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Il libro di Lucia Valente, Il diritto del mercato del lavoro. I servizi per l’impiego tra progetto europeo e storici ritardi nazionali, Wolters Kluwer, Milano, 2023, colma una lacuna nel dibattito scientifico del nostro Paese, ove le trattazioni di carattere generale sulla gestione del mercato del lavoro e i servizi per l’impiego sono piuttosto rare. Le ragioni di questa relativa disattenzione della nostra dottrina, che tende a soffermarsi con cura su tutte le novità legislative in subiecta materia piuttosto che a inquadrarla organicamente, provengono da lontano: e segnatamente dal faticoso processo di emersione del diritto del mercato del lavoro come disciplina specifica e autonoma all’interno di quelle giuslavoristiche. Il collocamento dei lavoratori, infatti, è stato a lungo terreno di contesa con il diritto amministrativo, mentre le politiche attive del lavoro, specialmente nella loro declinazione regionale, sono state fino a tempi relativamente recenti appannaggio di pochi e appassionati specialisti della nostra materia. Soltanto con l’inizio del nuovo millennio il diritto del mercato del lavoro emerge compiutamente come ambito scientifico unitario, suscettibile di studi dedicati.
Il volume si articola in tre capitoli, ed è corredato da un’ampia bibliografia. Nel primo l’autrice intende «fare fino in fondo i conti con il passato» (p. 8), in quanto solo in questo modo è possibile cogliere le ragioni dei ritardi e delle sacche di inefficienza che contraddistinguono l’esperienza italiana di gestione del mercato del lavoro. Grazie a quest’opera paziente di ricognizione storica, che principia dalla Liberazione e giunge fino al PNRR e al suo programma faro «Garanzia di occupabilità dei lavoratori» (di seguito: GOL), Lucia Valente porta allo scoperto «una chiave assai rilevante di lettura dell’esistente», ovvero il «gattopardesco mutamento delle forme legislative e nella ripartizione delle competenze istituzionali perché nulla cambi nella sostanza»: ciò consente alla «burocrazia che ha sempre esercitato tutto il proprio potere pubblico in questo campo» di «proseguire la propria esistenza senza essere esposta ad alcun controllo di produttività sostanziale», semplicemente camuffandosi dietro un lessico di matrice euro-unitaria «solo apparentemente nuovo» (pp. XI-XII).
Più precisamente, nel primo capitolo l’autrice si sofferma, anzitutto, sul collocamento vincolistico e sull’approccio passivo al sostegno dei disoccupati, che tanto hanno ritardato il decollo delle politiche attive nel nostro Paese, con una deviazione significativa rispetto al solco tracciato dalle più importanti esperienze europee. A partire dagli anni ’80 si intensificano, però, le spinte verso una modernizzazione di questo antiquato assetto, trainate da alcuni studi pionieristici di modelli più evoluti, che nel decennio successivo si assommeranno al revirement dell’OIL (conv. n. 181/1997), anticipato da un importante studio del Bureau international du travail, e alle pressioni esercitate dal diritto comunitario, hard (sentenza Jobcentre II), e soft (nascita e fiorente sviluppo della Strategia europea dell’occupazione).
