Testo integrale con note e bibliografia

1. Il significato del vincolo del precedente rispetto all'efficacia soggettiva della decisione.

L'oggetto dell'analisi, che è incentrata sul procedimento pregiudiziale c.d. interpretativo della Corte di Giustizia, richiede preliminarmente di chiarire il rapporto che intercorre tra il concetto di "precedente" e il termine "vincolatività".
E' innanzitutto certa la distinzione tra il precedente e la autorità della cosa giudicata. Quest'ultima, infatti, esprime gli effetti prodotti da una statuizione su una domanda avente il medesimo oggetto tra le medesime parti. Rispetto ai procedimenti pregiudiziali, che a rigore non si svolgono inter partes, va dunque precisato che la statuizione ha effetti vincolanti per il giudice a quo .
Il problema è invece rappresentato dalla efficacia "normativa" che quella stessa statuizione dovrebbe produrre nei confronti di altri casi, perché qui il tema del precedente si intreccia e rischia di confondersi con quello della efficacia soggettiva delle pronunce della Corte . Tanto è vero che si è parlato pure di "autorità della cosa interpretata" .
La posizione della dottrina maggioritaria, con varie sfumature, è nel senso di riconoscere alle decisioni pregiudiziali della Corte capacità estensiva nei confronti di altri procedimenti, in forza di una loro dichiarata efficacia erga omnes o almeno de facto ultra partes, per la necessaria garanzia della uniforme applicazione dell'interpretazione del diritto euro-unitario , assistita dall'obbligo degli Stati membri di adottare ogni misura "atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione" (art. 4, TUE).
D'altra parte, in alcune circostanze anche il nostro giudice di legittimità si è spinto a parlare di efficacia "vincolante" o "normativa" delle pronunce interpretative del giudice sovranazionale, evidentemente sul presupposto che esso svolga una funzione nomofilattica equiparabile a quella assegnata dall'ordinamento interno alla Cassazione .
Questa capacità espansiva dell'interpretazione del giudice europeo, tuttavia, va riferita alla sua astratta possibilità di estensione, riguardando il se della applicazione a procedimenti diversi da quelli in cui l'interpretazione è elaborata. Invece una teoria del precedente giudiziale si occupa del quando (nel senso di a quali condizioni) tale interpretazione possa, o addirittura debba, applicarsi ad altri procedimenti, in quanto soggetti a quello che può essere definito il medesimo status normativo. D'altronde, di questo si ragiona allorché ci si occupa del vincolo e dei limiti dell'interpretazione conforme richiesta al giudice comune, inteso come giudice successivo nella logica del c.d. precedente verticale. Pertanto è esatto, ma non risolutivo ai fini dell'analisi, il rilievo per cui la "decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte" .
E' comunque evidente che le due tematiche, più che costituire delle prospettive complementari di indagine del medesimo fenomeno, sono destinate a sovrapporsi.
Da un lato, perché nell'ottica inter-temporale il problema del quando debba essere applicata una statuizione resa in altro procedimento assume rilievo anche nell'ottica dell'efficacia soggettiva. Infatti le pronunce del giudice europeo – salvo casi di delimitazione pro futuro e nonostante la Corte costituzionale abbia parlato di jus superveniens – hanno natura dichiarativa, con conseguente efficacia retrospettiva. Da qui pure il problema dell'affidamento dei privati ad una disposizione nazionale o perfino ad una consolidata giurisprudenza domestica che, in seguito, sia giudicata in contrasto con l'interpretazione del diritto dell'Unione .
Dall'altro lato – che è quanto più interessa – perché le due prospettive possono arrivare ad essere concepite come contrapposte, qualora si identifichi il precedente con la sua forza vincolante e quest'ultima sia esclusa alla luce della persistente facoltà del giudice nazionale di sollevare la questione pregiudiziale ; oppure possono convergere, laddove l'efficacia ultra partes venga intesa come mera efficacia inter alios, secondo una logica più affine alla cultura del common law e propria della giurisprudenza di Strasburgo, i cui effetti, tuttavia, in ambito nazionale vengono meditatamente circoscritti all'esistenza di sentenze pilota o di una giurisprudenza europea consolidata, come ribadito dalla recente sentenza a Sezioni Unite penali nel caso dei c.d. "fratelli minori di Contrada" .

