TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La Direttiva finalmente c’è: cenni sulle novità del testo definitivo. – Come è noto, il 7 giugno i negoziatori del Consiglio e del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico all’esito del trilogo sul contenuto della emananda Direttiva, ora in itinere per l’approvazione definitiva e la pubblicazione .
In altra sede ho discusso le ragioni per le quali – malgrado l’esclusione delle retribuzioni dalle competenze dell’Unione, stabilita dall’art. 153, §5, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – la Commissione si è determinata a proporre un intervento, nonché le basi giuridiche dello stesso.
Il testo finale, di cui ho potuto prendere visione, contiene qualche novità da considerare, già nei considerando che lo precedono.
Infatti, è vero che “il preambolo di un atto comunitario non ha valore giuridico vincolante” , ma “è idoneo a precisare il contenuto delle disposizioni dell’atto stesso” , quindi il loro esame non ha solo valore dal punto di vista dell’analisi politica della legislazione.
Dunque, qui si accennerà sia ai considerando sia all’articolato del testo definitivo della Direttiva in corso di approvazione.
Se al primo considerando il Parlamento europeo aveva proposto di inserire fra gli scopi della Direttiva eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale, queste parole non compaiono nel testo concordato se non con riferimento al rapporto tra i sessi, ma lo stesso testo concordato recupera dal testo emendato del Parlamento un elemento di grandissimo rilievo come l’impegno per il pieno impiego, ribadito al successivo considerando aggiunto come promozione dell’occupazione. La cosa ha importanza perché, sebbene espresso nell’art. 3 del TUE, e sempre richiamato nelle decisioni annuali del Consiglio sulle linee guida per le politiche dell’occupazione degli Stati membri, il principio è stato per molti anni di fatto abbandonato dalle istituzioni europee e dalle politiche da esse promosse, oltre che dalla stessa legislazione.
Sempre nei considerando, va segnalata la maggiore enfasi data alle “national practices” nella fissazione dei salari, in precedenza già richiamate nell’art. 5 della proposta della Commissione, e alla contrattazione collettiva (considerando 5 e 6). E, nel rivelare le ideologie sottese e gli interessi coinvolti, il testo definitivo ha cancellato la proposta del Parlamento che poneva come scopo “avoid labour cost competition” (considerando 5): competizione che evidentemente viene ancora considerata uno scopo legittimo, ma pur sempre nell’ambito di un “level playing field” (considerando 7, e 27 – nel quale ultimo è stato introdotto su proposta parlamentare).
Si deve apprezzare invece la maggiore nettezza nel rilevare la sovrarappresentazione delle donne nei lavori poveri, e dunque l’importanza dell’intervento per la parità di genere (considerando 10).
Introducendo un considerando numerato 24 nel testo definitivo, in conformità alla posizione del Parlamento, si è reso omaggio ai sistemi che prevendono alti salari esclusivamente attraverso sistemi di contrattazione collettiva universalmente applicabile, cioè i Paesi nordici, i quali – tutti con Governi a guida socialdemocratica - notoriamente hanno espresso una certa resistenza all’approvazione della Direttiva.
