Testo integrale con note e bibliografia

1. La proliferazione dei Ccnl ed il fenomeno del dumping contrattuale.

Il fenomeno del dumping contrattuale – e le criticità allo stesso connesse – si annidano nella proliferazione delle parti sociali e nella coesistenza di differenti Ccnl nel medesimo settore . Nuovi soggetti (sia sul lato sindacale che su quello datoriale), sfruttando un sistema basato esclusivamente sul reciproco riconoscimento tra le parti stipulanti, hanno dato vita a veri e propri sistemi di rappresentanza autonomi e differenti rispetto a quelli “tradizionali”, mettendo definitivamente in discussione la tendenziale (anche se non assoluta) vigenza di un singolo Ccnl per ogni perimetro contrattuale .
A fronte di ciò, specie nell’ultimo decennio, si è assistito – accanto al già noto fenomeno dei Ccnl insistenti sul medesimo ambito sottoscritti separatamente da diverse associazioni datoriali (anche a seguito delle scissioni che le hanno investite) ed a quello degli accordi c.d. “fotocopia” – ad una ridefinizione e ad una sovrapposizione dei confini contrattuali. Fenomeno da attribuirsi, in larga misura, ad una frammentazione della rappresentanza d’impresa che va ben oltre la normale e fisiologica manifestazione della libertà sindacale.
Seppur una sovrapposizione almeno parziale sia sempre esistita – in ragione della difficoltà di definire compiutamente gli ambiti di riferimento della contrattazione collettiva di categoria – oggi si assiste a fenomeni del tutto nuovi quali Ccnl applicabili a nuovi settori appositamente ritagliati, Ccnl con un ambito di applicazione plurisettoriale (se non esteso a tutti i settori) e addirittura Ccnl che definiscono il proprio ambito di applicazione per relationem rispetto ad altri Ccnl nei confronti dei quali vogliono fungere da alternativa, mettendo, in più di un caso, anche in dubbio la genuinità dei soggetti firmatari e dei prodotti della relativa negoziazione .
Senza dimenticare, poi, che anche tra le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali “tradizionali” si verificano sovrapposizioni tra Ccnl formalmente dedicati a settori differenti , nonché – in un’ottica di crescente competizione – tentativi di estendere l’ambito di applicazione dei propri Ccnl anche a settori a cui le stesse erano in passato estranee .
Il quadro che emerge dall’Archivio nazionale dei contratti collettivi istituito presso il Cnel è impietoso. Nel XIII Rapporto periodico, aggiornato al 30/06/2021, il Cnel cataloga ben 985 differenti Ccnl relativi al settore privato. Nel I Rapporto (redatto sulla base dei dati al marzo 2015) i Ccnl depositati nell’Archivio erano 708, mentre nel 2008 gli stessi erano all’incirca 400 . Tale incremento discende principalmente dalla crescita, accanto a quella sottoscritta dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni datoriali comparativamente più rappresentative, di una differente contrattazione collettiva posta in essere da soggetti caratterizzati da minore (e spesso dubbia) rappresentatività. Contrattazione che riconosce trattamenti economici e – sempre più spesso – normativi deteriori, ponendosi in aperta concorrenza con quella maggioritaria.