 

2. La funzione normativa del precedente quale giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia.

In questa cornice, si deve innanzitutto ripensare la risalente tesi per cui l'ordinamento comunitario si fonderebbe su un sistema di precedenti giudiziali improntato allo stare decisis, con gli unici limiti costituiti dalla facoltà del rinvio pregiudiziale e dal ripensamento da parte della stessa Corte di Giustizia.
Questa impostazione, che risale alle conclusioni dell'avvocato generale Warner nella controversia Manzoni del 1977 – peraltro espresse in relazione non ad una questione di interpretazione, bensì di invalidità dell'art. 46, n. 3, del Regolamento 1408/71 rispetto all'art. 51 TCE – non solo è priva di un esplicito riscontro sul piano del diritto positivo , poiché l'ordinamento europeo nulla dice sull'efficacia vincolante della pronuncia salvo che per la decorrenza temporale (art. 91, RP CG), ma va comunque necessariamente rivisitata sulla scorta delle indicazioni fornite dalle sentenze Da Costa e soprattutto Cilfit e, in seguito, dalle previsioni del regolamento di procedura della stessa Corte di Giustizia.
Si tratta di regole di diversa origine, relative a distinti meccanismi e che interessano un diverso giudice successivo, in quanto riferite alle deroghe all'obbligo di rinvio da parte del giudice nazionale di ultima istanza (art. 267, par. 3, TFUE) e, rispettivamente, al c.d. auto-precedente della Corte, che opera a mo' di precedente preclusivo consentendo l'adozione di ordinanza motivata (art. 104, par. 3 del 1991, ora art. 99 RP CG). Tuttavia ciò che accomuna la soluzione giudiziale e quella procedurale è l'elemento rappresentato, a fronte di questioni identiche (e perfino analoghe, almeno nella logica del rinvio), dall'esistenza di una giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia , che la sentenza Cilfit qualifica ulteriormente come établie e che nel linguaggio interno definiremmo consolidata.
Pertanto in entrambe le visuali – lasciando in disparte l'assenza di ogni ragionevole dubbio, propria della questione che fa luce da sola in forza del diritto positivo (c.d. acte clair) – si assegna rilevanza al c.d. acte eclairè, vale dire a una questione giuridica che viene illuminata dall'esterno, cioè da precedenti statuizioni del giudice europeo .
Benché restino indefiniti i criteri per accertare il consolidamento di una giurisprudenza, in senso quantitativo e perfino qualitativo nella selezione tra le pronunce antecedenti , sembra comunque indubitabile che, mediante questi riferimenti alla sua giurisprudenza établie – da inscrivere nel processo di regolazione (diremmo positivizzazione) della funzione nomofilattica delle Corti di ultima istanza – l'ordinamento europeo attribuisca ad una particolare concezione del precedente giudiziale una funzione normativa, e non solo de facto o meramente persuasiva.
Senonché, questa funzione normativa va appunto definita in relazione alla concezione di "precedente" implicitamente accolta dalle ricordate indicazioni europee, e quindi ad una giurisprudenza che abbia consolidato una regola di diritto. Invero, può dirsi altrettanto indubitabile che, per la preminente tradizione giuridica continentale, il ragionamento giuridico della Corte di Giustizia non solo si fonda sul metodo analitico, ma secondo la logica concettuale ambisce ad elaborare regole astratte e generali, potenzialmente applicabili ad ogni caso ad esse riconducibile. Del resto, prescindendo dalla tematica del giudice creatore di diritto, la Corte è considerata il motore legislativo dell'Unione, se non addirittura il vero legislatore eurounitario .
Ovviamente nell'ambito dei procedimenti pregiudiziali interpretativi è possibile distinguere tra clear cases (peraltro a loro volta non sempre agevolmente distinguibili dalle questioni di infrazione) e hard cases, a seconda che il ragionamento sillogistico sia sufficiente o si renda necessaria la selezione, a livello interpretativo, di una soluzione tra quelle possibili. Questo, però, comprova proprio che l'intervento della Corte – in modo apparentemente non dissimile da quanto vale per il nostro giudice di legittimità – determina il completamento o la specificazione di regole scritte o l'individuazione di regole non scritte, appunto secondo la teoria delle c.d. sub-norme o paradigmi di fattispecie.
Va escluso, pertanto, che il ragionamento della Corte corrisponda a quello proprio del case law "puro", vale a dire incentrato sulla individuazione, da parte del giudice successivo ed attraverso la disamina dei material facts, della ratio decidendi con cui il giudice precedente aveva definito un caso analogo, senza alcuna finalità nomopoietica . Infatti – nonostante la ricostruzione fattuale delle ragioni del rinvio pregiudiziale e salvo eventuali riferimenti nelle conclusioni degli avvocati generali – nella parte motivazionale delle pronunce della Corte di Giustizia non si rinviene una analitica disamina dell'assetto dei fatti che caratterizzavano un caso precedente, e quindi neppure uno specifico raffronto, ma soltanto il richiamo alle regole di diritto elaborate in precedenti statuizioni, a volte utilizzate come essenziale argomento giustificativo, altre volte come mero supporto del ragionamento giuridico. Da qui anche l'esigenza di approcciare diversamente l'utilizzo di concetti forgiati nei sistemi di common law, come quelli di distinguishing o di overruling.
Sulla base di queste premesse, si tratta allora di capire in che modo e quando queste regole di diritto, elaborate dalla giurisprudenza precedente della Corte, possano trovare applicazione alla questione successiva, qualora interessi un caso pendente dinanzi ad un giudice nazionale. A tale fine, tuttavia, sembra indispensabile riflettere ulteriormente sui molteplici fattori che condizionano l'elaborazione di quelle regole già in sede di giurisdizione sovranazionale, dovendosi escludere, rispetto al vincolo ed ai limiti dell'interpretazione comunitariamente orientata, una loro effettiva corrispondenza con i principi di diritto su cui invece si fonda l'intervento nomofilattico del nostro giudice di legittimità.

