Testo integrale con note e bibliografia

Sommario: 1. La misurazione della rappresentanza datoriale ai fini della contrattazione collettiva. – 2. Dal pluralismo competitivo della rappresentanza dei lavoratori al pluralismo competitivo della rappresentanza dei datori di lavoro. – 3. La questione dei cd. “perimetri”. – 4. I criteri di misurazione della rappresentatività. – 5. Riflessioni sull’opportunità della fissazione dei criteri e della certificazione dei dati di rappresentatività datoriale e sindacale.

1. La misurazione della rappresentanza datoriale ai fini della contrattazione collettiva
La misurazione della rappresentanza datoriale è profilo di estrema attualità; esso è anzi vitale, per il funzionamento, non solo del sistema di relazioni sindacali, ma anche dell’intero sistema del diritto del lavoro italiano, visto che neppure dopo il Jobs Act si è interrotta la tecnica della integrazione tra disposizioni legali e disposizioni contrattuali ai fini della disciplina di diversi istituti .
Il compito coregolativo – di nuova generazione rispetto ai rinvii contenuti nel codice civile – è tuttavia stato assegnato solo a sindacati qualificati, prima ai sindacati maggiormente rappresentativi, poi ai sindacati comparativamente più rappresentativi. Detto per inciso, il motivo del passaggio dalla primitiva formulazione (sindacato maggiormente rappresentativo) a quella odierna (sindacato comparativamente più rappresentativo) non è affatto limpido e non è mai stato conclusivamente individuato.
Tralasciando di soffermarsi dettagliatamente sul punto e sulla corposa letteratura che ne è scaturita , accenno solo al fatto che, se si considera che la formula compare per la prima volta nella l. 28 dicembre 1995, n. 549, sul contratto collettivo da prendere a riferimento per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali, nel caso di concorrenza di più contratti collettivi nello stesso ambito di riferimento (o categoria), essa avrebbe l’ambizione di far fronte al pluralismo competitivo tra associazioni sindacali, non solo dei lavoratori, ma anche dei datori di lavoro.
È, questo, il fenomeno di nuova emersione, neppure considerato dal costituente nell’ultimo comma dell’art. 39 Cost. .

2. Dal pluralismo competitivo della rappresentanza dei lavoratori al pluralismo competitivo della rappresentanza dei datori di lavoro
Va sottolineato un secondo punto nelle tappe di avvicinamento al tema. Intoppi nel funzionamento dei sistemi di relazioni industriali si intravedono un po’ ovunque, specie dove il contratto nazionale è (o è stato) tradizionalmente baricentrico. Però bisogna prestare attenzione a non fare di tutte le erbe un fascio.
In particolare, dal punto di vista analitico, bisogna distinguere il caso in cui il pluralismo competitivo concerna le sole associazioni sindacali dei lavoratori – e comunque quelle appartenenti allo stesso ordine contrattuale – come è avvenuto per un certo periodo in Italia a fronte di una rappresentanza datoriale monolitica; ed il caso in cui la frammentazione sindacale concerna anche la parte datoriale con creazione di diversi ordini contrattuali, come parimenti sta avvenendo in Italia.
Non a caso, visto nel contesto italiano, il problema della misurazione della rappresentatività “sindacale” ai fini (dei diritti sindacali e) della contrattazione collettiva ha riguardato in primo luogo le associazioni sindacali dei lavoratori a seguito della rottura del fronte sindacale unitario. Come sappiamo, il sistema sindacale di fatto si è sempre retto sulla sostanziale unità d’azione dei sindacati dei lavoratori (ed in definitiva anche dei sindacati dei datori di lavoro), che ha consentito il risultato della unicità del contratto collettivo.
Ciò è tanto vero che negli anni ’80 è stata addirittura prospettata la tesi dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi . Gli accordi interconfederali a cavallo del primo decennio del nuovo secolo – culminati nell’accordo del 2014, cd. T.U. sulla rappresentanza – costituiscono la risposta emergenziale alla lacerante esperienza degli accordi separati. In buona sostanza quegli accordi costituivano il minimo perché il sistema potesse conservare una prospettiva di sopravvivenza .
Il problema che si pone oggi è quello di una pluralità di contratti che insistono nella medesima categoria; e ciò, evidentemente, a causa della rottura del monopolio della rappresentanza dei datori di lavoro . Bisogna essere consapevoli che si tratta di un aspetto qualitativamente diverso rispetto al precedente. E ciò segna il cambio di passo o la netta discontinuità tra gli accordi stipulati fino al 2016 e quello del 2018 .
L’accordo interconfederale del 28 febbraio del 2018 delinea il percorso per arrivare ad un “modello” di certificazione della rappresentatività datoriale, prima condizione, assieme alla verifica della rappresentatività delle associazioni sindacali dei lavoratori, per realizzare “quel sistema di relazioni sindacali previsto dal dettato costituzionale” cui allude l’accordo stesso.
La certificazione della rappresentanza datoriale si basa su un percorso, affidato al Cnel, articolato in tre tappe: a) la ricognizione dei “perimetri” della contrattazione collettiva nazionale di categoria al fine di “consentire alle parti sociali di valutarne l’adeguatezza rispetto ai processi di trasformazione in corso nell’economia italiana ”; b) la ricognizione dei soggetti firmatari dei contratti nazionali, “affinché diventi possibile, sulla base di dati oggettivi, accertarne l’effettiva rappresentatività” . Confindustria, Cgil, Cisl e Uil si impegnano a proporre l’adozione “a tutti i soggetti coinvolti” di regole che assicurino il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva e dei suoi contenuti; c) la terza fase si innescherebbe nel caso di raggiungimento di un accordo. Vi sarebbe la possibilità che “le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia” .

