TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. L’economia delle “macchine”.

Cento anni fa il drammaturgo ceco Karel Čapek in un suo lavoro teatrale concepì una classe di automi simili agli uomini e creati per svolgere i lavori più pesanti (ròbota), i quali, grazie alla loro pur limitata qualità intellettiva, si ribellavano allo sfruttamento dei loro creatori e, scoperta una modalità per riprodursi, prendevano il sopravvento sugli umani . La visione dell’Autore, di carattere utopistico e non scientifico, suonava come un ammonimento contro l’abuso della tecnologia e oggi costituisce uno spunto per affrontare non tanto gli aspetti grotteschi di quegli automi – che da allora si sono chiamati robot – quanto i problemi che un poco avveduto utilizzo delle preziose risorse della modernità può causare nella società e, per quanto ci riguarda, nel mondo del lavoro.
Questo riferimento letterario, all’epoca non riconducibile a specifiche tematiche scientifiche (l’Autore descriveva gli automi quale risultato di un artificioso miscuglio di materia ed elementi liberi in natura), oggi trova un immediato riscontro nel dibattito apertosi a proposito dell’ineluttabile quanto fantascientifico potere assunto dalle macchine intelligenti , nonché più concretamente delle ricadute, nell’attualità, delle più recenti applicazioni dell’informatica nei settori più vari della società e, in particolare, nel mondo del lavoro.
Informatica è un termine generico che sta ad indicare il trattamento automatico delle informazioni mediante l’utilizzo di apparecchiature elettroniche in combinazione con particolari sistemi di acquisizione e trattamento dei dati. Secondo una concettualizzazione empirica può definirsi l’informatica come la risultante della combinazione di funzioni proprie dei dispositivi elettronici (tecnologia hardware) e di metodi matematici di elaborazione dei dati raccolti (software).
Rapportato al mondo della produzione, informatica sta ad indicare uno strumento adottato dall’impresa per organizzare i propri processi produttivi fin dalla fine del secolo scorso, dapprima mediante l’utilizzo dell’automazione determinata dall’introduzione del computer, poi mediante l’interazione delle tecnologie digitali e di quelle meccaniche, secondo una metodologia operativa che dà luogo a quel fenomeno socio-economico convenzionalmente denominato Industria 4.0, che nascerebbe da una vera e propria Quarta rivoluzione industriale .
E’ certo, quindi, che l’informatica ha assunto un ruolo significativo nell’ambito dell’innovazione tecnologica, sempre crescente nella nostra società, tanto da porre interrogativi di carattere etico circa la dimensione del suo sviluppo e la necessità di indirizzarlo verso il rispetto di valori riconosciuti, quali i diritti fondamentali, la dignità umana e la tutela della privacy nonché, per quanto qui interessa, al rispetto delle dinamiche del mondo del lavoro e dei diritti che le leggi riconoscono ai lavoratori.
In uno dei suoi scritti più recenti Riccardo Del Punta evidenziava come, di fronte alla rivoluzione informatica, la (nostra) generazione che ha conosciuto il mondo predigitale abbia il compito di raccordare le esperienze, superando gli schematismi tradizionali e contribuendo ad uno sforzo progettuale che interessi nel suo complesso la società. Il diritto del lavoro, nella piena consapevolezza che il settore socioeconomico di suo riferimento è uno di quelli maggiormente interessati dalle trasformazioni in atto, è chiamato a svolgere un ruolo primario nell’adempimento di quel compito .