 

3. I formanti del precedente giudiziale euro-unitario nella politica sociale

Incentrando l'attenzione sulla politica sociale, è intanto possibile rilevare che l'analisi è semplificata dall'assenza, per ragioni di competenza, del precedente verticale che interessa il Tribunale dell'Unione ed i suoi rapporti con la Corte di Giustizia. Da questo punto di vista, pertanto, l'indagine è sostanzialmente circoscritta alla relazione diretta tra la Corte ed il giudice interno.
Al contrario, l'indagine è chiaramente complicata dall'atto derivato dell'Unione che – con le note eccezioni in materia di sicurezza sociale o connesse alla normazione a carattere generale, come quella sulla riservatezza – è deputato a regolare la politica sociale, vale a dire la direttiva.
Questa complicazione è imputabile non solo alla scopo di armonizzazione, di per sé difficilmente compatibile con la pretesa ad un'interpretazione uniforme che è oramai chiamata a penetrare nel dettaglio normativo di una legislazione sempre più articolata , ma anche al cambiamento delle tecniche regolative. Se da un lato si accentua l'introduzione di disposizioni munite di efficacia diretta orizzontale, funzionali all'effettività di alcuni diritti fondamentali , dall'altro si registra una tendenziale svalutazione del contenuto prescrittivo delle disposizioni deputate alla basilare finalità di armonizzazione, che in alcune direttive più recenti appaiono allineate alla genericità degli obiettivi perseguiti o addirittura trasmodano nel linguaggio "ottativo" della possibilità .
A tanto si aggiunge, in alcuni casi, la natura negoziata del contenuto recepito dalle direttive, che dovrebbe originare da una logica di scambio quale prodotto dalla contrattazione collettiva di livello europeo , mentre il recepimento nell'atto comunitario derivato determina la duplicazione dei considerando, a cui pure va attribuito un ruolo ermeneutico.
Su questo fattore di complicazione si innesta la mancanza di regole prestabilite di interpretazione, in quanto la Corte di Giustizia non ha a disposizione una piattaforma metodologica corrispondente a quelle degli ordinamenti interni. Sicché, in linea con la normazione per obiettivi, usualmente si affida al criterio teleologico, che però, a fronte di disposizioni sempre più elastiche, può sfociare nella c.d. logica rimediale – come da ultimo accaduto per l'orientamento espresso in materia di abuso del lavoro interinale – oppure può essere declinato in relazione alle generali finalità dell'ordinamento sovranazionale, in una prospettiva definita meta-teleologica e a cui plausibilmente vanno ricondotti esiti quali quelli delle note vicende Viking e Laval.
Peraltro, nel medesimo contesto interpretativo si è oramai inserita di forza la Carta dei diritti fondamentali UE, alimentando le aspettative sull'immediata precettività dei diritti ivi sanciti ma, proprio per questo, generando questioni tecniche di competenza comunitaria – come è a dirsi per le soluzioni, invero ondivaghe, assunte in materia di licenziamenti – e comunque nuovi equilibri interpretativi. D'altra parte, considerando che la politica sociale è il più acceso terreno di scontro rispetto alla compressione dei margini di scelta discrezionale nel governo dell’economia nazionale, le dinamiche indotte dalla sopravvenienza della Carta non appaiono comunque assimilabili alle esperienze nazionali di interpretazione costituzionalmente orientata, con le quali, ciononostante, anche in sede giudiziale occorre garantire il coordinamento.
Sempre nell'ottica interpretativa esiste, inoltre, la problematica derivante dal multilinguismo, che sotto il versante dell'atto normativo genera dubbi applicativi rispetto alla scelta del significante, a partire dalla distinzione tra i termini worker and employee , mentre i lavori processuali si svolgono (almeno per consuetudine) in francese. Il che significa che le pronunce non solo vengono condizionate dallo stile, tradizionalmente complesso e ridondante, della giurisdizione transalpina, ma sono anche originariamente "ragionate" in quel modo, indipendentemente dalla lingua processuale propria della questione oggetto di rinvio pregiudiziale .
In una logica affine vanno poi ricordati i profili strutturali della giurisdizione europea, e quindi la durata dei mandati, la posizione degli avvocati generali e l'assenza della dissenting opinion, cui adde l'apporto di altre tradizioni giuridiche a seguito dell'ingresso di nuovi Stati membri.
Alle problematiche finora segnalate va infine aggiunta quella che interessa l'utilizzo di nozioni giuridiche che non sempre costituiscono un patrimonio condiviso da tutti gli ordinamenti interni. Ad esempio, proprio per la basilare questione di identificazione del soggetto-lavoratore si registra, a seguito della direttiva 2019/1152 relativa a "condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea”, una tendenza espansiva del diritto dell'Unione, che accentua l'ampiezza della nozione di lavoratore subordinato accolta dalla Corte in materia di libera circolazione e già assunta a paradigma di direttive successive . Tuttavia, da un lato ci si interroga sull'incidenza di tale evoluzione – di cui la proposta di direttiva sul lavoro tramite piattaforma costituisce solo un aspetto, seppur non marginale – rispetto a ordinamenti, quale il nostro, ancora incentrati sulla storica dicotomia subordinazione/autonomia e sul riassetto che deriverebbe dai più recenti interventi interni ; dall'altro, occorre ricordare che la nozione europea va comunque coniugata con le regole sovranazionali sui lavori flessibili, da cui emerge, almeno in linea di principio, la legittimità di tipologie negoziali, come quella del lavoratore occasionale a tempo parziale , che in sistemi come quello italiano dovrebbe invece escludersi .
Sotto altro versante, neppure può trascurarsi, per l'impatto sul tema del precedente, che la nozione di azienda fornita dal nostro codice non è presente in altri ordinamenti e non corrisponde a quella di impresa. Ciò che, come noto, ha imposto il coordinamento dell'art. 2112 c.c. alla direttiva di consolidamento, con l'esplicito riferimento al "mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata" e conseguente necessaria circolazione dell'azienda in linea con la definizione comunitaria di "insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica" . In precedenza, però, neppure in ambito UE era mancata la discussione sull'interpretazione della nozione di trasferimento, occorrendo stabilire se andasse riferito alla entreprise-organisation ovvero alla entreprise-activité, cioè accogliendo l'impostazione lavoristica o quella gius-commercialistica .