2. La disciplina interconfederale sulla misurazione della rappresentatività.

Nonostante gli sforzi fatti dalle parti sociali, il problema del dumping contrattuale non sembra poter trovare soluzione per il tramite dalla disciplina pattizia in materia di rappresentatività. Il Testo Unico sulla Rappresentanza , al pari delle altre intese interconfederali in materia mira, infatti, a risolvere le difficoltà derivanti dai c.d. accordi separati e non quelle causate dalla presenza di differenti Ccnl contemporaneamente applicabili. Nel tentativo di dare soluzione alle vicende legate alla firma separata de CCNL metalmeccanici industria del 2009 , il Testo Unico sulla Rappresentanza mirava a garantire una contrattazione unitaria in cui il dissenso di una organizzazione sindacale rimanesse “interno” al sistema delle regole autonomamente poste dalle parti sociali, grazie al principio di maggioranza ed alla vincolatività degli accordi sottoscritti anche nei confronti delle organizzazioni partecipanti ma non firmatarie.
Invece, nell’ipotesi di coesistenza di due differenti Ccnl – sottoscritti da soggetti diversi di cui solo alcuni si sono vincolati a rispettare le regole interconfederali sulla misurazione della rappresentatività – non si tratta di un conflitto “interno”, bensì di un conflitto “esterno” che, stante l’efficacia meramente inter partes delle relative previsioni, non può trovare soluzione alla luce della disciplina contrattuale sulla misurazione della rappresentatività. Una estensione di tali regole – con conseguente vincolatività delle stesse – sarebbe, infatti, ipotizzabile esclusivamente nella misura in cui i soggetti firmatari dei contratti concorrenti decidessero di aderirvi, diventandone parti contraenti.
Le parti sociali hanno provato a dare risposta a questo radicale cambio di scenario con il Patto della Fabbrica . Quest’ultimo, concentrandosi sul fenomeno del dumping contrattuale, sposta l’ambito di misurazione della rappresentatività dal singolo Ccnl ai perimetri contrattuali (nell’ambito dei quali possono coestere più Ccnl), riecheggiando – nonostante sia ormai consolidato quell’orientamento giurisprudenziale che nega la concezione ontologica della categoria e, quindi, la sua applicabilità ai Ccnl di diritto comune – l’art. 2070 cod. civ. .
In quest’ottica, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto al Cnel di effettuare una precisa ricognizione dei perimetri dei Ccnl e dei soggetti firmatari nell’ambito di ogni singolo perimetro contrattua¬le per renderne possibile, sulla base di dati oggettivi, l’accertamento dell’effetti¬va rappresentatività. Tale verifica mira a favorire l’adozione di regole condivise che assicurino il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva, impedendo – specie a sog-getti privi di adeguato livello di rappresentatività certificata – di (continuare a) violare o forzare arbitrariamente i perimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria.
Stante la sua natura privatistica, quella dettata dal Patto della Fabbrica – come del resto anche quella pre¬cedente del Testo Unico sulla Rappresentanza – è una regolamentazione che opera esclusivamente su base volontaria e contrattuale ed è vincolante solo per le parti firmatarie/aderenti e le organizzazioni alle stesse affiliate. L’eventuale efficacia generalizzata è, quindi, condizionata alla volontà delle altre associazioni datoriali di farsi misurare. Misurazione che deve riguardare anzitutto le ulteriori asso¬ciazioni datoriali operanti nel settore dell’industria – su cui sorge più di un dubbio, quanto meno con riferimento alle associazioni datoriali minoritarie che, vedendo venir meno il loro vantaggio competitivo, verrebbero pena¬lizzate da tale partecipazione – ma anche le associazioni datoriali di altri settori la cui contratta¬zione collettiva si sovrappone (anche solo in parte) con quella del settore industriale.
Consapevoli di tale circostanza, con il Patto della Fabbrica, pur non chiedendolo espressamente – accanto ad una collaborazione per così dire “amministrativa” delle istituzioni – per la prima volta, con un consenso unanime e condiviso, le parti sociali aprono ad un intervento le¬gislativo che, attraverso il recepimento delle intese in materia di misurazione della rappresentanza, definisca un (eventuale) quadro normativo in materia. Solo la legge – grazie alla sua efficacia generalizzata – può, infatti, limi¬tare il fenomeno della proliferazione contrattuale.

