Testo integrale con note e bibliografia

Da troppo tempo si discute sul dumping contrattuale senza mai giungere a soluzioni concrete ed efficaci. Tutti contro tutti: gli accademici e gli studiosi (compreso i politici) si dividono fra chi vuole che la materia resti esclusivamente nelle mani delle parti sociali e chi vuole un intervento regolatore di matrice legislativa; le parti sociali, pur correndo il rischio della proliferazione contrattuale, vogliono fermamente che la questione non sia risolta dal legislatore per evitare la perdita del controllo sulla retribuzione contrattuale che oggi viene considerata, in via convenzionale, quella minima legale, mentre gli operatori del diritto, le imprese e soprattutto i lavoratori, hanno necessità di un saldo punto di riferimento (una certezza del diritto) che metta tutti in par condicio evitando che i più avventurosi possano avvantaggiarsi dall’incertezza normativa facendo shopping contrattuale a loro piacimento aderendo a pseudo associazioni imprenditoriali e organizzazioni sindacali che millantano la maggior rappresentatività comparata ponendo in seria difficoltà anche l’organo giudicante chiamato a risolvere le lacune del nostro sistema giuridico che è tutt’altro che perfetto e ancora oggi pieno di antinomie.

Non nascondo la mia propensione ad un intervento legislativo. Se dopo oltre 70 anni le parti sociali non sono state in grado di darsi delle regole certe sulla rappresentanza, la questione deve necessariamente essere risolta per via legislativa. Sono tante le differenze nel nostro mercato del lavoro che vanno appianate per dare dignità al lavoro partendo da un salario minimo legale che sia degno di tale nome. Lasciare le dispute tra le parti sociali nelle mani della magistratura (con tutto il rispetto per i magistrati che spesso sono chiamati a svolgere un complicato ruolo di supplenza) significa non avere a cuore i problemi del lavoro e del paese.
E sembrano non scalfire affatto le coscienze i rapporti parlamentari e dell’Ispettorato del Lavoro nonché le inchieste giornalistiche e i servizi televisivi che portano periodicamente alla ribalta i perduranti fenomeni di caporalato (e non solo in agricoltura), di paghe indegne che rendono schiave le persone privandole della tutela ex art. 36 cost. laddove prevede che <<il lavoratore ha diritto ad una retribuzione ………….. in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa>>.
Bisogna quindi affrettarsi nel dare attuazione all’art. 39 cost. per bloccare la proliferazione della contrattazione nazionale che negli ultimi dieci anni ha visto più che triplicati i contratti collettivi nazionali portandoli a circa un migliaio. Molti dei quali sono stati definiti “pirata” dal CNEL e più elegantemente “non leader” dal Ministero del Lavoro.

Le difficoltà nella individuazione del contratto applicabile e delle ricadute operative è sotto gli occhi di tutti.

Alcuni dati ISTAT possono servire per ricordare la realtà nella quale questo fenomeno si incardina: il 95% delle aziende italiane ha meno di 10 dipendenti, il 4% ne occupa da 10 a 49 (le due fasce insieme occupano più del 60% dei lavoratori!) e l’1% ne ha oltre 50.
A questo punto viene da chiedersi: ma chi rappresenta chi?
Dal mio osservatorio e in base alle conoscenze empiriche, nasce la consapevolezza che pochissime delle medie, piccole e soprattutto micro imprese italiane danno delega di rappresentanza alle associazioni imprenditoriali così come sono pochissimi i lavoratori che si iscrivono alle OOSS, il che concretizza un “territorio aziendale” privo di rappresentanza e che, anzi, si lascia rappresentare da altri! Ma chi sono questi altri? Sono coloro che hanno lo sguardo rivolto soltanto alle grandi imprese italiane e che spessissimo trascurano la maggioranza delle imprese e dei lavoratori che non rappresentano. Mi si potrebbe obiettare che la colpa è soltanto delle imprese e dei lavoratori che non “scendono in campo”, che non aderiscono al sistema della rappresentanza facendo mancare il loro sostegno. Vero, ma i pochi che si fregiano, a torto o a ragione, della maggior rappresentatività non possono non tener conto che le loro scelte ricadono sulle imprese e soprattutto sui lavoratori. Non possono non avere una coscienza sociale che li porti a considerare una linea al di sotto della quale non si può scendere.
Pertanto, senza voler rinnegare o ricusare il ruolo delle parti sociali, preziosissimo, ritengo necessario non solo giungere ad uno sfoltimento dei contratti collettivi nazionali di lavoro ma anche ad una “livellazione” di alcuni diritti fondamentali che NON possono variare al variare del CCNL applicato o applicabile; una sorta di minimo comun denominatore che sia trasversale a tutta contrattazione collettiva. Si pensi, ad esempio, al trattamento economico delle assenze per malattia: non si può non disporre di una disciplina uniforme, uguale per tutti i lavoratori indipendentemente dal contratto applicato, se applicato. E questo vale per le ferie, i permessi retribuiti, le ex festività, la riduzione dell’orario di lavoro ecc. che, tra l’altro, incidono fortemente anche nella determinazione del costo del lavoro.
Non si può continuare a giocare sulla pelle dei lavoratori offrendo salari al ribasso e complessi normativi differenziati, ovviamente in minus. Non si può non considerare che se i salari dei lavoratori collocano le famiglie sotto la soglia di povertà, il problema ricadere sullo Stato e quindi sulla collettività.
Ritornando per un attimo al salario minimo legale, risulta davvero difficile ai più comprendere il perché esista una retribuzione minima contributiva, al di sotto della quale non è possibile scendere, mentre al lavoratore può essere assicurata una retribuzione ben più bassa. Tanto per stare ai fatti, oggi, per la generalità dei lavoratori la contribuzione previdenziale e assistenziale non può essere calcolata su imponibili giornalieri inferiori a quelli stabiliti dalla legge. Più precisamente, la retribuzione da assumere ai fini contributivi deve essere determinata nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di retribuzione minima imponibile (minimo contrattuale) e di minimale di retribuzione giornaliera stabilito dalla legge .
In forza della predetta norma, anche i datori di lavoro non aderenti, neppure di fatto, alla disciplina collettiva posta in essere dalle citate organizzazioni sindacali, sono obbligati, agli effetti del versamento delle contribuzioni previdenziali ed assistenziali, al rispetto dei trattamenti retributivi stabiliti dalla citata disciplina collettiva. Per trattamenti retributivi si devono intendere quelli scaturenti dai vari istituti contrattuali incidenti sulla misura della retribuzione.
Da ciò deriva che la retribuzione minima giornaliera a valere dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 2021 deve essere ragguagliata a € 48,98 che moltiplicato per 26 giornate porta ad una retribuzione mensile di € 1.273,48.
Pertanto la contribuzione ai fini previdenziali e pensionistici non può essere inferiore a tale soglia minima. Orbene, basta scorrere un po’ di contratti collettivi nazionali, in particolare quelli definiti pirata, per scoprire che tantissime retribuzioni sono ben al di sotto di tale soglia. Quindi al dipendente viene corrisposta una retribuzione più bassa di quella sulla quale paga la contribuzione.

