TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Un nuovo Statuto del lavoro.
Il recente saggio “In tutte le sue forme e applicazioni” (Giappichelli, 2022), a firma di Adalberto Perulli e Tiziano Treu, si inserisce con particolare incisività e innovatività nell’attualissimo dibattito accademico, giurisprudenziale e politico sul tema dell’universalizzazione dei diritti sociali e del lavoro. L’opera rappresenta il punto di maturazione di un percorso di ricerca ed elaborazione concettuale che i due studiosi già da tempo hanno avviato.
Questo loro ultimo scritto propone un autentico rovesciamento della prospettiva regolativa tradizionalmente impiegata dal diritto del lavoro del dopoguerra: l’abbandono del modello dogmatico e assiologico della “grande dicotomia”, che contrappone lavoro subordinato e lavoro autonomo secondo un criterio di alterità strutturale, logica e valoriale, a vantaggio della fondazione di un nuovo Statuto del lavoro. Tale critica costituisce la base concettuale di una riformulazione in senso “forte” della stessa idea di universalismo delle tutele, in contrapposizione a una concezione “debole” dell’universalizzazione, che mi sembra abbia costituito il fondamento dei programmi di riforma sino ad ora implementati.
Lo statuto del lavoro proposto dai due autori è nuovo innanzitutto in senso strutturale: lo scritto muove dall’osservazione che il lavoro personale, nella sua essenza di attività resa dall’uomo nel “regno della necessità”, si mostra quale fenomeno unitario, nei suoi presupposti tanto materiali (la sua funzione economica, le condizioni della sua realizzazione, il legame con la persona umana), che sociali (lo stretto collegamento tra il lavoro e la cittadinanza sociale, la comunità politica, l’organizzazione economica).
È nuovo in senso logico: l’unificazione concettuale del lavoro impone il rovesciamento della prospettiva regolativa impiegata dal diritto del lavoro tradizionale, legato al metodo civilistico che predica la preminenza della “fattispecie” e costruisce tipologicamente le discipline in base alla logica sussuntiva fattispecie-effetti. Gli autori ora propongono una ri-concettualizzazione in senso autenticamente costituzionale-lavoristico delle tutele del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”: il baricentro del sistema transita dalla logica “di fattispecie” alla preminenza della norma-principio (l’art. 35 Cost., riletto in senso radicale) che impone di apprestare tutele effettive ogniqualvolta il lavoratore-persona esprima un oggettivo bisogno di protezione o tutela sociale, a prescindere dall’astratta categoria tipologica (autonoma o subordinata) cui il rapporto di lavoro sia di volta in volta riconducibile.
È nuovo in senso valoriale: i due autori tratteggiano le linee costitutive di uno Statuto del lavoro funzionale alla ricomposizione della frattura che la struttura duale del lavoro ha prodotto tra norma giuridica e realtà sociale. È uno Statuto volto al riequilibrio della sperequazione regolativa determinata dalla standardizzazione che teorizza la restrizione della sfera di copertura della tutela costituzionale inderogabile all’esclusivo ambito del lavoro subordinato (la «sineddoche lavorista», secondo la nota definizione di Marcello Pedrazzoli ). La rilettura della dimensione assiologica del lavoro sans phrase rifonda il valore del diritto del lavoro sui bisogni di protezione della persona. Ne viene così recuperata la centralità, altrimenti sfocata dal soverchiante peso dell’assiologia della fattispecie di subordinazione.
Ecco il senso radicale della ricostruzione, autenticamente universalistica, di un nuovo Statuto del lavoro, piuttosto che “dei lavori”. La rifondazione normativa del sistema propone un’opera di unificazione universale e di selezione modulare delle tutele. Unificazione universale, in quanto il diritto alla protezione trova unitario fondamento in valori e principi trans-tipici espressi dalla garanzia costituzionale del lavoro personale “in tutte le sue forme e applicazioni”. Selezione modulare, in quanto la distribuzione delle tutele è calibrata secondo un’organizzazione funzionale alle situazioni di bisogno in cui versa la persona nel concreto dispiegarsi della propria relazione di lavoro. La recessione delle categorie tipologiche apre lo spazio per una nuova centralità del bisogno di protezione così come espresso in concreto.