Nel cruciale rapporto tra Direttiva e contrattazione collettiva, su cui si tornerà a proposito della situazione italiana, va segnalato che mentre la Commissione aveva proposto di fissare il 70% di lavoratori e lavoratrici coperti dalla contrattazione collettiva come obiettivo (art. 4, §2, della proposta della Commissione), il Consiglio aveva controproposto di farne un indicatore ma non una soglia, e su sollecitazione della posizione parlamentare il considerando 26 del testo definitivo indica invece un obbligo per gli Stati che non raggiungano la soglia dell’80% di copertura di prendere misure, e in particolare di formulare un piano d’azione notificato alla Commissione, eventualmente concordato con o tra le parti sociali, per raggiungere tale obiettivo. Altrove ho espresso i miei dubbi sull’attendibilità delle stime che danno per conseguita in Italia tale soglia , che non considerano falsi autonomi e lavoratori in nero, al contrario di quanto richiede l’art. 2 della Direttiva, e in ogni caso occorrerebbe sollevare la questione se la si possa considerare raggiunta attraverso la abbondantissima produzione contrattuale di organizzazioni datoriali e sindacali prive di effettiva rappresentatività o di dubbia rappresentatività , ancorché magari rappresentate nel CNEL: emerge già dai dati dello stesso CNEL che il 13% dei lavoratori i cui rapporti di lavoro siano dichiarati come subordinati e di cui sia noto il contratto collettivo applicato – quindi già una base più ristretta del totale - non si vedono applicato un contratto collettivo stipulato da organizzazioni datoriali e sindacali rappresentate nello stesso CNEL (che non vuol dire, naturalmente, che si tratti dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, visto che nel CNEL sono rappresentate ben nove organizzazioni sindacali del lavoro).
Di una certa importanza anche la previsione della periodicità dell’aggiornamento del salario minimo legale, con cadenze differenti (quadriennale se vi siano meccanismi di indicizzazione, biennale altrimenti: considerando 28 e art. 5, §5), mentre l’articolo 5, §3, legittima un meccanismo di indicizzazione purché non conduca a una diminuzione del livello del salario minimo legale.
Nella individuazione del livello per gli Stati che abbiano un meccanismo legale, ai già noti criteri del 60% della retribuzione mediana e 50% di quella media, si aggiunge la necessità di fissare un paniere di beni e servizi al cui prezzo commisurare la previsione del salario minimo (considerando 29) .
Va ricordato inoltre che, tra i meccanismi di controllo illustrati si parla di controlli non preannunciati, con buona pace delle dichiarazioni incaute di qualche Ministro dell’attuale governo italiano (considerando 31).
Un po’ sfumato, invece, non solo rispetto alla posizione del Parlamento ma anche alla proposta della Commissione, l’accordo in tema di appalti e subappalti pubblici, e concessioni (considerando 32 e art. 9), in cui nel considerando si rinvia alle stazioni appaltanti le misure da prendere, che però l’articolo affida agli Stati membri.
Un particolare significato ha avuto la disputa intorno ai criteri di adeguatezza del salario minimo legale, naturalmente per gli Stati membri che abbiano scelto di avere un salario minimo di fonte legislativa. Nella proposta della Commissione erano indicati tra i parametri da prendere obbligatoriamente in considerazione per la fissazione del salario minimo gli sviluppi della produttività del lavoro, criterio poi cancellato dal Parlamento europeo , reintrodotto come livelli e sviluppi della produttività del lavoro da parte del Consiglio, e finalmente entrato nel testo finale come livelli e sviluppi a lungo termine della produttività nazionale (non più produttività del lavoro).
2. L’Italia di fronte alla direttiva. - Quel che non è mutato, né avrebbe potuto mutare, nella discussione tra i tre soggetti del processo legislativo europeo, è il grado di vincolo che sarà esercitato verso gli Stati membri.
In questo concorrono lo sbarramento giuridico costituito dall’art. 153, §5, del TFUE, e la forte resistenza, per ragioni politiche diverse, dei Paesi dell’Est e di quelli nordici.
Sta di fatto che la Direttiva, sin dalla proposta della Commissione, è molto chiara nel disporre che essa non crea agli Stati membri l’obbligo di introdurre un salario minimo legale negli Stati in cui sia la contrattazione a fissare i salari, e neppure di dare efficacia erga omnes alla contrattazione stessa (art. 1, §4, del testo definitivo).
È pur vero quello che si è scritto nel paragrafo precedente a proposito della dubbia attendibilità delle stime di copertura della contrattazione collettiva, che ove fosse verificata potrebbe creare un obbligo in capo all’Italia, ma non di intervenire con un provvedimento legislativo.