Ma perché non estendere tale disciplina anche alla retribuzione da corrispondere al lavoratore. Basterebbe davvero poco.

Questa situazione ha ripercussioni generali e coinvolge tutti. Infatti, chiunque di noi si lasci lusingare dai ribassi eccessivi dei prezzi dei prodotti e dei servizi deve ricordarsi che, nella maggior parte dei casi, il prezzo del ribasso lo pagano i lavoratori sottopagati proprio da quelle imprese che falsano la concorrenza utilizzando contratti collettivi pirata.

E non bisogna soltanto porre fine alla pratica del dumping contrattuale dei CCNL ma anche quella dei contratti di prossimità, legalmente stipulati, che finiscono per realizzare fenomeni di dumping quando ad esempio prevedono, sotto l’egida dei sindacati maggiormente rappresentativi, divisori orari che finiscono per formalizzare paghe decisamente basse e collocando, al contempo, le aziende in posizione di mercato di maggior favore rispetto ad altre (che quel contratto non applicano!). Comportamenti da condannare e da combattere.

Forse qualche ragionamento in più va fatto anche in materia di assetti contrattuali e delle materie delegate al secondo livello di contrattazione.

Segnalo, ad esempio, la sostanziale differenziazione retributiva tra la medie e grandi imprese rispetto alle piccole e micro imprese pur applicando il medesimo contratto collettivo. Ai lavoratori di queste ultime, prive di capacità negoziale, viene riconosciuto soltanto il salario previsto dal CCNL facendo registrare una retribuzione inferiore di almeno il 20/25 per cento rispetto ai loro colleghi che lavorano in medie e grandi aziende che possono rivendicare maggiorazioni di salario di produttività tramite il secondo livello di contrattazione. E a nulla è servito prevedere il salario di garanzia: non copre affatto il gap retributivo. E in questo casi non parliamo di contratti pirata.

Chiudo questo mio intervento mettendo in evidenza il problema della raccolta dei dati (sono dati che aspettiamo di conoscere da anni) per misurare la rappresentatività sindacale. La domanda è: i dati effettivamente raccolti sono rappresentativi della realtà? Il dubbio è che i dati raccolti siano “parziali”. I dati raccolti sono infatti quelli degli iscritti al sindacato che portano la delega al proprio datore di lavoro, ma restano fuori dalla conta dei dati tutte le iscrizioni al sindacato che non fanno il “passaggio” in azienda. E poi: quante sono le aziende che eleggono le RSU? Pochissime! E chi misura la rappresentatività delle imprese? Nessuno.

Forse è giunto davvero il momento che le organizzazioni di rappresentanza si “registrino” adottando “uno statuto a base democratica” in modo da valutare con dati oggettivi la radicazione sul territorio, l’organizzazione, il numero di dipendenti e collaboratori in forza, tenendo conto anche (e non principalmente) dei dati raccolti dall’Inps e dal CNEL come previsto dagli accordi interconfederali.

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