La complessa transizione dal monopolio del collocamento statale ai servizi per l’impiego, avviata dal decreto Montecchi (d.lgs. n. 469/1997) e culminata con il decreto Biagi (d.lgs. n. 276/2003), si compie in un contesto particolarmente accidentato, caratterizzato prima dall’attuazione del federalismo amministrativo, e successivamente dalla revisione costituzionale dell’art. 117, Cost., che frantuma le competenze in materia su tutti i possibili livelli. Altro vizio di origine che, secondo l’autrice, mina alle fondamenta qualsiasi tentativo di organizzare in modo efficiente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel nostro Paese. In effetti, il pur pregevole disegno del Jobs Act (d.lgs. n. 150/2015), che rappresenta a tutt’oggi il quadro normativo di riferimento, viene azzoppato dal naufragio del referendum costituzionale del 2016, che, impedendo la riorganizzazione del sistema dei servizi per l’impiego intorno all’ANPAL, fa «sfumare l’occasione per una gestione accentrata delle politiche attive» (p. 24). Cosicché l’agenzia, cigno dalle ali tarpate, nel 2021 viene sommessamente ricondotta nell’alveo ministeriale, con la ricostituzione della Direzione generale delle politiche attive del lavoro. La svolta neo-centralistica impressa dal Governo Draghi con il PNRR e l’attuazione di GOL prende realisticamente atto dei profondi mutamenti in atto nel mercato del lavoro, ormai non più declinato al singolare, bensì al plurale, e percorso da flussi incrociati in entrata e in uscita: i transitional labour markets, da tempo studiati dai sociologi, «entrano» così «nel lessico del legislatore italiano» (p. 26). Queste nuove sfide richiedono un riadattamento di ampi segmenti del welfare, dagli ammortizzatori ai servizi per l’impiego, dalla formazione alle altre politiche attive del lavoro. Sotto questo profilo, l’avvio di GOL sembra promettente, anche per i cospicui finanziamenti provenienti dall’Europa e collegati al raggiungimento di obiettivi prefissati: tuttavia, la valorizzazione del concetto assai sfuggente di «occupabilità» al posto del più concreto «occupazione» espone a un altissimo «rischio che vengano rendicontati i soli passaggi burocratici dei singoli percorsi» (le prese in carico), piuttosto che i veri e propri risultati occupazionali (pp. 35-36).
Nei restanti due capitoli l’autrice si concentra sul diritto vigente, affrontando prima i profili strutturali-istituzionali e successivamente quelli funzionali, focalizzando l’attenzione sui servizi offerti ai beneficiari. Al centro dell’analisi è collocato, dunque, il d.lgs. n. 150/2015, che si propone l’obiettivo di «superare il vecchio sistema eccessivamente decentrato dei servizi per l’impiego […] attraverso un forte coordinamento delle politiche regionali» (p. 43). In realtà, il processo di implementazione del decreto n. 150 è stato particolarmente lento, e ha preso l’abbrivio soltanto a seguito del varo di GOL, «un programma nazionale di presa in carico personalizzata», che «assume le caratteristiche di una riforma di sistema, considerato l’orizzonte temporale previsto […] e l’ammontare di risorse complessivo destinato alle politiche per il lavoro» (p. 45).
Nel soffermarsi sulla governance, Lucia Valente ne mette in rilievo la complessità e le contraddizioni, che si annidano principalmente nell’ambiguo ruolo dell’ANPAL: l’agenzia, a seguito delle più recenti modifiche normative, è stata progressivamente esautorata, tanto da divenire un inutile doppione della neocostituita Direzione generale delle politiche attive, che dispone di «compiti e funzioni in parte sovrapponibili in parte addirittura più ampi» (p. 53). Da ultimo ha confermato la svalutazione di questo soggetto anche l’istituzione dell’Osservatorio del mercato del lavoro, non a caso collocato in sede ministeriale e non presso l’ANPAL. In questa situazione, fallito l’ambizioso disegno di istituire un’agenzia all’altezza delle migliori prassi europee, forse non resta che la via della soppressione di questo ennesimo ente inutile. E’ sicuramente più prezioso il ruolo giocato dalla Rete nazionale dei servizi per il lavoro, che risponde all’«esigenza di superare la disomogeneità tra i servizi offerti dalle Regioni» ed è costituita, al tempo stesso, da attori pubblici e privati del mercato del lavoro (p. 48). Nel lungo elenco spicca, però, l’assenza degli attori sociali, che, a differenza di quanto accade in altre esperienze più progredite (Svezia, Germania, per es.), per lungo tempo non hanno mostrato un grande interesse nella promozione di politiche attive, ma recentemente stanno manifestando un attivismo sempre maggiore su questo fronte.