Quindi, un obbligo giuridico non sorgerà neppure quando la Direttiva sarà definitivamente approvata; ma naturalmente non solo l’esistenza stessa di una Direttiva, testimone dell’importanza che il legislatore europeo attribuisce alla materia, ma anche i dati sui salari che evidenziano come solo in Italia tra tutti i Paesi Ocse nell’ultimo trentennio il valore reale del salario medio abbia conosciuto una flessione , e la stima per la quale in Italia vi sono, come si dirà infra, milioni di lavoratori e lavoratrici poveri , pongono una urgenza sociale e una questione politica di notevole rilievo .
Infatti, a parte due forze dell’attuale maggioranza di governo – Lega Nord e Forza Italia - che hanno espresso viva contrarietà all’intervento legislativo in discussione al Senato, molte forze politiche, grandi e piccole, hanno presentato disegni di legge sul tema .
Tuttavia, la ristrettezza dei tempi ora disponibili e il fatto che il Governo in carica certamente non prenderà iniziative in merito, per le divisioni della maggioranza che lo sostiene, rendono alquanto improbabile una approvazione entro il termine della legislatura.
Il dibattito scientifico, che è stato ravvivato proprio dalle iniziative legislative di cui si è parlato, ferve e appare di notevole utilità, anche per la confusione dell’opinione pubblica, compresa quella qualificata, che non pare consapevole del significato di un eventuale intervento legislativo.
Qui debbo riaffermare che a mio giudizio l’intervento legislativo è improrogabile, perché il prolungamento dell’ipotesi astensionistica non si confronta con la realtà: che è fatta della continua proliferazione dei contratti collettivi nazionali “pirata”, essendo i CCNL arrivati alla mostruosa cifra di 992, quasi raddoppiando nell’ultimo decennio; e del dato che esistono troppe persone – lavoratori subordinati a nero, lavoratori subordinati cui si applicano contratti collettivi “pirata”, falsi lavoratori autonomi (come nel caso celebre dei ciclofattorini), lavoratori parasubordinati, part-timers involontari (soprattutto donne) e persino lavoratori subordinati cui si applicano contratti collettivi nazionali sottoscritti sì dalle organizzazioni datoriale e sindacali comparativamente più rappresentative, ma in settori di enorme debolezza contrattuale del lavoro (sono giustamente celebri i casi del CCNL Multiservizi e di quello Servizi fiduciari) – le quali guadagnano una cifra del tutto insufficiente ad assicurare a chi lavora e alla sua famiglia l’esistenza libera e dignitosa di cui parla l’art. 36, co. 1, Cost., e in ogni caso inferiore ai parametri indicati nella Direttiva (art. 5, §4).
Le stime su quante siano le persone che effettivamente guadagnano di meno delle cifre che deriverebbero dall’applicazione dei parametri indicati sono varie, andando da 2,7 milioni di in-work poor (tra cui il 10,1 dei lavoratori subordinati) per il 2019 , all’11,8% dei lavoratori subordinati (cioè circa 2,1 milioni) e 17,6% dei non subordinati (circa 0,9 milioni) a rischio di povertà nel 2020 , all’11,8% di lavoratori poveri (cioè ancora circa 2,7 milioni) nel 2019, conteggiando solo coloro che abbiano lavorato svolto un lavoro per almeno metà dell’anno .
Queste cifre smentiscono ogni interpretazione autoconsolatoria sull’elevato grado di copertura di lavoratrici e lavoratori italiani da parte della contrattazione collettiva delle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative: per quanto questa possa risultare significativa, ci sono ugualmente in Italia milioni di persone nell’area del lavoro povero. Basterà ricordare al proposito che è stato osservato da fonte insospettabile come “l’esiguità dei salari percepiti dai lavoratori italiani risulta confermata anche dalle stime relative al
numero di soggetti che, pur essendo titolari di un rapporto di lavoro, percepiscono il Reddito di cittadinanza” , che al gennaio 2021 ammontavano a ben 365.000, di cui il 38% con contratto a tempo indeterminato .