3. La necessità di un intervento eteronomo.

Pur non essendovi dubbio che un intervento legislativo in materia di misurazione della rappresentatività non sia ormai più rimandabile, non sembra necessario che lo stesso sia troppo invasivo. La legge dovrebbe, infatti, limitarsi a completare il quadro esistente, predisponendo strumenti di verifica affidabili che consentano di selezionare i soggetti ed i Ccnl sulla base di una rappresentatività effettiva e misurata e non più “ipotetica” . Nonostante alcune criticità, il sistema di relazioni industriali a livello nazionale, anche grazie al supporto dell’apparato normativo posto a sostegno della contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa, sembra, infatti, sufficientemente in grado di reggersi autonomamente.
Qualsiasi intervento normativo deve necessariamente confrontarsi con una serie di questioni preliminari. Anzitutto, non si deve scordare che la categoria professionale non preesiste alla categoria contrattuale, ma è quest’ultima che conforma la prima. Le categorie contrattuali – seppur, in molti casi, nella sostanza coincidono con il settore produttivo – non sono, quindi, ritagliate sulla classificazione delle attività ma discendono dalla libera ed autonoma scelta delle parti stipulanti il Ccnl. In altre parole, l’ambito di applicazione del Ccnl viene definito autonomamente dalle parti firmatarie che ne individuano anche il gruppo collettivo di riferimento . Qualsiasi definizione eteronoma della categoria contrattuale determinerebbe, quindi, un’interferenza, in evidente contrasto con il principio di libertà sindacale (art. 39 co. 1 Cost) . A prescindere da ciò, è indubbio che la definizione della categoria di riferimento sia presupposto necessario ed indefettibile per la misurazione della rappresentatività .
La soluzione astrattamente più rispettosa della libertà sindacale sarebbe quella di devolvere la regolamentazione dei perimetri alle parti sociali, selezionando quelle deputate a farlo in base alla loro rappresentatività . A tal fine, è stata ipotizzata l’introduzione di una regolamentazione legislativa transitoria, che definisca le procedure volte alla definizione di un accordo interconfederale a cui demandare l’individuazione degli ambiti oggettivi di negoziazione . Tale soluzione – anche nell’ipotesi in cui si faccia ricorso ad eventuali procedure conciliative – si rivela, però, poco praticabile. La stessa, infatti, sarebbe possibile solo con un accordo unanime di tutti i soggetti in merito alle “regole del gioco”. Consenso che difficilmente verrebbe espresso da quelle organizzazioni sindacali e associazioni datoriali meno (o per nulla) rappresentative che sfruttano la possibilità di forzare i perimetri contrattuali per trovare uno spazio di manovra.
Non appare convincente nemmeno la soluzione volta a demandare l’individuazione del Ccnl rilevante alla giurisprudenza, chiamandola a scegliere quello rilevante sulla base degli ambiti di applicazione individuati dai Ccnl stessi . Una scelta di questo tipo – a prescindere dall’invocata funzione nomofilattica delle giurisdizioni superiori – rischierebbe di esporsi ad una inaccettabile incertezza applicativa ed al soggettivismo giuridico.
La soluzione di «far tornare indietro le lancette dell’orologio della storia sindacale e recuperare la più duttile nozione della “rappresentatività presunta” o “storica”, desunta dai criteri all’epoca ben individuati da dottrina e giurisprudenza», prescindendo dal requisito numerico quale indice di misurazione della rappresentatività , si porrebbe, invece, in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha ribadito la necessità di una misurazione effettiva della rappresentatività sindacale e, a seguito del referendum abrogativo dell’art. 19 St.lav., ha dichiarato ormai definitivamente superato il criterio della maggiore rappresentanza presunta .
L’unica soluzione praticabile appare, quindi, quella di attribuire la definizione (o meglio l’individuazione) dei perimetri al legislatore, con un intervento non invasivo delle prerogative delle parti sociali . A tal fine, occorre chiarire, sin da subito, che quella da attribuire al legislatore dovrebbe essere una competenza definitoria “funzionale”, limitata cioè esclusivamente a consentire una comparazione tra differenti Ccnl, senza intervenire sugli ambiti di applicazione, la cui definizione rimarrebbe, comunque, in capo alle relative parti stipulanti.