 

4. La tecnica della auto-citazione e il giudizio interpretativo spurio.

Tutti questi fattori, sommariamente analizzati, condizionano non solo l’interprete delle statuizioni della Corte, ma ancor prima lo svolgimento del ragionamento giudiziale, contribuendo a spiegare – in uno alla ricerca di legittimazione tanto interna, cioè rispetto alla giustificazione di quello stesso ragionamento, quanto esterna, nel contesto di un ordinamento multilivello in continuo sviluppo – quell’ampio e noto ricorso del giudice europeo alla tecnica della citazione dei propri precedenti, proprio perché idonea a conferire ad ogni decisione successiva una parvenza di maggiore autorevolezza e, al contempo, di apparente coerenza e non contraddittorietà rispetto ad una giurisprudenza che voglia presentarsi come costante , o comunque, quando graduale, caratterizzata da una evoluzione “per blocchi” .
Tuttavia, nonostante il recente rafforzamento delle strutture interne, il punto essenziale è che il ricorso a questa tecnica di citazione non sembra affatto consentire un efficiente controllo del proprio precedente da parte della Corte, e neppure un suo adeguato utilizzo da parte del giudice comune.
La considerazione da cui si deve muovere è che il giudizio pregiudiziale interpretativo non è di puro diritto , ma sicuramente non ha le caratteristiche del processo di sussunzione tradizionale, cioè di verifica di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta. Salvo ipotesi eccezionali e risalenti , la Corte non controlla analiticamente tutti i fatti che – per dirla con Natalino Irti – la qualifica giuridica converte nel caso , e non controlla neanche la correttezza di questa qualificazione, che resta affidata ai giudici nazionali. In effetti, a seguito della ricostruzione delle premesse fattuali, delle questioni sollevate dal giudice del rinvio e dell'interpretazione già offerta del diritto dell’Unione, nel momento applicativo (cioè nel giudizio di eventuale contrasto, che viene poi espresso dalla statuizione osta o non osta) il ragionamento sillogistico della Corte trova la sua premessa minore nella normativa nazionale.
Rispetto al tema del precedente, questo modello analitico, applicato secondo la logica deduttiva, può innanzitutto generare conclusioni diverse, perché la normativa nazionale può variare in relazione alla disciplina di attuazione di un diverso Stato membro, oppure cronologicamente per la sopravvenienza di modifiche alla disciplina generale, o ancora per l'esistenza di regole settoriali o di dettaglio, incluse quelle della contrattazione collettiva.
E' vero, peraltro, che è sempre più frequente l'ipotesi in cui la Corte, con una discrezionalità spesso insondabile e pur essendo vincolata alla qualificazione di un caso indicata dal giudice nazionale, anche qualora corrisponda a quella già esaminata in una precedente statuizione, si spinge comunque a valutare le peculiarità del caso rispetto agli obiettivi della direttiva. Tuttavia, proprio per le caratteristiche del giudizio pregiudiziale e del ruolo dei soggetti che vi partecipano, non può dirsi che al modello analitico si sostituisca un modello propriamente dialettico, tale da assegnare al precedente giudiziale valore topico e anipotetico, quale premessa defettibile mediante un effettivo contraddittorio processuale . D'altra parte, ancora a differenza di quanto accade per il distinguishing dei sistemi di case law , la nuova regola eventualmente ricavata da questa verifica incide comunque sul giudizio di conformità della disciplina nazionale che qualifica (anche) quel caso, proponendosi come nuova ipotesi generalizzabile per casi analoghi.
Senonché, quando nella giurisprudenza della Corte questo modello decisionale si salda con l’esasperato ricorso alla tecnica della auto-citazione, non solo si preclude il ricorso ad una logica strettamente induttiva, ma si offusca la distinzione tra ratio decidendi ed obiter dicta. Invero, anche la decisione della singola questione – per quanto vincoli il giudice del rinvio e sia astrattamente universalizzabile – non sembra identificabile in quella espressa nelle sole conclusioni della sentenza, e così eventualmente equiparabile al principio di diritto affermato dal nostro giudice di legittimità. Del resto, è noto che pure le citazioni della Corte non si riferiscono alle sole conclusioni delle sentenze precedenti, ma spesso rinviano ad altri esatti punti, appunto a conferma dell’affastellamento di regole diverse nella costruzione del ragionamento giudiziale.
Questi rilievi spiegano anche perché la Corte, consapevole di svolgere un giudizio che non è interpretativo puro bensì condizionato da un caso, che pure non può controllare in termini di qualificazione, da tempo si affida altrettanto meditatamente alla tripartizione fra sentenze propriamente decisorie (outcome cases), sentenze che offrono linee guida per risolvere la questione interna (guidance cases) e sentenze di principio, che rimettono al giudice comune la valutazione rispetto al caso concreto (deference cases) . Per le ragioni già esposte è evidente, oltre che documentabile, il ricorso agli ultimi due tipi di pronunce nell’ambito della politica sociale. Si tratta, pertanto, di una consapevole rinuncia ad interferire, attraverso statuizioni rigidamente prescrittive, con legislazioni nazionali assai diversificate e che richiedono, a monte del processo decisionale della Corte, una accurata valutazione comparativa di carattere schiettamente politico . Da qui, con ulteriore significativa divergenza dal nostro sistema processuale, pure la reticenza della Corte di Giustizia a dichiarare esplicitamente un overruling, sempre inteso come abbandono della giurisprudenza fino ad allora consolidata. Il che, d’altra parte, trova fondamento nell’esigenza di evitare improvvisi contrasti con il processo di conformazione avviato dalla giurisprudenza domestica o dallo stesso legislatore nazionale sulla scorta di un precedente che venga poi rovesciato.
Ne deriva, in ogni caso, che nel complessivo ragionamento giudiziale le varie regole di diritto, richiamate in citazione nella motivazione della sentenza, sono potenzialmente idonee a costituire degli utili precedenti rispetto a casi che presentino elementi di differenziazione.