La riflessione proposta dagli autori, pur rivolgendosi ai policy makers quali destinatari naturali di una prospettiva de iure condendo, muove da una critica radicale dell’esistente quadro dogmatico-interpretativo, strutturalmente incentrato sulla preminenza della categoria normativa della subordinazione quale principio ordinante della ripartizione dicotomica delle tutele.
Il giudice è chiamato a confrontarsi quotidianamente con questo sostrato dogmatico e culturale. L’esperienza giurisdizionale consente di apprezzare con particolare efficacia quanto l’approccio metodologico della «pansubordinazione» sia radicato nella prassi e nella logica giuridica predominante e, al contempo, quanto sia avanzato il processo di scollatura tra le categorie tipologiche tradizionali e le esigenze di tutela concretamente emergenti dal mondo del lavoro.

2. La “grande dicotomia” nel sistema normativo.
La critica mossa alla dogmatica della “grande dicotomia” e la riconcettualizzatone in senso “forte” dell’idea di universalizzazione sono i due profili dell’opera che ritengo particolarmente innovativi.
Innanzitutto, la perdurante predominanza categoriale della “grande dicotomia”, e la crisi della sua attitudine regolativa, si rispecchiano fenomenologicamente nella duplice dimensione con cui il giudice, nell’esercizio della giurisdizione, entra in contatto: il piano normativo-astratto delle categorie legali e quello fattuale della cognizione del caso di specie.
Quanto al rapporto del giudice con il livello legislativo, certo non sfugge l’afflato neo-interventista con cui i legislatori europei, sotto la spinta delle nuove aspirazioni sociali, hanno dato attuazione a penetranti programmi di legificazione volti a garantire una base minima di garanzie a favore di più ampie fasce di lavoratori, non solo della gig-economy. Il giudice ben conosce la crescente difficoltà ricostruttiva imposta dalla necessità di razionalizzare l’intreccio delle nuove tipologie normative, via via introdotte o rivisitate dal legislatore italiano a partire dal c.d. Jobs Act del 2015: dalla «collaborazione coordinata» del nuovo art. 409, comma 1, n. 3 c.p.c., alla collaborazione «organizzata […] anche in piattaforma digitale» dell’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, sino al rapporto del lavoratore «in velocipede» per la consegna urbana di beni per conto altrui disciplinato dall’art. 47 bis del d.lgs. n. 81/2015.
Questo attivismo legislativo, tuttavia, seppur autenticamente ispirato dall’intenzione di perseguire programmi di espansione dell’ambito di copertura dei diritti sociali, non ritengo abbia rovesciato l’approccio tipologico di fondo, incentrato sul modello binario della “grande dicotomia” giuslavoristica, né ha messo radicalmente in discussione l’inveterata logica della pansubordinazione.
Nell’ambito dei diversi programmi di riforma variamente implementati a livello nazionale ed europeo, la subordinazione-dipendenza ha continuato a essere assunta come paradigma normativo per le nuove forme di lavoro intermedio. In quanto concepite quali “tipi” di lavoro in qualche misura prossimi al modello prototipico della subordinazione (per ragioni strutturali, per affinità assiologica, per la ritenuta condizione di debolezza del lavoratore o per una combinazione di tutti questi elementi), i legislatori (in primis quello italiano) hanno dimostrato di volerne valorizzare il grado di ritenuta assimilazione rispetto al paradigma dogmatico del lavoro subordinato-dipendente, in ragione della ravvisata compresenza di particolari elementi costitutivi o “sintomatici” propri del modello di riferimento, quali ad esempio il luogo o il tempo di lavoro, il grado di integrazione del lavoro nell’organizzazione aziendale, il grado di dipendenza economica del lavoratore, e così via. Sulla scorta di tale assunto, gli interventi di riforma legislativa tendono a operare un’estensione, più o meno ampia, eventualmente parziale, dello statuto di tutela del lavoro subordinato-dipendente al di fuori del proprio ambito naturale di applicazione, così da coprire, a certe condizioni ed entro limiti stabiliti, tipi di lavoro ritenuti adiacenti alla fattispecie “madre”.