Esistono, dunque, le ragioni sociali per un intervento legislativo, che non può più essere supplito dal salario minimo giurisprudenziale che – a prescindere qui da ogni valutazione sui suoi meriti storici e sui suoi difetti tecnici - appare sempre meno in grado, anche nella sola area del lavoro subordinato , di garantire una effettiva applicazione della disposizione costituzionale in tema di retribuzione sufficiente; e mi pare che la prova inequivocabile stia nell’apparire nella giurisprudenza di sentenze che dichiarano inadeguata, e dunque in contrasto con l’art. 36, co. 1, Cost., la retribuzione pur fissata dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative .
3. I nodi problematici di un intervento legislativo nazionale sul salario minimo. – Se il legislatore italiano propendesse per l’introduzione di una misura legislativa nazionale sul salario minimo, incontrerebbe alcuni nodi problematici nell’impostazione della stessa, che ne possono mutare significativamente l’equilibrio e le conseguenze. Nei sottoparagrafi che seguono, proverò a considerarne i principali.
3.1. Il campo di applicazione della legge. - La prima questione è il campo di applicazione, che la Direttiva affronta all’art. 2 con tutta l’equivocità del rinvio alle definizioni nazionali di “contract of employment” ma “with consideration to the case-law of the Court of Justice of the European Union”: la quale giurisprudenza, però, opera con un criterio differente da quello in vigore in Italia , che non prevede una ripartizione binaria tra impresa e lavoro, ma articola le figure del lavoro tra lavoro subordinato e lavoro autonomo .
Di conseguenza, bisognerebbe includere l’insieme delle figure di cui ci parla il considerando 21 del testo concordato della Direttiva (“workers in both the private and the public sector, as well as domestic workers, on-demand workers, intermittent workers, voucher based-workers, platform workers, trainees, apprentices and other non-standard workers, as well as bogus self-employed and undeclared workers could fall within the scope of this Directive”). Orbene, tenuto conto dell’interpretazione che il considerando 21 dà del campo di applicazione definito all’articolo 2 della Direttiva stessa, risulta evidente che un eventuale intervento legislativo nazionale ne debba necessariamente tenere conto, mentre su questo le proposte giacenti in Parlamento sono assai difformi, giacché c’è chi non se ne tratta proprio , chi si limita a prevedere come destinatari i lavoratori subordinati , chi invece oltre ai lavoratori subordinati include anche quelli etero-organizzati , chi esclude gli apprendisti – esclusione d’altronde consentita dall’art. 6 della Direttiva, per il perseguimento di uno scopo legittimo -, e infine chi dilata il campo di applicazione al massimo, includendovi anche lavoratori occasionali e collaborazioni coordinate e continuative , o inserendovi il tema dell’equo compenso per il lavoro autonomo .
3.2 Il rapporto tra contrattazione collettiva e legge. - Da sempre il punto più critico dell’ipotesi del salario minimo fissato per legge è quello del rapporto tra l’intervento autonomo e la contrattazione collettiva, cioè l’attività autonoma delle parti sociali.
Non solo nei Paesi nordici, ma anche in Italia la posizione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori è stata piuttosto diffidente verso l’intervento legislativo, pur se la diffusa opinione che esse siano puramente e semplicemente contrarie è destituita di ogni fondamento.
Dalle opinioni pubblicamente espresse risulta un fatto alquanto curioso, dati i precedenti storici: chi è espresso più nettamente contro l’ipotesi di un intervento legislativo è stata la Cisl . Eppure, l’idea di un intervento legislativo volto a fissare un salario minimo se non proprio nata , certamente è stata riproposta, in anni ormai lontani, proprio da giuristi autorevolissimi e particolarmente vicini a quella confederazione sindacale .
Molto più sfumate, e anzi sostanzialmente favorevoli, le opinioni delle altre confederazioni , sindacali maggiori ; e invece tra le organizzazioni datoriali – alle cui esigenze, come si sa, l’attuale Parlamento è in larga maggioranza molto sensibile – va segnalata la posizione di Confindustria, che ha sostanzialmente proposto una applicazione differenziata , mentre Confcommercio ha espresso contrarietà .