4. La “definizione” della categoria ai fini della misurazione della rappresentatività.

L’accertamento della rappresentatività sindacale presuppone anzitutto l’individuazione degli ambiti in cui procedere alla misurazione. Il punto di partenza per l’individuazione del Ccnl parametro dovrebbe essere l’attività esercitata dal datore di lavoro e, quindi, i relativi codici Ateco. La verifica dovrebbe essere fatta in concreto a prescindere dal codice Ateco formalmente comunicato alla Cciaa .
Individuato il codice Ateco di riferimento, dovranno essere presi in considerazione tutti i Ccnl depositati presso il Cnel che riportino tale codice nel proprio campo di applicazione. Per consentire ciò, dovrebbe essere legislativamente previsto l’obbligo di indicare gli stessi nell’ambito della procedura di deposito.
Il procedimento di individuazione del Ccnl partirebbe, quindi, dalla categoria merceologica (e non da quella contrattuale), ma l’intervento eteronomo non inciderebbe sull’autonoma definizione dei perimetri contrattuali da parte delle parti sociali, salvaguardando la relativa libertà sindacale. Al contempo, tale meccanismo consentirebbe una comparazione anche nell’ipotesi in cui i differenti Ccnl abbiano un ambito di applicazione solo in parte coincidente. Inoltre, scongiurerebbe eventuali strategie opportunistiche, impedendo (o meglio rendendo inutile) la creazione di appositi (sotto)settori in cui le parti firmatarie del Ccnl, in quanto uniche, sarebbero automaticamente rappresentative.
Individuati e comparati tutti i Ccnl rilevanti per quel codice Ateco, occorrerà stabilire quale – o, eventualmente, quali – siano quelli più rappresentativi, non potendosi escludere che nel perimetro di riferimento vi siano contemporaneamente più Ccnl che possano soddisfare tale requisito .

