel caso non fossero in grado di assolvere all’onere probatorio richiesto per la sussistenza delle normali fattispecie di responsabilità civile, il legislatore con legge 25.2.1992 n. 210 ha previsto un indennizzo per i danni da vaccinazione obbligatoria e la Corte Costituzionale con sentenza 118/2020, già applicata dalla Cassazione con sentenza 7354/2021, ha poi esteso l’applicazione di tali disposizioni anche ai vaccini che, pur non obbligatori, siano fortemente raccomandati categoria in cui rientra sicuramente anche la vaccinazione da sars-covid per tutti i cittadini. Tale disposizione garantisce un indennizzo (quindi una somma inferiore al pieno risarcimento del danno subito) ma agevola notevolmente il danneggiato sotto il profilo probatorio richiedendo solo la prova del nesso di causalità tra vaccino e danno (che viene accertato dalla Commissione medica ospedaliera), requisito che al momento viene indagato con particolare attenzione nei casi sospetti anche al fine di accertare eventuali controindicazioni ed è pertanto agevolmente dimostrabile nei casi ove sussista.
Concludo con una domanda che mi permetto di porre agli altri relatori in quanto esulante dalla mia competenza: il danno da vaccino subito da un operatore sanitario, potrebbe qualificarsi come malattia o infortunio professionale? Il dubbio mi sorge perché la vaccinazione è obbligatoria solo per il personale sanitario, quindi ragione dell’attività lavorativa. E, allora, se il danno promana dalla inoculazione di un vaccino che non discende da un obbligo generale ma specifico per la categoria lavorativa, sarebbe corretto dire che è un evento correlato allo svolgimento di mansioni lavorative e, quindi, pensare di far ricadere tale evento tra le malattie o gli infortuni professionali?

 

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