3. La questione dei cd. “perimetri”
L’accordo interconfederale affronta coraggiosamente il problema che ha sempre afflitto la discussione teorica sull’attuazione dell’art. 39 Cost., vale a dire quello della definizione della categoria, preliminare alla valutazione della rappresentatività dei sindacati, quali che ne siano i criteri.
È forte infatti il rischio che in caso di conflitto cd. giurisdizionale e dunque di definizione autoritativa della categoria (o del “perimetro”, come si esprime l’accordo interconfederale), vi sia un conflitto con il principio di libertà sindacale . Non è un caso che Giugni, fortemente consapevole dell’intangibilità della libertà sindacale, quando negli anni ’90, per dare attuazione ad un punto dell’accordo di concertazione del 1993, si fece promotore di una iniziativa legislativa volta a conferire efficacia generalizzata ai contratti collettivi, previde che gli ambiti, all’interno dei quali andava misurata la rappresentatività delle associazioni, dovessero essere indicati dagli stessi soggetti candidati alla misurazione .
Ed è quanto cerca di fare il nostro accordo interconfederale. Certo, se le parti sociali non riuscissero a trovare un accordo, spetterebbe al legislatore “perimetrare” gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi .
Ma forse questo è un problema che i giuristi italiani hanno sempre sopravvalutato, dal momento che l’effetto erga omnes postula inevitabilmente, appunto in caso di mancato accordo sulla categoria, un intervento autoritativo. Si tratta ovviamente di individuarne le modalità meno invasive. Ma, certo, non si può dimenticare che l’art. 39 Cost., che contiene il principio di libertà sindacale, va letto insieme al suo ultimo comma il quale, appunto, in caso di cd. conflitto giurisdizionale, postula inevitabilmente un intervento legislativo che definisca numeri e contorni delle categorie.
È interessante il caso tedesco per quanto attiene al principio dell’unicità/unità del contratto collettivo. Dopo diverse schermaglie giurisprudenziali, questo principio è stato positivizzato con la legge 3 luglio 2015, che ha disposto che “nel caso in cui si sovrappongano i campi di applicazione di contratti collettivi di contenuto diverso di diversi sindacati (contratti collettivi confliggenti), nello stabilimento devono applicarsi solo le norme del contratto collettivo del sindacato che al momento della stipula dell’ultimo contratto collettivo confliggente concluso nello stabilimento aveva nello stabilimento stesso la maggioranza degli iscritti con un rapporto di lavoro subordinato” .
Il principio è stato positivizzato al fine porre rimedio ai casi di concorrenza tra sindacati che rivendicano la stipulazione di diversi contratti collettivi, per la tutela del rispettivo gruppo professionale, all’interno della medesima unità produttiva. Il problema si è posto nel settore ferroviario: alcuni macchinisti si sono organizzati in un altro sindacato e non hanno accettato il contratto di categoria stipulato dal sindacato tradizionale. Il modello è stato seguito dai piloti del sindacato Cockpit e dai medici degli ospedali pubblici .
Fin dall’approvazione della proposta di legge da parte del Governo, la dottrina ha formulato critiche nei confronti dell’introduzione del principio dell’unicità del contratto collettivo, ritenendolo contrario al principio di libertà sindacale sancito dall’art. 9, co. 3, Grundgesetz .
La Corte costituzionale tedesca, investita della questione, con una sentenza molto attesa, l’11 luglio 2017 ha respinto le eccezioni di legittimità costituzionale, ritenendo ragionevole l’intervento legislativo in esame, pur limitativo della libertà sindacale, sul presupposto che esso intenda assicurare uno sviluppo collaborativo e meno conflittuale delle relazioni sindacali. È interessante l’argomentazione per cui il diritto di libertà sindacale implica che lo Stato deve intervenire per garantire un sistema efficiente di contrattazione collettiva . È un argomento interessante che va tenuto in considerazione, perché mette in guardia contro eccessive e paralizzanti enfatizzazioni del principio di libertà sindacale, che è in un certo senso caratteristica genetica della maggioritaria dottrina italiana.