5. Gli indici per la misurazione della rappresentatività.

Una volta individuati i perimetri di riferimento, si potrà procedere alla misurazione della rappresentatività, tenendo ben presenti le differenze esistenti tra il concetto di “rappresentatività a scopo istituzionale” – che riguarda le attività svolte dalle parti sociali, appunto, all’interno di organi istituzionali (e, quindi, ad es. il loro coinvolgimento nel Cnel, in sede ministeriale o da parte degli enti previdenziali) – e la “rappresentatività a fini contrattuali”, relativa, invece, ai diritti ed alle prerogative alle stesse spettanti nell’ambito dell’attività negoziale e, in senso lato, sindacale .
In ragione delle differenti finalità e dei differenti esiti delle attività “istituzionali” rispetto a quelle “contrattuali” l’utilizzo dei medesimi criteri di misurazione della rappresentatività – diversamente da quanto, invece, accade correntemente – dovrebbe essere evitato. Nello specifico, se gli indici qualitativi – anche da ultimo richiamati dalla prassi amministrativa e riconducibili, tendenzialmente, alla diffusione nelle categorie professionali e sul territorio nazionale, alla consistenza numerica, alla partecipazione ai processi negoziali ed all’attività di autotutela – possono essere ancora impiegati per la rappresentatività “a scopo istituzionale”, gli stessi devono, invece, essere abbandonati per quanto riguarda la rappresentatività “a fini contrattuali” e sostituiti da criteri autonomi e dedicati, che facciano riferimento a indici quantitativi ed effettivamente misurabili.
Ai fini della misurazione della rappresentatività sindacale, in linea con le previsioni interconfederali in materia, si dovrà fare riferimento al dato associativo ed a quello elettorale, eventualmente integrati anche con ulteriori criteri . Misurazione che, peraltro, – quanto meno con riferimento alla rappresentatività delle organizzazioni sindacali firmatarie del Testo Unico sulla Rappresentanza – dovrebbe, infine, entrare a regime, con una prima effettiva certificazione nel 2023 .
La misurazione della rappresentatività “a fini contrattuali” non deve essere limitata al solo lato sindacale, ma deve estendersi anche a quello datoriale, nonché al Ccnl stesso. Quanto al primo profilo, si potrebbe fare riferimento al numero delle imprese iscritte (in regola con il pagamento dei contributi) all’associazione datoriale ed a quello dei lavoratori impiegati dalle stesse . L’utilizzo di un criterio piuttosto che l’altro finirebbe necessariamente per avvantaggiare alcuni soggetti rispetto ad altri. Per tale ragione sembra preferibile combinare entrambi i dati, garantendo una misurazione più equilibrata e probabilmente anche più facilmente accettabile dai soggetti chiamati ad esserne oggetto . Nulla, ovviamente, esclude che anche per la rappresentatività datoriale possano essere presi in considerazione ulteriori criteri .
Non potendosi escludere che nell’ambito del medesimo perimetro/settore siano presenti Ccnl negoziati da soggetti che hanno un diverso grado di rappresentatività sul lato datoriale rispetto a quello sindacale , ulteriore indice per valutare l’effettiva rappresentatività potrebbe essere quello relativo alla diffusione del Ccnl . Misurazione resa ora possibile dal Codice alfanumerico unico Cnel/inps .
Attraverso l’utilizzo dei dati in possesso dell’Inps e del Cnel si potrà individuare il numero delle imprese che applicano ogni Ccnl ed il numero dei lavoratori complessivamente addetti, a prescindere dall’iscrizione alle associazioni datoriali ed alle organizzazioni sindacali stipulanti. Sarà così possibile individuare sulla base di dati effettivi – e non più utilizzando presunzioni e fatti notori – i Ccnl effettivamente rappresentativi. Senza dimenticare, ovviamente, che il dato di rappresentatività del Ccnl non dimostra necessariamente la qualità e l’affidabilità dei soggetti stipulanti, dipendendo principalmente dalle scelte – talvolta, anche opportunistiche – dei datori di lavoro .
Oltre a quelli sui Ccnl, al fine di garantire l’effettività della misurazione, la legge dovrebbe prevedere anche un obbligo di raccolta e comunicazione dei dati di rappresentatività delle parti firmatarie . Sarà così possibile misurare il livello di rappresentatività delle organizzazioni sindacali, delle associazioni datoriali e dei Ccnl, consentendo di certificare (ed aggiornando periodicamente) il relativo dato con riferimento a ciascun codice Ateco.