Si è trattato, in questo senso, di un processo di universalizzazione per mera “estensione”, governato dalla logica della mimesi platonica, piuttosto che dall’idea che i lavori di nuovo riconoscimento trovino corrispondenza come tali, nella carne della propria ontologia, nel sistema valoriale costituzionale.
La storia della riforma e controriforma normativa delle «collaborazioni organizzate», così come disciplinate dalle successive edizioni dell’art. 2 del Jobs Act, ne offre un emblematico esempio. Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ne è seguito, come noto, ha diviso gli interpreti tra sostenitori della tesi dell’ampliamento sostanziale della fattispecie di subordinazione e quelli dell’estensione all’esterno dei soli effetti protettivi. Le due posizioni sono evidentemente accomunate dal condiviso riconoscimento della subordinazione quale fattispecie normativa fondativa. In effetti, nella prospettiva del legislatore, la collaborazione organizzata è ammessa al godimento del relativo statuto protettivo (per l’una o per l’altra via) nei limiti in cui ne sia riscontrabile l’assimilabilità al lavoro propriamente subordinato: precisamente, in ragione della sua continuatività e in funzione del grado di assoggettamento al potere conformativo altrui, «anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». Tanto che, nel caso Foodora, la proposta ricostruttiva del tertium genus, sostenuta dalla Corte d’Appello di Torino (che si era infatti pronunciata nel senso di un’estensione selettiva dello statuto protettivo del lavoro subordinato, escludendo l’applicabilità della disciplina del licenziamento) , è stata infine disattesa dalla Corte di Cassazione.
Analogamente, il legislatore eurounitario mi sembra a sua volta ancorato all’impostazione logica della “grande dicotomia” tra lavoro dipendente e lavoro indipendente. La stessa Proposta di direttiva europea sul miglioramento delle condizioni di lavoro in piattaforma del 9 dicembre 2021 è esplicitamente orientata all’obiettivo di implementare procedure idonee ad assicurare la corretta determinazione dello status dei lavoratori, così da consentire la riqualificazione dei finti indipendenti in lavoratori subordinati (art. 3). Tanto che, a tale scopo, ripropone il tradizionale sistema delle presunzioni legali di subordinazione (art. 4). L’ambito applicativo delle disposizioni della Proposta è infatti riservato ai platform workers, vale a dire lavoratori per definizione «dipendenti» in quanto titolari di «employment contract or employment relationship as defined by the law, collective agreements or practice in force in the Member States […]» (art. 2, n. 4). La Proposta non prevede che tre disposizioni a vocazione universale, destinate a trovare applicazione «a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro», e comunque tutte focalizzate sul circoscritto tema della trasparenza e delle modalità di utilizzo dei sistemi di monitoraggio e decisionali automatizzati (artt. 6, 7 e 8). Esse certo incidono positivamente sul cruciale tema dell’accessibilità e dell’effettività della protezione anche giurisdizionale, ma non mi sembra sovvertano l’impostazione di principio, che si riconosce nella consolidata logica di partizione dicotomica tra i due tipi di lavoro.
Sono senz’altro ravvisabili anche spunti di segno contrario, che la monografia di Adalberto Perulli e Tiziano Treu meticolosamente ricostruisce e valorizza. Dal mio angolo prospettico, ritengo particolarmente significativi gli Orientamenti sull’applicazione del diritto della concorrenza dell’Unione agli accordi collettivi concernenti le condizioni di lavoro dei lavoratori autonomi individuali della Commissione europea del 29 settembre 2022. Tale strumento ritaglia un significativo spazio di non intervento da parte della Commissione a sanzione di accordi collettivi stipulati da talune categorie di lavoratori autonomi i quali si trovino in una posizione di squilibrio di potere contrattuale rispetto alla loro controparte. Tali Orientamenti coprono ampi settori del lavoro autonomo genuino, al di là della categoria dei “falsi lavoratori autonomi” che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha già da tempo escluso dall’ambito applicativo del divieto di accordi tra imprese restrittivi della concorrenza ai sensi dell’art. 101 TfUe (c.d. eccezione Albany, che a ben vedere un’eccezione non è, in quanto altro non fa se non ribadire in chiave sostanzialistica il principio generale).