 

5. Proliferazione dei precedenti e incerto utilizzo della "ragione del discostarsi".

Al contempo, la mancanza di certezze su un eventuale ripensamento della Corte rende più complicato intercettare le operazioni effettivamente distintive tra le varie questioni pregiudiziali .
Se in passato quest'opera di distinzione era consentita dal limitato apparato normativo e resa evidente dalla fissazione di alcuni precedenti nel senso più specifico del termine – forse più prossimi alla visione di Michele Taruffo dell’unico vero precedente ed in linea con la "tecnica del discostarsi" predicata dalla teoria dell'argomentazione giuridica – l’attuale interazione tra un sistema legislativo sempre più articolato, innegabilmente inciso dal riconoscimento dei diritti fondamentali, e un sistema giudiziale altrettanto composito rendono quasi impossibile comprendere la reale portata applicativa di alcune regole elaborate dalla Corte.
Esemplificando su temi di attualità, nella sentenza Sciotto sul lavoro a termine alle dipendenze delle fondazioni lirico-sinfoniche si afferma che “poiché la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non consente in nessuna ipotesi, nel settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa può instaurare una discriminazione tra lavoratori a tempo determinato di detto settore e lavoratori a tempo determinato degli altri settori” .
Ebbene, anche tenendo da parte il problema della trasformazione, va rilevato che nella materia del lavoro a termine questa apertura al confronto tra settori differenti non emergeva nella precedente giurisprudenza europea, che anzi aveva ribadito come la comparazione non potesse riguardare lavoratori a termine di diversi settori e, semmai, all’interno di ciascun settore era giunta ad affermare l’efficacia diacronica della parità di trattamento nel processo di stabilizzazione del rapporto , in sostanza prescindendo dal raffronto statico col lavoratore a tempo indeterminato comparabile. Ed infatti in Sciotto non si cita nessun precedente a sostegno della nuova affermazione, restando dunque da stabilire se si tratti di un obiter, di una regola specifica per il caso delle fondazioni liriche o di un’apertura verso l’applicazione più estensiva del principio di parità garantito dalla direttiva 99/70, cioè in sostanza un revirement.
Per altro verso, va rilevato che quando la Corte non vuole modificare la sua impostazione, neanche attraverso una differenziazione, si limita ad ignorare alcuni precedenti. Tanto ad esempio è accaduto in tema di ferie nella controversa questione relativa all’efficacia diretta dell’art. 31, par. 2, della Carta UE, come noto affermata nella sentenza Max Planck in relazione al mancato indennizzo di ferie non godute .
Rispetto al diverso problema di una normativa nazionale, di fonte collettiva, che accorda ai lavoratori diritti a ferie annuali retribuite eccedenti il periodo minimo di quattro settimane (previsto all’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88), e stabilisce condizioni di riporto eventuale di tali diritti ulteriori in caso di malattia intervenuta durante le ferie, la Corte ha invece laconicamente ribadito che essa rientrerebbe “nell’esercizio della competenza conservata dagli Stati membri”. Sicché ci si troverebbe al di fuori della disciplina della direttiva e quindi del suo ambito di applicazione, conseguendone anche l’esclusione dell’applicazione delle previsioni della Carta UE ai sensi dell’art. 51, par. 1.
Al di là dell’essenziale merito della questione – che nella rinnovata logica del progresso (se si vuole, 'non regresso') delle tutele adesso passa per il collegamento tra le previsioni della Carta e le c.d. clausole di miglior favore – quest’ultima statuizione si segnala, in punto di metodo, proprio perché omette ogni riferimento non solo alla Max Planck, ma soprattutto alle conclusioni dell’avvocato generale Bot. Quest'ultimo, infatti, aveva ampiamente argomentato la opposta soluzione (comunque escludendo la violazione della Carta) sulla scorta di altri precedenti, tutti ignorati dalla pronuncia TSN, al pari dell’osservazione essenziale per cui "l'adozione di misure che prevedono una protezione nazionale rafforzata costituisce una modalità di attuazione delle direttive che fissano prescrizioni minime” .
Peraltro, a riprova di quanto già osservato sull'interpretazione meta-teleologica della Corte, va ricordato che in materia di trasferimento d'azienda le clausole di miglior favore erano state invece analizzate in relazione alla libertà di impresa sancita dall’art. 16 Carta UE . Nel caso di specie si discuteva se le clausole di rinvio dinamico ai contratti collettivi, negoziati e adottati dopo la data del trasferimento, fossero opponibili al cessionario, appunto quali clausole di maggior favore per i lavoratori introdotte dall'ordinamento nazionale rispetto a quanto prevede l'art. 3 della direttiva 2001/23. E la Corte ha concluso che, qualora il cessionario non abbia la possibilità di partecipare al processo di negoziazione di siffatti contratti collettivi, conclusi dopo il trasferimento, l'applicazione di quelle clausole determinerebbe una limitazione della sua libertà contrattuale tale da pregiudicare la sostanza stessa del suo diritto alla libertà d’impresa.

 