Occorre tenere presente che nella legge delega del Jobs Act vi fu la previsione di una delega volta a introdurre una salario minimo legale sperimentale e settoriale , delega poi mai attuata, ma che di fatto metteva in concorrenza contrattazione collettiva e legge, giacché si sarebbe dovuto applicare o il minimo previsto dall’una o dall’altra, anziché farle interagire positivamente. Fortunatamente, la delega non fu esercitata.
In realtà, invece, diverse tra le proposte depositate in Parlamento appaiono molto rispettose del tradizionale ruolo di autorità salariale riconosciuto nel nostro Paese ai contratti collettivi.
Si cerca, cioè di rendere complementari, e non già concorrenti, regolazione autonoma e regolazione eteronoma.
In questo senso vanno ricordate tutte le proposte che – anziché fissare una cifra minima fissa uguale per tutte e tutti – definiscono il salario minimo legale, attuazione dell’art. 36, co. 1, Cost., per rinvio al trattamento economico complessivo fissato dai contratti collettivi stessi, e quindi con differenziazioni dovute alla diversità dei contratti collettivi stessi e all’inquadramento contrattuale di ciascuna singola persona.
Praticamente tutte le proposte, salvo quella Pastorino, non si limitano peraltro ad un mero rinvio a contratti collettivi non qualificati, ma li individuano attraverso il riferimento alla rappresentatività comparata.
In altre parole, il lavoratore metalmeccanico di terzo livello avrebbe diritto, in questa prospettiva, un salario minimo legale differente dal lavoratore cui applichi il CCNL Multiservizi, ma anche dal lavoratore metalmeccanico di quinto livello.
Un impianto di questo genere sarebbe scrupolosamente rispettoso dei principi costituzionali di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, oltre che di sufficienza della retribuzione stessa, e lascerebbe ai CCNL il loro storico ruolo, precludendo anche l’eventualità – temuta da un certo numero di sindacalisti - che i datori di lavoro fuoriescano dal sistema contrattuale per applicare esclusivamente il salario minimo legale: dato che il primo e il secondo si identificherebbero .
Né avrebbe valore alcuno una eventuale obiezione, secondo la quale in tal maniera si renderebbe efficace erga omnes il contratto collettivo, per una via differente dall’attuazione dei commi 2-4 dell’art. 39 Cost., in violazione del principio fissato dalla giurisprudenza costituzionale nella lontana sentenza 11-19 dicembre 1962, n. 106, e mai superato.
In contrario, infatti, depone la posizione che assai più recentemente ha preso la stessa Corte costituzionale, giudicando della legittimità della disposizione legale che aveva previsto come “in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria” (art. 7, comma 4, d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. con modificazioni in legge 28 febbraio 2008, n. 31).
La Corte costituzionale, con la sentenza 26 marzo 2015, n. 51 , ha rigettato la questione propostale, osservando che la norma dell’art. 7 “lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. […] Nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”.
Di conseguenza, la riproposizione di una disciplina similare, ma questa volta non limitata al settore dei lavoratori dipendenti delle cooperative, avrebbe il duplice vantaggio di essere certamente legittima costituzionalmente, e di lasciare alle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative e ai prodotti della loro attività negoziale, il ruolo di principale autorità salariale, rendendo palese l’infondatezza delle preoccupazioni espresse dalla Cisl.
Semmai, una legge nazionale che disciplini in siffatta maniera il salario minimo legale, pone un più sottile problema: dati i diversi obblighi che la Direttiva intende porre in capo agli Stati membri, a seconda che la fissazione dei salari sia affidata interamente alla contrattazione, o che vi sia un sistema di salario minimo legale, dove si collocherebbe l’Italia? Una parte della dottrina ha opinato che “ove tale modello venisse legificato, l’Italia resterebbe tra i paesi in cui il salario minimo è fissato dalla contrattazione collettiva”, quanto meno – nel caso che sia fissata una cifra minima inderogabile, come si vedrà infra, come “fonte principale” .