Ancor più di recente, segue un’interessante traiettoria espansiva la sentenza della Corte di Giustizia J.K. del 12 gennaio 2023, pronunciata in materia di divieto di discriminazione in materia di condizioni di lavoro e di occupazione. La Corte ha esplicitamente chiarito che l’ambito d’applicazione della direttiva 78/2000, benché l’art. 3, § 1, lett. c) menzioni espressamente il solo licenziamento tra le «condizioni di lavoro» coperte dal diritto antidiscriminatorio, comprende ogni ipotesi di cessazione unilaterale di qualsiasi attività di lavoro e d’occupazione, indipendentemente da una sua qualificazione quale lavoro dipendente o lavoro autonomo, conformemente a quanto stabilito dall’ art. 3, § 1, lett. a).
Non mi sembra tuttavia che né gli Orientamenti della Commissione, né la sentenza J.K. valgano davvero a invertire l’approccio dicotomico di fondo: i primi, per quanto potenzialmente incisivi sul piano pratico, restano pur sempre uno strumento di soft law, la seconda non mette direttamente in discussione la dogmatica definitoria della subordinazione così come delineata dalla giurisprudenza eurounitaria a partire dalla sentenza capostipite Lawrie-Blum del 1986.
Senza voler sminuire le pur notevoli aperture espansive sviluppate dal diritto eurounitario, che anzi – va detto – apre al riconoscimento di talune protezioni sociali financo a favore del piccolo imprenditore, ritengo che esse siano comunque espressive di un modello concettuale fondamentalmente dicotomico. In questo senso, il progetto di unificazione del lavoro prefigurato da Adalberto Perulli e Tiziano Treu non si limita a sviluppare orientamenti di politica del lavoro già esistenti nel sistema normativo europeo e nazionale, ma propone una prospettiva di rottura “qualitativa”.

3. La “grande dicotomia” nella pratica giurisdizionale.
Specularmente, il radicamento nel pensiero giuslavoristico della “grande dicotomia” e della dogmatica della pansubordinazione producono evidenti riflessi anche nella pratica giurisdizionale. I risvolti applicativi di tale modello, e le discrasie logico-fattuali cui essi conducono quando messi alla prova delle mutevoli realtà storicamente espresse dalla società del lavoro contemporanea, mettono in discussione lo stesso fondamento logico e ontologico della subordinazione giuridica quale autosufficiente categoria del diritto.
La pratica giurisdizionale, come noto, perpetua il tradizionale modello cognitivo per “indici sintomatici” di subordinazione, il quale è condiviso, pur con diverse sfumature, da gran parte delle tradizioni giuridiche occidentali, dalla Francia (la dottrina del faisceau d’indices symptomatiques) al Regno Unito (sono noti i casi Express & Echo Publications Ltd del 1999, Ready Mixed Concrete del 1967, MacFarlane del 2000, solo a citarne alcuni). La tecnica d’accertamento per “indici sintomatici” svolge un ruolo consustanziale al principio costituzionale di indisponibilità del tipo contrattuale, il quale assume che il rapporto di lavoro, nella propria fattualità, non può che imporsi, sul piano storico-materiale, alla volontà politica del legislatore, oltre che alla volontà contrattuale delle parti. È peraltro ravvisabile una chiara sintonia argomentativa tra la giurisprudenza costituzionale italiana degli anni ‘90 e le storiche sentenze Société Générale e Labbane dalla Corte di Cassazione francese.
Eppure, paradossalmente, è proprio l’irrinunciabile pretesa, da sempre avanzata dalla dottrina della subordinazione giuridica, di essere integrata dalla tecnica-prassi di verifica per indici sintomatici a dare evidenza al processo di erosione cui sempre più si espone l’idea che la subordinazione giuridica disporrebbe di una reale e autosufficiente base ontologica. Gli “indici sintomatici” disvelano semmai una più autentica natura di indici “alternativi” alla subordinazione, in ragione della loro intrinseca attitudine a individuare fattispecie le quali, in quanto di subordinazione appunto “sintomatica”, sono altro dalla subordinazione in senso ontologico-strutturale. Il fatto oggettivo di seguire un determinato orario di lavoro fisso, nonché la costante collocazione della prestazione di lavoro nello stesso luogo, pur considerati dalla tradizione giurisprudenziale quali indici particolarmente sintomatici di subordinazione, non dicono nulla, di per sé soli, circa la presenza di strutture costitutive della subordinazione nel caso concreto, quali il grado di eterodirezione cui è soggetta la prestazione di lavoro, l’esistenza di un potere sanzionatorio di eventuali violazioni o l’intensità di un eventuale potere di controllo.