6. Interpretazione evolutiva e rischio di selezione arbitraria del precedente.

In questo quadro, senza disconoscere il ruolo decisivo assolto dalla Corte rispetto all’affermazione e alla garanzia di effettività dei diritti sociali, e tenendo comunque presenti gli arroccamenti invece registrati su alcune materie sensibili, non sembra affatto infondato il rilievo critico per cui l’attuale sistema – a fronte della moltiplicazione delle statuizioni, della tendenziale rinuncia all'elaborazione di regole munite di efficacia realmente prescrittiva e della persistente tecnica delle citazioni – starebbe subendo una sorta di equivoca ibridazione tra le culture di common e civil law. Nel senso che tanto la Corte quanto i giudici domestici, entrambi quali giudici "successivi", potrebbero rinvenire la soluzione della questione e, rispettivamente, del caso, in una o in un’altra ratio decidendi, sempre intesa come regola astratta e generale di diritto, affermata dalla Corte in una precedente statuizione. Il tutto col solo limite di una giurisprudenza consolidata che però, se serve a qualificare il concetto di precedente giudiziale comunitario, non è affatto chiaro in cosa effettivamente consista.
Rispetto alla posizione del giudice nazionale, il rischio, in definitiva, è di alimentare il ricorso ad una selezione del precedente che può rivelarsi arbitraria, addirittura inducendo, nelle sue derive patologiche, ad una sorta di shopping del precedente. Ad esempio, nel recepire la ricordata sentenza Sciotto il nostro giudice di legittimità aggiunge che la conformazione alle indicazioni europee va garantita anche alla luce della "dottrina" Milkova . Quest’ultima sentenza, tuttavia, riguardava la diversa questione della parità di trattamento dei lavoratori disabili, in caso di licenziamento, nel settore pubblico e privato ai sensi della direttiva 2000/78 , mentre è noto che la Corte di Giustizia ha escluso, proprio sotto il profilo discriminatorio, la necessaria corrispondenza della disciplina sanzionatoria del lavoro a termine con quella del licenziamento, pur ammettendo la facoltà degli Stati membri di assimilarle .
In altri casi, il fenomeno si registra perfino rispetto alla stessa statuizione sovranazionale. Ad esempio, quanto al dibattito sui criteri di computo dei licenziamenti necessari all'applicazione delle tutele di quello collettivo, due recenti e contrastanti pronunce della Cassazione richiamano due distinti punti delle conclusioni della sentenza Rivera . Si giunge così ad includere e, rispettivamente, ad escludere che per l'applicazione della disciplina del licenziamento collettivo rilevi una cessazione del rapporto, qualificata come risoluzione consensuale, che dipenda dalla modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto quando imputabile al datore di lavoro. Si tratta, come ancora si dirà, di un contrasto originato dalla mancata completa disamina della vicenda giunta al vaglio del giudice di Lussemburgo.
Sembra dunque necessario rilevare che, rispetto alla prevedibilità della decisione giudiziale, una siffatta modalità di utilizzo del precedente UE finirebbe per minare alla radice non solo basilari esigenze di certezza delle imprese , ma anche la fondamentale istanza di trattamento paritario dei lavoratori (qui per certi versi ponendo un problema contrapposto a quello delle sentenze della Corte di Strasburgo) e, a ben vedere, perfino il canone di evoluzione ragionevole dell’ordinamento sovranazionale. Il che non solo comprova la ovvia e persistente differenza tra quest'ultimo e gli ordinamenti statuali, ma presenta inevitabili ricadute sul loro diritto giurisprudenziale, che invece è deputato a governare il cambiamento mediante l'interpretazione delle rispettive norme di diritto positivo, anche qualora costituiscano attuazione di quello euro-unitario.
E' chiaro che molto spesso la linea di confine tra l'uso distorto di un precedente che la ricerca di percorsi evolutivi può rivelarsi impercettibile, occorrendo privilegiare la peculiarità di un caso ovvero legittime aspirazioni ad ampliare la portata applicativa di una regola, fino ad allora incerta o con una estensione limitata. Ad esempio, prescindendo dal reale "impatto" sugli ordinamenti nazionali dell'art. 30 della Carta UE, è comprensibile che ci si interroghi sulla persistente affermata esclusione della disciplina dei licenziamenti individuali dalle materie in cui l'Unione ha esercitato la sua competenza, nonostante l'esistenza di discipline comunitarie specifiche e relative statuizioni, come quelle in materia anti-discriminatoria, che influenzano comunque i complessivi equilibri dell'apparato nazionale delle tutele . Tuttavia è altrettanto indispensabile garantire la coerenza del sistema ordinamentale multilivello, già complicato, anche per il tramite delle Corti costituzionali dei Paesi membri, dalle interazioni della giurisprudenza UE con quella di Strasburgo, a sua volta concepita come cavallo di Troia per la realizzazione dei diritti sanciti della Carta sociale europea .

 