Questa posizione non mi convince, giacché mi pare trascuri le indicazioni che ci sono venute da Corte cost. 51/2015, per la quale non si applica la retribuzione prevista dai CCNL; ma essa viene assunta solo come “parametro esterno di commisurazione”: il che ci pone nell’alternativa di ritenere questo un mero artificio verbale , facendo restare l’Italia comunque tra i Paesi con salario minimo di fonte contrattuale, cozzando però con i noti problemi di costituzionalità; oppure prendere sul serio la giurisprudenza costituzionale, e ammettere che l’intervento legislativo porterebbe l’Italia nell’ambito di quella larga maggioranza di Paesi dell’Unione che hanno un sistema di salario minimo legale, con tutte le conseguenze in materia di applicazione della Direttiva.
Una valutazione differente si deve formulare, a mio avviso, per quanto riguarda le proposte che prevedono l’istituzione di una Commissione.
Le funzioni che dovrebbero essere affidate a questa Commissione sono varie: nella proposta Delrio, è una Commissione tripartita integrata da esperti, la quale avrebbe da un lato funzioni propositive, dall’altro quella principale di indicare annualmente l’adeguamento necessario del salario minimo da attuare con decreto ministeriale. Nella proposta Rizzetto, è invece una Commissione tecnica, con partecipazione minoritaria di esperti designati dalle parti sociali, che ha la funzione di determinare il salario minimo orario nazionale, del quale nella stessa proposta è previsto l’aggiornamento triennale: un modello più vicino a quello di un’autorità amministrativa indipendente, come dimostra anche la nomina d’intesa tra i Presidenti delle Camere. Nella proposta Nannicini, invece, la Commissione ha un immenso potere – con disposizioni la cui legittimità costituzionale suscita più di un dubbio, quando pretende di affidarle non solo la determinazione di un salario minimo di garanzia per gli ipotetici settori non coperti da contrattazione collettiva, che ovviamente non esistono in un sistema come il nostro di salario minimo giurisprudenziale, ma addirittura gli ambiti della contrattazione collettiva nazionale, oltre che i criteri della rappresentatività.
Nella proposta Laforgia si torna a una commissione tecnica, con prevalente composizione di rappresentanti di Amministrazioni, che sembra avere una funzione latamente arbitrale delle controversie collettive, sia in tema di campo di applicazione dei CCNL, sia in tema di misurazione della rappresentatività.
Infine, nella seconda proposta Catalfo, c’è di nuovo una Commissione tripartita con la funzione sia di aggiornare il minimo inderogabilmente fissato dalla legge, sia di individuare i CCNL prevalenti.
Ho già avuto occasione di esprimere l’opinione che, con tutte le differenze evidenziate tra i diversi progetti, questa previsione non sia affatto opportuna .
Se la ipotizzata Commissione ha un vero e proprio potere di aggiornamento del salario minimo legale, o anche solo della soglia minima inderogabile di questo, saremmo di fronte a una inaccettabile costituzione di una terza autorità salariale, oltre ai contratti collettivi e alla legge , di pesante marca eteronoma.
Se viceversa essa prevedesse una rilevante partecipazione delle parti sociali, essa costituirebbe una sede parallela di negoziazione retributiva, che nuocerebbe alla contrattazione collettiva come autorità salariale.
Naturalmente questo lascia impregiudicato il tema dell’adeguamento nel tempo del salario minimo legale, di cui si parlerà infra.
Peraltro, l’insieme delle differenti proposte qui riassunte mi pare dimostri che il sovrapporre all’intervento legislativo sul salario minimo temi come quelli dell’efficacia generale dei contratti collettivi o della misurazione della rappresentatività sindacale, con tutti i complessi problemi tecnici e politici che li caratterizzano, ciascuno e nella loro combinazione, possa avere come unico effetto non la soluzione simultanea delle questioni attorno alle quali si arrovellano da decenni il legislatore e la stessa dottrina, ma solo di impantanare la discussione sul salario minimo legale, rendendo estremamente difficile l’approvazione di un intervento legislativo qualsiasi .