La pratica giurisdizionale dimostra che la stessa eterodirezione, in quanto elemento strutturale della subordinazione, difetta di una chiara autosufficienza ontologica. Quanti lavori, qualificati dai giudici come “subordinati”, sono eseguiti senza che siano effettivamente impartiti specifici ordini, senza che vi siano veri e propri atti di controllo sulla prestazione di lavoro, senza che alcun atto di esercizio del potere sanzionatorio o disciplinare sia riscontrato dal giudice? Quante volte, nei fatti, la “qualità” di un certo tipo di servizio incide sull’attività di qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, in conseguenza della precomprensione (o forse del preconcetto) secondo cui lavori ad alto valore intellettuale si allontanerebbero “per natura” dalla subordinazione, mentre i lavori manuali “naturalmente” vi tenderebbero? In quanti casi la pratica giurisprudenziale mostra di confondere il tema della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro con quello della padronanza da parte del lavoratore delle proprie conoscenze tecnico-specialistiche, in particolare quando esse sono così avanzate da essere estranee al bagaglio tecnico-conoscitivo dell’imprenditore-datore di lavoro, e quindi alla sua sfera di controllabilità? D’altra parte, quanti sono i lavori autonomi che vengono svolti nell’ambito di rigide griglie etero-organizzate, come testimoniato dalla molteplicità dei più diversi schemi organizzativi attuati nella gestione delle multiformi tipologie di lavoro in piattaforma?
Proprio l’espansione del lavoro in piattaforma ha fortemente contribuito a una riaffermazione del principio di realtà, mettendo a nudo il respiro ideologico del conflitto tra capitale e lavoro di cui la “grande dicotomia” si nutre. E in effetti, a ben vedere, la prassi giurisdizionale mostra come il risultato pratico cui tende la tecnica di accertamento per indici sintomatici sia l’individuazione del capitalista detentore dei mezzi della produzione, piuttosto che di un datore di lavoro tecnicamente inteso quale soggetto che eterodirige la prestazione di lavoro. Si consideri la funzione eloquentemente assolta dall’indice sintomatico dell’allocazione del rischio d’impresa, spesso impiegato nella prassi giudiziaria per qualificare alcune specie grigie di lavoro, anche in piattaforma digitale, il quale funziona ad intermittenza, a seconda della “qualità” della singola causa, talora quale criterio di individuazione del vero imprenditore, talaltra quale indice di riconoscimento di un lavoratore autenticamente subordinato al quale magari sia stata imposta una forma “spuria” di retribuzione.
La new economy e il nuovo ordine sociale creato dalla globalizzazione hanno dato evidenza alle aporie del modello tradizionale, hanno stravolto l’idea stessa di “libertà del lavoro”, concepita nella contemporaneità non più come processo di liberazione di una classe sociale subordinata dallo sfruttamento perpetrato da una classe egemone, ma come libertà dell’individuo, libertà spirituale e materiale della persona dai bisogni, libertà che si assume esistente quale diritto fondamentale dell’essere umano in quanto tale. Il mondo del lavoro, oggi, non reclama più una salvezza collettiva, una salvezza di classe, ma una salvezza irrinunciabilmente individuale. Come si apprende da Le Monde del 16 maggio 2022, è significativo che in Francia meno del 4% dei lavoratori (addetti alle consegne e autisti) abbia partecipato alle prime elezioni dei rappresentanti sindacali dei lavoratori indipendenti delle piattaforme. Ciò suggerisce che il mondo delle piattaforme digitali è costituito da una quota significativa di lavoratori i quali, pur senza rinunciare alle pretese di protezione sociale, aspirano a preservare la propria individualità.