4. I criteri di misurazione della rappresentatività
L’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018 nulla dice in ordine ai criteri utilizzabili per la misurazione della rappresentatività datoriale. Sul punto, diverse circolari ministeriali, che hanno preso posizione sulla nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo al fine dell’individuazione dei contratti collettivi da prendere a riferimento per la determinazione della retribuzione nel settore delle cooperative , della contribuzione previdenziale , dell’applicazione dell’art. 2, co. 2, d.lgvo n. 81/2015 , rinviano al numero complessivo delle imprese associate; al numero complessivo dei lavoratori occupati; alla diffusione territoriale (numero di sedi presenti nel territorio ed ambiti settoriali); al numero di contratti collettivi nazionali stipulati dall’associazione .
Sono sicuramente interessanti in proposito il dibattito e le conclusioni raggiunte nell’ordinamento francese, dove, infine, non si è ritenuto sufficiente il numero delle imprese associate, ma si è imposta una ponderazione con il numero dei dipendenti delle imprese associate .

5. Riflessioni sull’opportunità della fissazione dei criteri e della certificazione dei dati di rappresentatività datoriale e sindacale
Quali suggerimenti si possono trarre dalle indicazioni (peraltro incomplete) dell’accordo interconfederale del 2018? Forse l’indicazione di una via gradualistica, vale a dire l’opportunità della messa in opera, in via legislativa, di un meccanismo di misurazione della rappresentatività. E ciò a prescindere dalla sempiterna questione di una legge di attuazione dell’art. 39 Cost.
Recentemente è stata sottoscritta una convenzione tra INPS e CNEL finalizzata ad un censimento dei CCNL con lo scopo ultimo di individuare i contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi .
Ad oggi della ricognizione dei “perimetri” della contrattazione collettiva nazionale di categoria non si discute e neppure della successiva tappa prevista dall’accordo interconfederale.
È invece in pieno svolgimento il dibattito sull’opportunità di un intervento eteronomo che rafforzi le regole autonomamente forgiate dalle cd. parti sociali. Un dibattito reso possibile dalla proposizione sul piano teorico e, direi, dalla sempre più diffusa accettazione della tesi della portata non ostativa dell’art. 39, IIa parte, nei riguardi di un intervento legislativo che correli regole di democrazia sindacale ed efficacia del contratto collettivo. Nell’ambito di una interpretazione evoluzionista della norma costituzionale, l’art. 39 viene per così dire destrutturato per raggiungere risultati non dissimili da quelli raggiunti in altri ordinamenti (si pensi all’ordinamento francese) ma sulla base del solo principio di libertà sindacale e della legge ordinaria .
Se questa debba essere la via maestra non so; è certo però che la totale anomia non sembra più sostenibile.
Non si può ignorare che molti equilibri normativi del diritto del lavoro si basano su quella nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo che proprio la accentuata frammentazione della contrattazione collettiva nazionale – essenzialmente a causa della frammentazione della rappresentanza sindacale datoriale, che consente fenomeni di “law shopping” – ha reso in molti casi controversa, se non addirittura inapplicabile. Chi conosce, ad esempio, il contenzioso sui minimi retributivi nel settore delle cooperative (ex art. 7, l. n. 248/2007) l’ha potuto toccare con mano: se non ci si vuole appoggiare alla traballante costruzione del “fatto notorio” , per cui sarebbe “fatto” appunto “notorio” che i sindacati aderenti a CGIL, CISL, UIL sono comparativamente più rappresentativi, i giudici – quand’anche vi fosse consenso sui criteri della rappresentatività – non hanno gli strumenti in concreto per accertarne la ricorrenza ed effettuare la comparazione.
Ritengo che, a prescindere dalla disciplina della contrattazione collettiva, di questo problema il legislatore possa – e debba – farsi carico attribuendo ad una autorità amministrativa il compito di certificare – naturalmente dopo averne fissato i criteri – i dati sulla rappresentatività sindacale.
A prescindere dalla sempiterna questione della legge sindacale, forse almeno su questo una riflessione si imporrebbe.
Naturalmente resta il problema preliminare, vale a dire la definizione dell’ambito di applicazione del contratto nel cui ambito effettuare la misurazione della rappresentatività: ma può essere che dal censimento sopra ricordato emerga che le coincidenze oggettive tra i contratti collettivi esistenti siano già numerose. Là dove questa coincidenza non vi sia, l’ideazione di qualche meccanismo, del tipo commissione paritetica sulla contrattazione collettiva non sconosciuta ad altri ordinamenti, potrebbe essere d’aiuto.

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