3.3. Una cifra come minimo inderogabile è una necessità. Ma quale? – È legittimo chiedersi a questo punto se questa originale via italiana al salario minimo legale, già delineata nell’intervento legislativo sul lavoro subordinato in cooperativa , sia sufficiente, o se sia necessario integrarla con la previsione legislativa inderogabile di una cifra al di sotto della quale neppure il salario minimo legale ma di origine contrattual-collettiva possa andare.
È noto che sia serpeggiata all’interno delle maggiori confederazioni sindacali l’idea che basti estendere, sia pure come parametro, la retribuzione dei contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni maggiori: tuttavia, a me pare che i numeri del lavoro povero in Italia che si sono riportati supra, al par. 2, smentiscano senza possibilità di errore che la contrattazione collettiva tra le organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sia riuscita in Italia a scongiurare il fenomeno.
Inadeguate alla portata economico-sociale del fenomeno appaiono quindi le previsioni che prevedono, nel caso che i contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative contengano retribuzioni inferiori al livello fissato dalla legge, si apra un processo di rinegoziazione di questi livelli salariali, il cui esito potrebbe anche mancare.
Nell’analizzare le cifre che il legislatore nazionale potrebbe fissare, occorre ricordare che i parametri della direttiva – sebbene l’art. 5, co. 4, li definisca indicativi, e la dottrina ne abbia tratto che non rappresentino “un target vincolante” , sono costituiti dal 60% del salario mediano o il 50% del salario medio.
Orbene, occorre tenere presente che secondo l’Istat , la soglia dei due terzi del valore mediano dei salari – che definisce i low wage earners in Europa – era nel 2018 di 8,5 euro, mentre alla stessa data il salario medio lordo era di 15,8 euro, di cui il 50% sarebbe stato dunque 7,9 euro lordi. Peraltro, il minimale contributivo, nell’ipotesi di un rapporto a tempo parziale su un orario settimanale di 40 ore, è per il 2022 di 7,49 euro .
Naturalmente, esiste un problema di aggiornamento dei dati statistici, ma ritengo improbabile si possa affermare la conformità alla Direttiva di proposte che, una volta ritenuto indispensabile fissare una cifra minima inderogabile per le ragioni anzidette, la fissa a una cifra minore dei nove euro di cui parlano diverse proposte , da cui si distacca non solo quella che la fissa a dieci euro e quelle che non la fissano direttamente, ma per rinvio al parametro del 50% del salario medio , il che però appare discutibile, per la nota difficoltà di aggiornamento tempestivo dei dati, senza tenere conto dell’aleatorietà dei parametri correttivi di questo contenuti in una proposta .
I dati, comunque, smentiscono la posizione che fu espressa tre anni fa da Confcommercio in relazione alla cifra di nove euro l’ora, per la quale “si tratterebbe, infatti, di un valore pari a circa l’80 per cento del salario medio” .
Semmai, appare rilevante chiarire a livello legislativo, ammesso che legge vi sarà, se il dato si riferisca ai soli minimi tabellari – cosa che riterrei di escludere, perché la costituzionalità della norma dipende proprio dalla previsione di un trattamento economico complessivo, come si è visto: trattamento che però certamente non potrebbe inglobare gli istituti indiretti o le voci variabili della retribuzione.
3.4. – L’aggiornamento dei salari minimi legali definiti per rinvio ai CCNL e della cifra inderogabilmente fissata dal legislatore. – L’aggiornamento del salario minimo legale definito per rinvio ai contratti collettivi deriverebbe, naturalmente, dai rinnovi contrattuali stessi.