2. La nuova tecnologia digitale

Fatta questa premessa, qui interessa analizzare quel particolare aspetto dell’informatica denominato intelligenza artificiale (codificato ormai come I.A. o, con il corrispondente acronimo inglese, A.I.) che rappresenta uno dei fattori di mutamento dell’organizzazione e dello svolgimento della prestazione lavorativa, che introduce per il giurista del lavoro nuove problematiche di non facile interpretazione. Il punto essenziale, sul piano non solo giuridico ma anche etico, è quello dell’individuazione del momento in cui l’intelligenza artificiale da fattore utilizzato dal lavoratore come ausilio nell’esecuzione della prestazione, passa a fattore determinante della stessa prestazione, della quale non modula più esclusivamente i tempi e metodi di lavoro, ma fissa anche il contenuto.
Semplificando il concetto, l’intelligenza artificiale rappresenta nient’altro che una metodica di elaborazione dei dati acquisiti da una memoria centrale; metodica organizzata secondo modelli di software prestabiliti e mirata al perseguimento di scopi prefissati ( ). A livello teorico, essa rappresenta il tentativo di riprodurre artificialmente i meccanismi del cervello umano, non nella loro completezza, ma sfruttando solo una delle funzioni cerebrali, la memoria, e la capacità di elaborare i dati acquisiti suo tramite. Solitamente, pertanto, si tende a degradare il concetto stesso a quello di intelligenza artificiale debole (o minore), in alternativa a quello forte, sempre più vicino al ragionamento umano, di cui si preconizzano sviluppi più o meno futuribili, ma sicuramente ancora non attuali.
L’interazione tra questa ultima versione del concetto di intelligenza artificiale (minore perché basata su una sola funzione (la memoria) con altre tecnologie ha sviluppato la robotica, ovvero quella scienza che studia la progettazione e lo sviluppo dei robot, ovvero di quelle macchine polifunzionali in grado di eseguire operazioni ripetitive programmate .
L’impiego dell’I.A. è già largamente praticato in quei settori della produzione in cui il prodotto finale è il frutto della ripetizione di una serie di operazioni predeterminate, per l’esecuzione delle quali una “macchina” (ovvero un corpo materiale animato da una memoria programmata) ha ricevuto ed immagazzinato nella sua memoria informatica una serie di istruzioni. Si pensi all’esempio della catena di montaggio dell’industria meccanica – ove intere fasi di lavorazione vengono gestite sulla base di un programma che regola il funzionamento di un macchinario che esegue operazioni che in altri tempi sarebbero state compiute dall’operaio – che solitamente viene rappresentato quale modalità di robotizzazione della produzione.
Ma il concetto di robot di per sé implica una funzionalità ulteriore, tipica dell’intelligenza artificiale (nella sua visione evolutiva e non statica), e cioè il superamento della semplice fase di elaborazione delle informazioni ricevute ed immagazzinate: la macchina, infatti, può essere istruita a trasformare il dato e a compiere operazioni ulteriori oltre quelle standardizzate.
In altre parole, il robot può essere istruito a sviluppare una vera e propria capacità di autoapprendimento ed a svolgere operazioni non standardizzate, ma derivate dalla programmata elaborazione di operazioni poste in essere abitualmente .
Per testare i mutamenti interventi nel mondo del lavoro, ritengo opportuno partire proprio da alcune considerazioni in materia di robotica (ovvero dalla scienza che ha per oggetto lo studio e la realizzazione dei robot), perché è nell’evoluzione di questa scienza che meglio si coglie l’innovazione portata dall’intelligenza artificiale.

 