Pietra angolare di questo complesso sistema multilivello sono tradizionalmente i centri per l’impiego (di seguito: CPI), ora «porta d’accesso a GOL» (p. 67), investiti da un piano di rafforzamento amministrativo iniziato sin dal 2014, con la legge Delrio, e poi via più impetuoso, grazie alle ingenti risorse del PNRR. Tuttavia, nonostante la costante attenzione del legislatore e l’iniezione di cospicui mezzi economici, i CPI espongono il fianco ad una debolezza originaria, cosicché «il piano di rafforzamento amministrativo rischia di rivelarsi totalmente inefficiente» (p. 67). Il tallone d’Achille sono proprio le persone, operatori e funzionari, impreparati agli ardui compiti del case manager, oggi richiesti in tutti i moderni Jobcenter d’Europa: purtroppo, nelle disposizioni di legge che stanziano le risorse per le assunzioni (ne sono programmate 16.000), nulla si dice sui profili professionali richiesti, lasciando così ampi e pericolosi margini di discrezionalità alle amministrazioni regionali. Altri punti di debolezza individuati dall’autrice nei CPI riguardano la carenza di servizi digitalizzati, la mancanza di un sistema di valutazione della performance e i ritardi nell’attuazione di una infrastruttura informatica complessiva. In tale contesto, GOL rappresenta sicuramente la risposta a queste criticità e una cruciale occasione di rilancio dell’intero impianto dei servizi per l’impiego. Dopo aver descritto con cura il programma, la sua governance, imperniata sui Piani attuativi regionali (PAR) e la leale collaborazione tra il Ministero e le Regioni, i suoi obiettivi e i livelli essenziali delle prestazioni, l’autrice si sofferma sul ruolo dei soggetti privati accreditati, che, nell’interazione con l’attore pubblico, possono dar vita a un modello cooperativo o competitivo di erogazione dei servizi. Tuttavia, nonostante che il coinvolgimento del privato abbia dato vita in alcuni contesti regionali a esperienze significative, «il programma GOL li ha praticamente esclusi: esso si concentra sulla creazione di un sistema pubblico dei servizi per il lavoro e riconosce agli enti privati accreditati un ruolo marginale, affidato ai singoli piani regionali» (p. 77). Secondo l’autrice, sarebbe stato, invece, più proficuo sfruttarne il potenziale fin dall’inizio, sin dalle prese in carico, e non solo in un secondo ed eventuale momento, tramite i bandi regionali per l’erogazione di singole misure specialistiche. Ad ogni modo, «un avanzamento normativo sul piano della sussidiarietà orizzontale» va evidenziato (p. 78), perché gli attori accreditati sono stati investiti di un ruolo significativo e paritario con i CPI quanto meno per il segmento di utenza assai delicato dei percettori del reddito di cittadinanza, in relazione ai quali il legislatore cerca di attirare anche le agenzie per il lavoro mediante generosi incentivi. L’efficienza dell’operato dei soggetti accreditati è opportunamente oggetto di monitoraggio e valutazione comparativa da parte dell’ANPAL, che può spingersi sino all’estromissione temporanea dal sistema, e anche la loro remunerazione è imperniata, in misura crescente, sul risultato (occupazionale).