Di ciò dà il segno la progressiva affermazione dell’acquisizione giuridico-filosofica che individua nel diritto alla dignità umana il fondamento giustificativo della stessa libertà individuale. La dignità umana, a sua volta, è diffusamente citata nei preamboli degli strumenti sovranazionali di protezione dei diritti sociali, oltre ad essere il diritto enunciato dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Eppure, nonostante tali discrasie, nel dibattito contemporaneo – soprattutto nazionale – sull’universalizzazione dei diritti sociali e del lavoro sembrano largamente predominare le strutture logiche e rappresentative proprie della contrapposizione conflittuale tra la classe dei lavoratori (ça va sans dire: subordinati) e i detentori dei mezzi della produzione.
Questa mia prospettiva di lettura va forse oltre il piano della critica che Adalberto Perulli e Tiziano Treu svolgono nel loro saggio, il quale propone una radicale riorganizzazione di tipo “matriciale” del sistema delle tutele, non invece un sistema di tipo puramente rimediale, che pretenda la “messa al bando” del contratto individuale di lavoro subordinato come tale.
Resta però valido l’essenziale punto qualificante. L’opera fonda la propria analisi critica su una rappresentazione dell’esistente che trovo saldamente ancorata alla realtà: l’inadeguatezza regolativa di un modello dicotomico che frammenta il lavoro in categorie giuridiche non più capaci di rappresentarlo per quello che è, a vantaggio di un modello unitario il quale, in sintonia con lo spirito di rinnovata lettura dell’art. 35 Cost., riconosca il diritto alle tutele in ragione del bisogno di protezione effettivamente mostrato nella concretezza dei rapporti di forza della società del lavoro contemporanea.

4. L’universalizzazione in senso “forte” dei diritti sociali e del lavoro.
Il secondo aspetto che trovo particolare significativo è la concettualizzazione in senso “forte” dell’idea di universalizzazione che gli autori hanno ricostruito.
Non è certamente nuovo il discorso sulla crisi della rappresentazione fordista dell’industrializzazione. “In tutte le sue forme e applicazioni” ha però il merito di mettere in discussione, in modo questa volta esplicito e radicale, il contenuto stesso del principio lavoristico, così come inteso nel significato restrittivo ed “escludente” consolidatosi nella tradizione repubblicana, e ribadito in tutta la sua pregnanza dalle recenti sentenze costituzionali n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022. Gli schemi assiologico-dogmatici di carattere dicotomico hanno finito per vincolare e circoscrivere il campo di esistenza di ogni possibile programma di universalizzazione dei diritti alle tecniche di mera estensione delle tutele stabilite per il lavoro subordinato oltre i confini naturali che si assume siano propri di quest’ultimo, ma pur sempre entro i limiti logici e ontologici consentiti dalla mimesi (la quale, imitando le cose, che a loro volta sono copia delle idee, si allontana tre volte dal vero ). La storia dell’evoluzione legislativa dell’art. 2 del Jobs Act, così come la predominanza del dogma della pansubordinazione sul dibattito interpretativo e giurisprudenziale che ne è seguito, offrono una rappresentazione esemplare del senso “debole” in cui il tema dell’universalizzazione delle tutele è stato generalmente inteso.
La ri-concettualizzazione del lavoro come realtà unitaria “in tutte le sue forme e applicazioni” ridisegna il principio lavoristico secondo una direttrice espansiva e inclusiva, che va oltre la mitologia che concepisce la subordinazione per un verso quale tipo unico di lavoro meritevole di tutela costituzionale, per altro verso quale statuto di protezione per antonomasia, il solo capace di tutelare la dignità del lavoratore nel conflitto tra forze del mercato.
Ecco in che senso, nella mia lettura, la direttrice di riforma indicata da Adalberto Perulli e Tiziano Treu guarda a un modello di universalizzazione di tipo “forte”. La prospettiva è quella di una protezione non per semplice “estensione” mimetica, ma in quanto meritata in ragione dell’originaria dignità intrinseca che la Costituzione riconosce a ogni lavoro nell’ontologia che gli è propria.

 

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.