7. I necessari accorgimenti nella metodologia del giudice nazionale.

Al riguardo, possono soccorrere alcune considerazioni metodologiche nella "gestione" della normativa nazionale nell’ambito sia del giudizio pregiudiziale, sia dell’interpretazione conforme.
Nella prima ipotesi, che attiene alla fase di formazione di un precedente, è indispensabile che la elaborazione della regola da parte della Corte di Giustizia si fondi sulla esatta ricostruzione dello stato della disciplina interna da parte del giudice del rinvio, incluse eventuali modifiche sopravvenute e comunque alla stregua della interpretazione consolidatasi secondo la dottrina del diritto vivente . Per restare al tema delle ferie, ad esempio, non appare possibile – come invece accaduto per il riconoscimento della maturazione delle ferie nel periodo dal licenziamento illegittimo alla reintegrazione – sostenere che la normativa interna preveda il diritto del lavoratore alla retribuzione. Questa indicazione, fornita dalla nostra Corte di Cassazione , altera l’argomentazione della Corte di Giustizia, inducendola – peraltro in forza di una inesistente identità di disciplina con l’ordinamento bulgaro, e conseguente riunione delle questioni – a qualificare quel periodo temporale come stato di sospensione del rapporto imputabile al datore di lavoro , appunto in forza di un sinallagma contrattuale che (configurabile o meno) non può essere ricavato da un inesistente diritto alla retribuzione, ben diverso dallo speciale regime dell’indennità risarcitoria , peraltro adesso calmierata dalla disciplina sopravvenuta dell’art. 18, co. 4, St. lav.
Quanto alla conformazione al diritto UE in forza di una precedente statuizione della Corte, è indispensabile che il giudice domestico, senza alcuna automatica applicazione, verifichi la compatibilità della propria normativa con il ragionamento svolto dalla sentenza europea, qualora verta sulla legislazione di un diverso Stato membro. Occorre, in altri termini, che proprio il giudice nazionale svolga quel processo di comparazione che, come detto, attualmente suggerisce alla Corte di Giustizia di rimettere alla giurisdizione interna la verifica di applicazione della sua interpretazione al caso concreto.
E' chiaro che dinanzi a nozioni giuridiche "aperte", come quella di lavoratore subordinato, l'approccio europeo, per quanto estensivo, finisce per rimettere al giudice nazionale l'accertamento della situazione fattuale, come appunto accade per le ipotesi riconducibili alla c.d. zona "grigia" . Pertanto in questi casi i richiami di carattere comparatistico riguardano anche la giurisprudenza di altri Stati membri , quale argomento (se si vuole, precedente argomentativo) a conferma delle indicazioni del giudice di Lussemburgo .
In altre ipotesi, invece, la comparazione richiederebbe proprio la disamina delle discipline positive straniere. Ad esempio, non si può comprendere la ricordata sentenza Rivera se si prescinde dall'analisi della legislazione spagnola di recepimento della direttiva 98/59. Infatti, come si ricava agevolmente dalle premesse della statuizione europea, quella normativa nazionale riproduce, a differenza di quella italiana, gli altri parametri numerici previsti dalla direttiva per la definizione di licenziamento collettivo, sicché le altre ipotesi di cessazione del rapporto imputabili al datore di lavoro sono equiparate al licenziamento rispetto a quegli altri parametri, fermo il requisito minimo dei cinque "veri" licenziamenti. Si spiega, così, l'apparente contraddizione della sentenza europea, che dapprima riferisce il requisito degli "almeno cinque" licenziamenti previsto dalla direttiva (art. 1, par. 1, co. 2) esclusivamente a quelli "in senso stretto" (punto 2 delle conclusioni), salvo poi precisare che, ai fini della definizione di licenziamento collettivo secondo gli altri parametri adottati dal legislatore spagnolo, rileva ogni altra cessazione avvenuta per iniziativa del datore di lavoro (punto 3 delle conclusioni) .