Volgendo lo sguardo all’infrastruttura informatica, costituita dal Sistema unitario del lavoro (di seguito SIU), dalle numerose banche dati seminate qua e là dal legislatore e dal fascicolo elettronico del cittadino, Lucia Valente ne sottolinea la crucialità per il funzionamento dell’intero impianto dei servizi per l’impiego e per il completo dispiegarsi del principio di condizionalità. Qui la sfida più ardua è il superamento dei cronici ritardi nella digitalizzazione dei processi, forse realizzabile coinvolgendo più direttamente l’ente pubblico che dispone delle strutture informatiche attualmente più performanti, ovvero l’INPS: ma per fare ciò è necessario «un passo indietro delle Regioni, che sono titolate a gestire le politiche attive» (p. 85). L’ultimo tassello di un moderno servizio per l’impiego è la formazione professionale di qualità, ora rilanciata tramite il Piano nazionale nuove competenze (di seguito: PNC), descritto con cura dall’autrice. Qui il ruolo di coordinamento statale è reso più scivoloso dall’attribuzione della materia alla competenza residuale regionale e, d’altro canto, il PNC nemmeno affronta il nodo più delicato per verificare l’efficacia di un percorso formativo, ossia la «coerenza tra formazione impartita e fabbisogni dei mercati del lavoro locali» (p. 88). Merita, invece, un plauso l’approccio moderno del documento alle problematiche formative, con una piena consapevolezza delle peculiarità dei mercati transizionali: molto opportunamente, infatti, la formazione viene declinata specificamente per i giovani, gli occupati e i disoccupati, nell’ambito dei tre programmi guida (formazione duale, Fondo nuove competenze, GOL).
L’ultimo paragrafo traccia un bilancio provvisorio degli esiti di GOL, prendendo in esame gli ultimi dati disponibili del monitoraggio ANPAL: è qui che, a dispetto dei numeri lusinghieri, si annidano i maggiori rischi di una deriva burocratica di tutta la gestione del programma, poiché la rendicontazione si incentra sui processi e non sui risultati. Più concretamente, per contabilizzare i beneficiari inseriti in GOL «basta aver varcato la soglia del Centro per l’impiego, aver fatto un colloquio di orientamento di base per l’assessment e aver sottoscritto il patto per il lavoro o il patto di servizio»; per la formazione, «è sufficiente rendicontare sul SIU un orientamento specialistico sulla skill gap analysis, oppure la proposta della specifica attività di formazione» (p. 97).
Il terzo capitolo del volume si apre con l’illustrazione del percorso dei beneficiari dei servizi per l’impiego, come regolato dal d.lgs. n. 150 e ulteriormente precisato nel programma GOL, che articola la platea di riferimento e scandisce il jobseeker’s journey in cinque traiettorie, corrispondenti ai diversi bisogni dell’utenza determinati tramite la profilazione. L’autrice dedica ampio spazio a questo strumento diagnostico, che è stato totalmente riscritto, oltre che ridenominato assessment, nella disciplina di GOL, al fine di renderlo più omogeneo su scala nazionale e di ridimensionare «la valutazione discrezionale dell’operatore», grazie all’uso di algoritmi (p. 104). Nella trattazione dei percorsi dedicati, l’autrice compie un’opera di razionalizzazione assai meritoria, esaminando non soltanto i cinque contemplati da GOL, ovvero reinserimento occupazionale, upskilling, reskilling, lavoro e inclusione, ricollocazione collettiva, ma anche quelli un po’ disordinatamente disseminati dal legislatore specialmente nel d.lgs. n. 148/2015, e focalizzati su lavoratori impegnati in transizioni occupazionali: la nuova causale di CIGS per transizione occupazionale, gli accordi di transizione occupazionale, gli accordi di ricollocazione per i percettori di CIGS, il contratto di espansione, il Fondo nuove competenze ex art. 88, d.l. n. 34/2020, i Patti territoriali di cui all’art. 1, co. 249, l. n. 234/2021.
Dal rafforzamento di queste misure «emerge […] l’orientamento del legislatore ad anticipare quanto più possibile le politiche attive, compresa la formazione professionale, in costanza di rapporto, quando […] è ancora possibile evitare i licenziamenti» (p. 124). Anche qui risulta fondamentale che la formazione impartita sia di livello elevato e focalizzata sulle necessità dell’impresa e del mercato: un ruolo di primo piano per garantire tale finalizzazione deve essere giocato dal sindacato, anche tramite la propria co-gestione dei Fondi interprofessionali per la formazione continua, organismi che, peraltro, secondo l’autrice, necessiterebbero di «un intervento riformatore strutturale» volto «a fare chiarezza sulle modalità di allocazione delle risorse e sulla qualità della formazione» (p. 126). Non si può che concordare su questo auspicio, anche perché i fondi interprofessionali sono sempre più frequentemente chiamati in causa dal legislatore come fonte di finanziamento di interventi di politica attiva, con il rischio di snaturare la loro originaria funzione di sostegno alla formazione continua dei lavoratori occupati: una actio finium regundorum appare, pertanto, assai opportuna.