3. L’evoluzione del robot

Alla base del connubio tra robotica e intelligenza artificiale c’è una forte interdipendenza strumentale, in quanto la prima trova nella programmazione della seconda una delle sue (forse la più importante) fonti di attivazione: il programma attiva la macchina, che con sempre più sofisticati sistemi di ingegnerizzazione, svolge le attività per cui è programmata o quelle che è in grado di auto-apprendere.
La robotica ha trovato applicazione crescente nella tecnologia industriale e, in particolare, nell’organizzazione del lavoro; si pensi all’automatizzazione della catena di montaggio, già menzionata, o alla movimentazione dei carichi, o alla verifica di qualità del prodotto, in cui operazioni prima svolte a mano, o con l’ausilio di semplici attrezzature manuali, ora vengono completamente automatizzate.
Tralasciando i problemi di contesto generale, quali il rapporto tra l’occupazione della manodopera e l’innovazione tecnologica, nonché le ricadute sulle dinamiche del mercato del lavoro e passando agli aspetti giuridici, deve rilevarsi che la diffusione della robotica nell’ambiente di lavoro trova il legislatore impreparato e richiede adeguamenti “di contesto” a protezione del lavoratore.
Infatti, se la tecnologia consente agli addetti alla macchina di accostare le loro energie al funzionamento del robot e di indirizzarle verso l’esecuzione dell’operazione specifica richiesta dal ciclo produttivo, è necessario che l’aspetto della sicurezza del lavoro abbia una diversa e specifica regolazione.
Nel rapporto dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro pubblicato nel 2022, si legge che “lo sviluppo di tecnologie recenti, come l'intelligenza artificiale (I.A.) e le applicazioni avanzate della robotica, ha creato nuove possibilità per l'automazione delle attività produttive ed ha, allo stesso tempo, sollecitato il dibattito soprattutto sugli aspetti psicosociali e organizzativi legati al lavoro e sulla sicurezza e salute dei lavoratori” ( ).
La Commissione europea, riprendendo il suo Libro bianco sull’intelligenza artificiale, ha avanzato una proposta di regolamento a proposito della produzione e dell’uso dei macchinari industriali, che dia disposizioni direttamente applicabili all’interno degli Stati membri per contrastare i rischi derivanti dall’interazione dell’attività meccanica del robot con quella manuale del lavoratore (c.d. robotica collaborativa, collaborative robots o cobots,) e dall’uso indiscriminato dell’intelligenza artificiale. La necessità di uniformare le legislazioni nazionali, per favorire la circolazione dei beni prodotti, raccomanda lo strumento giuridico del regolamento in luogo di quello abituale della direttiva .
Il rischio più immediatamente rilevabile nella situazione di affiancamento del lavoratore e del robot, al quale sono affidate solitamente le operazioni più gravose e routinarie, è quello derivante dal contatto fisico tra la macchina e la persona. Non vanno, però, ignorate le situazioni di stress determinate dal coordinamento della velocità operativa della macchina con quella dell’uomo, per cui quest’ultimo deve lavorare al ritmo della macchina. Possono derivarne patologie ansiogene causate dall’incremento dei ritmi e dalla consapevolezza del lavoratore che sui ritmi determinati dalla macchina egli ha scarsa o nulla capacità di intervento. Le parti si invertono, è la macchina che condiziona l’umano, al punto che il secondo è sottoposto ad una indiretta, quanto inflessibile, sorveglianza da parte della prima!
In attesa del regolamento europeo, la tutela dai rischi nascenti dalla “collaborazione” tra il robot e la persona del lavoratore va ricercata nella disciplina del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, e, in mancanza di una diretta qualificazione del rischio specifico, va desunta da molteplici (ma non puntuali) disposizioni che regolano la sicurezza del luogo di lavoro.
Analogamente è a dirsi per gli obblighi posti a carico dei progettisti (art. 22), dei fabbricanti e fornitori (art. 23) e degli installatori (art. 24), che, nel parametrare gli obblighi in questione al rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, non fanno altro che evidenziare la mancanza di una specifica considerazione dei rischi a livello normativo.
Permane l’obbligo di sicurezza fissato dall’art. 2087 c.c., ma problematicamente deve rilevarsi come possano fissarsi in maniera esaustiva le misure che, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, sono necessarie a tutelare l’integrità del lavoratore, in mancanza di diretti riferimenti tecnici e normativi.