Allo stesso modo, non sembra possibile applicare meccanicamente la pronuncia della Corte sull’esclusione dal comporto della malattia imputabile a disabilità, elaborata su una vicenda spagnola in cui il periodo di conservazione del rapporto è, per legge, inferiore al mese , senza interrogarsi se anche la disciplina collettiva applicabile al caso italiano, benché preveda un comporto assai più lungo, generi comunque uno svantaggio particolare ai sensi della direttiva 2000/78, qualora applicata indistintamente ai lavoratori disabili ; tenuto conto che esiste anche un precedente comunitario che, in linea di principio, esclude la discriminazione per un comporto di centoventi giorni . In vicende come questa, se non si intende nuovamente attivare i giudici di Lussemburgo, è allora essenziale che il giudice di merito argomenti espressamente, proprio alla luce delle differenze normative interne, le ragioni della selezione di un precedente comunitario tra quelli esistenti, onde consentire al giudice di legittimità di stabilire se sussista una giurisprudenza europea consolidata o, al contrario, se abbia l’obbligo di rimettere la questione alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 267, par. 3, TFUE.
Sul distinto profilo del caso, è poi altrettanto necessario che il giudice nazionale, chiamato a governarlo nel processo sussuntivo già nelle fasi di merito, prima di stimolare mediante rinvio la formazione di un precedente, oppure di ricercare l’esistenza di un precedente comunitario sulla scorta di similitudini con casi già "rimessi" alla Corte di Giustizia, analizzi esattamente le concrete vicende del giudizio. In effetti, almeno il nostro ordinamento è già in grado di evolversi attraverso la rilevanza attribuibile ad ogni fatto che, sebbene in modo diverso dal distinguishing del case law, consenta di qualificare il caso concreto come nuovo, permettendo al nostro giudice di legittimità di escludere la preclusione dei c.d. precedenti conformi e quindi di elaborare, sulla scorta di un ragionamento che riproduce il motivo di falsa applicazione di legge, un nuovo principio di diritto.
Questo processo interpretativo, che favorisce l'adattamento del diritto alla specificità del reale e costituisce uno dei più importanti aspetti della valorizzazione per via legislativa della nomofilachia interna, ora da valutare rispetto alla preannunciata introduzione della nomofilachia anticipata sulla norma di legge, va apprezzato anche – sempre al netto di eccessi – quale potenziale rimedio alla altrimenti incontrollabile discrezionalità del giudice nazionale attraverso il sindacato diffuso.
Bisogna avvertire che, anche per scongiurare un collasso da iper-tribunalizzazione, in ambito europeo già circolano idee di una ritrazione della giurisdizione sovranazionale, efficacemente sintetizzate nella proposta dell'avvocato generale Bobek secondo cui, in revisione del criterio di pertinenza della questione, elaborato dalla sentenza Cilfit, l'obbligo di rinvio per il giudice di ultima istanza dovrebbe riguardare soltanto "una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (anziché una questione relativa alla sua applicazione)" .
E' evidente che se questa impostazione (per ora rigettata, con la conferma del criterio della rilevanza della questione) si affermasse nella giurisprudenza della Corte, rischierebbe di essere travolto dalle fondamenta anche lo strumento facoltativo del rinvio da parte del giudice di merito. Il che avrebbe immediate implicazioni proprio in settori, come quello di politica sociale, in cui il cambiamento del sostrato materiale esige l'evoluzione ma anche la guida del diritto.

 

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