Dopo aver esaminato lo status di disoccupazione, tema ineludibile in una trattazione approfondita del mercato del lavoro, l’autrice si sofferma sul patto di servizio, che segue l’assessment del CPI, costituendo a tutti gli effetti la «porta di accesso alle politiche attive» (p.137). Affronta, dunque, una questione che ha affaticato la dottrina sin dagli esordi di questo strumento, allorché, ancora sconosciuto al legislatore nazionale, compariva carsicamente, con denominazioni differenti, in varie normative regionali: ovvero se il patto abbia natura negoziale, come sostengono taluni, o costituisca uno strumento autoritativo pubblicistico, come ritengono altri. Come sottolinea Lucia Valente, «non è agevole dare una risposta univoca», in quanto «le norme nel tempo oscillano tra un approccio privatistico e uno pubblicistico a seconda delle sensibilità politiche dei diversi governi in carica» (p. 137). L’autrice, per un verso, sottolinea il linguaggio dialogico del decreto ministeriale, per cui detto patto «deve essere l’esito di una negoziazione con l’interessato finalizzata a fargli acquisire la piena condivisione delle misure»; per altro verso, fa i conti con la natura di livello essenziale delle prestazioni (di seguito: LEP) (già nell’art. 28, d.lgs. n. 150/2015, e qui ribadita) dello strumento e dei servizi ivi contemplati, che assumono, perciò, il rango di «diritti esigibili dalla persona». Alla fine, pur prediligendo le posizioni contrattualistiche, conclude, che, «nonostante il lessico usato dal legislatore e le intenzioni dichiarate», il patto ha «connotazione fortemente pubblicistica» (pp. 137-138). Dalla firma nasce un rapporto giuridico (cd. «rapporto giuridico per il lavoro») che obbliga l’attore pubblico (o il privato accreditato) ad erogare i LEP nei tempi e nei modi stabiliti dai piani operativi regionali; e, in difetto, legittima l’utente ad agire in giudizio «per richiedere il risarcimento del danno derivante dalla perdita di chance a causa dei ritardi della pubblica amministrazione» (p. 138).
Un altro tema connesso al patto di servizio e sotteso all’intero percorso dell’utente dei servizi per l’impiego, specialmente qualora percettore di ammortizzatori sociali, è quello della condizionalità, che costituisce «l’elemento di raccordo tra politiche passive e politiche attive», subordinando la fruizione delle prime a un «comprovato impegno del beneficiario nella ricerca attiva di un’occupazione» mediante sanzioni in caso di inadempimento. I regimi della condizionalità sono ormai molteplici e diversificati quanto a obblighi e sanzioni in relazione ai benefits, e l’autrice li affronta tutti nel dettaglio, con particolare attenzione al regime della cd. “offerta congrua”, che costituisce l’apice della condizionalità. Le conclusioni cui giunge sono, però, sconfortanti. Come già osservato da altra dottrina, compresa chi scrive, il tasso di effettività dell’apparato sanzionatorio è bassissimo, principalmente a causa di due fattori, uno di carattere istituzionale e il secondo di carattere normativo. Sotto il primo versante, la separazione tra il soggetto che eroga la prestazione economica e quello che offre i servizi all’impiego, tra l’altro animati da interessi diversi, rende macchinosa e scarsamente operativa la procedura di irrogazione delle sanzioni: l’autrice propone, dunque, di rafforzare il coordinamento tra INPS e ANPAL, in vista di un’integrazione più stretta tra le due strutture (uno one-stop shop? Lucia Valente non sembra spingersi così avanti). Con riguardo al secondo versante, rileva come le leggi, i decreti e le circolari siano congegnate con «un chiarissimo intento di non far funzionare la condizionalità», e ciò a dispetto di quanto proclamato nel programma GOL (p. 149). Non sfugge a queste veementi critiche nemmeno l’art. 25, d.lgs. n. 150/2015 sull’offerta congrua, definita icasticamente «una norma di fatto inutile» (p. 152): l’offerta di lavoro non è nella disponibilità del CPI, bensì del datore, che non ha alcun interesse a riferire agli uffici un eventuale rifiuto. La norma andrebbe, dunque, «abrogata e riscritta» (p. 157), in modo da creare gli incentivi giusti affinché i datori di lavoro contribuiscano al funzionamento dei meccanismi di condizionalità.