Particolarmente accorta, però, di fronte ai cronici ritardi dei rinnovi contrattuali, specialmente al di fuori dell’industria, è la proposta che prevede l’automatica rivalutazione, sulla base delle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, degli importi previsti dai CCNL scaduti e non ancora rinnovati .
Per quanto riguarda invece la cifra minima inderogabile fissata dal legislatore, si è in parte discorso parlando della Commissione cui più di una proposta, come si è visto supra, intende affidare questo compito.
Vi è poi chi affida il compito a un decreto ministeriale, sentite le parti sociali – e qui torna la critica alle sedi contrattuali improprie – tenuto conto delle rilevazioni Istat sui redditi .
Tuttavia, alcune altre proposte, di diverse parti politiche, hanno invece previsto un meccanismo di adeguamento automatico, anche in questo caso in base alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati definito dall’Istituto nazionale di statistica .
E probabilmente, in periodi di ritorno dell’inflazione come l’attuale, questa sarebbe la soluzione meno conflittuale e più affidabile dal punto di vista della tutela degli interessi di chi lavora.
3.5. - Se, nell’ipotesi di un intervento legislativo, siano ammissibili deroghe o differenziazioni settoriali o territoriali. - L’ultima questione politicamente e giuridicamente rilevante cui vorrei qui fare cenno è quella dell’ammissibilità di deroghe o differenziazioni settoriali o territoriali.
La Direttiva, all’Art. 6 – disposizione che ha conosciuto una redazione alquanto tormentata dalla proposta della Commissione, ai testi modificati secondo l’orientamento del Parlamento da un lato e del Consiglio dall’altro, e all’accordo finale frutto del trilogo – consente variazioni e deduzioni dal salario minimo fissato dai legislatori nazionali (che il Parlamento Europeo aveva cercato di eliminare), pur sottolineando il loro limite nei principi di non discriminazione e proporzionalità, nel quale ha fatto rientrare il perseguimento di uno scopo legittimo.
Nei progetti in esame in Parlamento, troviamo da un lato l’esclusione del lavoro domestico , dovuto probabilmente a una valutazione sulla debolezza economica dei datori di lavoro famiglie, che ha portato alla proposta che – in questa sola ipotesi – il salario minimo legale sia fissato con decreto ministeriale, “sulla base del trattamento economico minimo previsto dal contratto collettivo nazionale del settore”.
Diverso ragionamento si deve svolgere per le proposte che ammettono una differenziazione settoriale e regionale: che ammettono casi di esclusione dall’applicazione del salario minimo orario, fissati con decreto ministeriale previo accordo con le organizzazioni comparativamente più rappresentative ; che escludono gli apprendisti ; che intendono differenziare regionalmente il salario minimo orario nazionale definito dalla Commissione con riferimento ai redditi e all’occupazione, previsione quest’ultima alquanto oscura .
Debbo qui confermare, tanto più alla luce del testo definitivo del testo della Direttiva, il giudizio già espresso , ritenendo conforme alla Direttiva stessa l’esclusione del lavoro domestico – altro discorso ovviamente sarebbe quello dell’opportunità – e non conformi le altre ipotesi di differenziazione qui riassunte .
4. Conclusioni.- A me pare che la dottrina italiana abbia alimentato, in particolare durante questa legislatura, un vasto e approfondito dibattuto sul tema, di cui avemmo i prodromi al convegno palermitano del 2018 , e che poi è proseguito sulle riviste, in altre sedi scientifiche , e anche per il frequente ricorso, da parte degli organi parlamentari, ad audizioni non solo delle parti sociali, ma anche di un folto gruppo di studiose e studiosi, le cui opinioni sono facilmente reperibili sui siti delle Camere.
Tuttavia, nell’opinione pubblica, sui media, e persino tra le parti sociali e in Parlamento, mi pare continuino a emergere sintomi di inadeguata informazione e maturazione della riflessione, alla quale dunque anche questo focus di discussione promosso da LDE mi auguro porti elementi di chiarezza.

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