6. La determinazione della giusta retribuzione.

L’intervento eteronomo dovrebbe, quindi, mirare a completare l’apparato normativo già esistente, consentendo di individuare il Ccnl parametro per specifici fini , lasciando pienamente valido ed efficace – per il residuo – il Ccnl, anche se minoritario. In particolare, il Ccnl così individuato dovrebbe essere rilevante ai fini della quantificazione della giusta retribuzione e del minimale contributivo virtuale , per la fruizione dei benefici normativi e contributivi , nonché per l’individuazione del Ccnl che può intervenire nelle ipotesi di contrattazione delegata . Si tratta, infatti, di ipotesi in cui ragioni obiettive e di rango costituzionale legittimano il richiamo alla categoria ex art. 2070 cod. civ., limitando parzialmente la libertà sindacale del datore di lavoro.
Mentre per tutte le altre ipotesi individuate sussiste una specifica disciplina legislativa, la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex artt. 36 Cost e 2099 cod. civ. è, ancora, demandata alla giurisprudenza. In particolare, con una modalità tanto consolidata da essere definita la “via italiana” al salario minimo , nell’evenienza in cui trovi applicazione un Ccnl previsto per un settore differente, al fine di verificarne la rispondenza al precetto costituzionale, la giurisprudenza richiama il Ccnl dell’effettiva categoria merceologica ed i minimi retributivi definiti dallo stesso . La retribuzione prevista per una differente attività non potrebbe, infatti, fungere da parametro utile ai fini della valutazione di compatibilità con l’art. 36 Cost. in quanto, appunto, parametrata alle specifiche caratteristiche del differente settore.
Per fornire completezza al sistema prospettato, sarebbe, quindi, necessario un intervento eteronomo che intervenga anche in tale ambito . Intervento che sarebbe, peraltro, del tutto legittimo, dovendosi escludere che l’art. 36 Cost. introduca una riserva a favore della contrattazione collettiva per la definizione della giusta retribuzione .
Tale intervento potrebbe ispirarsi a due modelli differenti ed, in particolare, potrebbe prevedere l’introduzione di un compenso orario minimo determinato direttamente per legge (c.d. salario minimo legale ) ovvero rinviare, con la loro conseguente generalizzazione, ai minimi retributivi previsti dai Ccnl. Al fine di evitare un’eccessiva compressione delle prerogative delle parti sociali ed una interferenza sulla sfera della libertà sindacale, è sicuramente preferibile un intervento legislativo in linea con quanto statuito da C. Cost. n. 51/2015 e, quindi, sotto la copertura dell’art. 36 Cost. . Seppur dettato per il settore cooperativo, il meccanismo di rinvio al Ccnl comparativamente più rappresentativo nel settore come parametro esterno di commisurazione della retribuzione previsto dall’art. 7, co. 4, d.l. n. 248/2007 deve, infatti, considerarsi ammissibile anche al di fuori di tale settore e, quindi, estensibile in via generalizzata. Nei settori (o meglio per i codici Ateco) eventualmente non coperti da Ccnl effettivamente rappresentativi, ai fini dell’individuazione del trattamento minimo da rispettare, si potrà fare riferimento alla contrattazione collettiva del settore più prossimo ed affine .
Un meccanismo di questo tipo – pur garantendo la tutela del principio di libertà sindacale di cui all’art. 39 co. 1 Cost. – riuscirebbe, infatti, a garantire una copertura tendenzialmente generalizzata dei minimi contributivi previsti dai Ccnl comparativamente più rappresentativi, attraverso un’equilibrata integrazione tra ordinamento statale e ordinamento intersindacale . Anzitutto, i datori di lavoro che non sono vincolati a tale Ccnl – perché non ne applicano nessuno o ne applicano uno differente – sarebbero comunque tenuti a riconoscere ai propri dipendenti un trattamento complessivo, in qualsivoglia modo articolato, non inferiore al minimo prescritto dai Ccnl maggiormente rappresentativi utilizzati quale parametro . Tale circostanza, probabilmente, dovrebbe, a sua volta, favorire l’applicazione spontanea del Ccnl maggiormente rappresentativo, venendo meno il vantaggio competitivo, in precedenza, dato dal Ccnl minoritario con condizioni economiche inferiori .
Peraltro, nell’applicazione giurisprudenziale, il riconoscimento del trattamento retributivo previsto dal Ccnl non è automatica . Sovente al lavoratore non è riconosciuta la retribuzione complessivamente garantita dal Ccnl (che ha un valore soltanto orientativo), ma solo il c.d. trattamento minimo, escludendo gli elementi tipicamente contrattuali . Senza dimenticare che sono anche ammessi più o meno ampi scostamenti rispetto alla retribuzione prevista dal Ccnl, purché adeguatamente motivati, al ricorrere di condizioni di vario tipo . L’intervento normativo permetterebbe, quindi, anche di superare le incertezze a cui ha dato origine il meccanismo di determinazione della retribuzione elaborato in via giurisprudenziale, chiarendo che il rispetto dell’art. 36 Cost. deve essere condizionato al riconoscimento dell’intero trattamento retributivo previsto dal Ccnl.

 

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