Il capitolo, e il libro, si concludono con l’esame di due misure di politiche attiva, in un modo o nell’altro emblematiche, e con destini differenti: i lavori di pubblica utilità (PSU e PUC), rivitalizzati dalle ultime normative (art. 26, d.lgs. n. 150/2015 e art. 14, co. 15, d.l. n. 4/2019), e l’assegno di ricollocazione (art. 23, d.lgs. n. 150/2015), che ha tristemente concluso la sua parabola confluendo nel programma GOL, riaffidata alla discrezionalità regionale, dal grembo della quale erano uscite le sue prime manifestazioni di maggior successo. Soprattutto a questo istituto sono dedicate pagine dense: costituisce, infatti, «la prima misura di politica attiva di livello nazionale coordinata dall’ANPAL e gestita tramite la rete pubblico-privata dei servizi per il lavoro, in accordo con regioni e province autonome» (p. 160).
Il libro di Lucia Valente è caratterizzato da una prosa godibile ed è di piacevole lettura. Emergono prepotentemente tre fili conduttori: la tensione all’efficienza dei servizi per l’impiego, che richiede un capillare monitoraggio e un’attenta valutazione dell’attività svolta dagli operatori pubblici e privati e dei risultati da loro conseguiti; un approccio neocentralistico, a partire dalla ripartizione di competenze tra Stato e regioni nella gestione del mercato del lavoro; l’individuazione delle vischiosità della burocrazia come il rischio più forte per la modernizzazione dei servizi per l’impiego. Chi scrive condivide pienamente la necessità che il nostro Paese sposi con decisione la cultura della valutazione di tutti i soggetti che operano nel mercato del lavoro: in un contributo ormai lontano nel tempo si erano anche avanzate proposte alla luce delle migliori prassi internazionali. Purtroppo, però, sebbene GOL sembri rappresentare un passo in avanti lungo questo accidentato sentiero, ha ragione Lucia Valente nel denunciare il pericolo che una lettura burocratica degli adempimenti finisca per svuotare le pur positive novità del metodo valutativo insito nel programma. L’autrice di queste brevi note è, invece, più scettica per quanto riguarda l’afflato centralistico che spira in molte pagine del volume. Sebbene in passato si sia senza dubbio esagerato nella disarticolazione di qualsiasi regia nazionale, bisogna guardarsi dall’eccesso opposto. I quasi vent’anni di un sistema acefalo (o forse policefalo), come qualcuno ha scritto (l’espressione è di Andrea Lassandari), ci hanno regalato anche esperienze assai interessanti di gestione virtuosa dei servizi all’impiego, con il coinvolgimento dei privati in regime competitivo (es. Lombardia) o cooperativo (es. Toscana, Emilia-Romagna, Provincia autonoma di Trento). Il riaccentramento di GOL, però, rischia di travolgere non soltanto le sacche di inefficienza, ma anche alcune pregevoli prassi fiorite a livello territoriale. E ora buona lettura!

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