4. L’intelligenza artificiale e la regolamentazione europea

Spogliata dell’hardware l’intelligenza artificiale assume la dimensione esclusiva di sistema software, ideato per raggiungere determinati obiettivi. È dunque più corretto parlare di sistema di intelligenza artificiale, come tale generato da un centro di ideazione (una o più persone fisiche) per il perseguimento di un risultato (output) avente una sua specifica caratterizzazione finalistica.
La necessità che tali tecnologie si sviluppino secondo una corretta etica, nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone, per raggiungere fini che non contrastino con gli interessi della collettività, impone norme che regolino l’ideazione, la diffusione, la commercializzazione, l’utilizzazione di tali sistemi, mediante la formulazione di principi generali.
È quanto si propone la Commissione europea con la sua Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) varata a Bruxelles il 21 aprile 2021 (COM (2021) 206 final). La proposta, giuridicamente fondata sull'articolo 114 TFUE, che prevede l'adozione di misure destinate ad assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno, rientra nella strategia dell'Unione per la regolazione del mercato unico digitale e, pertanto, si ripromette di perseguire “un elevato livello di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali” .
Funzione specifica del regolamento, nei termini formulati dalla proposta, è quella di fissare i requisiti specifici dei sistemi di I.A. e gli obblighi cui deve sottostare chi immette sul mercato questo tipo di prodotti, fino all’utilizzatore, al fine di assicurare che i sistemi di I.A. immessi sul mercato e utilizzati siano sicuri e rispettino i diritti fondamentali e i valori dell'Unione. Le disposizioni normative hanno, pertanto, carattere tecnico-procedimentale e si basano su una gradazione del livello potenziale di incidenza dei sistemi sulla collettività, con particolare attenzione alle applicazioni dell’I.A. formalmente qualificabili “ad alto rischio” (ovvero che abbiano “un impatto nocivo significativo sulla salute, la sicurezza e i diritti fondamentali delle persone nell'Unione”, v. il considerando n. 27).
Quale sia la parametrazione del lavoro in questo contesto è desumibile dal considerando n. 36, ove si qualificano “sistemi ad alto rischio” quelli utilizzati per l'assunzione e la selezione delle persone, il mansionamento, la valutazione, le promozioni, la cessazione del rapporto di lavoro; considerazione più che ovvia, dato che dalle scelte adottate in quelle materie dipendono le prospettive di carriera dei lavoratori e le loro opportunità di sostentamento ( ).
In quest’ambito, senza peraltro accostamento al concetto di “alto rischio”, viene considerato in maniera abbastanza tortuoso anche il rapporto di lavoro dei lavoratori operanti tramite piattaforme digitali, per i quali non si prende posizione circa la natura giuridica del rapporto di lavoro instaurato e si tende più che altro a prendere atto della concretezza della situazione di fatto. È detto, infatti, che “i rapporti contrattuali legati al lavoro dovrebbero coinvolgere i dipendenti e le persone che forniscono servizi tramite piattaforme” e che “in linea di principio, tali persone non dovrebbero essere considerate utenti ai sensi del presente regolamento”.
E’, invece, evidenziata la pericolosità degli automatismi determinati dagli algoritmi su cui sono basati i sistemi di I.A., in caso di loro utilizzazione per l’assunzione, la valutazione e la promozione delle persone, o il proseguimento dei rapporti contrattuali legati al lavoro. Potrebbero, infatti, essere perpetuati modelli di discriminazione, nei confronti delle donne, dei meno giovani, dei diversamente abili, o dei lavoratori di diversa provenienza geografica; oppure, il monitoraggio della prestazione e del comportamento nell’ambiente di lavoro potrebbe violare la privacy delle persone interessate.

 

5. Il lavoro sulle piattaforme digitali

L’attenzione dei giuslavoristi è attratta da un problema, in apparenza secondario di fronte ai grandi temi appena indicati, che rappresenta invece la chiave di lettura più evidente di quanto l’I.A. stia erodendo il complesso di certezze e tutele poste a presidio del lavoro subordinato. Intendo riferirmi alla problematica definizione del rapporto giuridico che si crea quando la prestazione di lavoro trova allocazione in quel particolare ambiente informatico creato dalle piattaforme digitali, e alla correlativa impossibilità di validamente contrastare con gli strumenti del diritto la precarietà della condizione lavorativa che ne deriva.
In termini generali la piattaforma digitale è una struttura software (nella pratica combinata con una struttura hardware) in grado di fornire servizi ed altre utilità ad un numero di utenti indefinito o definito mediante registrazione. Essa, secondo uno schema elementare di funzionamento, richiede la presenza di tre soggetti operanti: il gestore (ovvero il soggetto che mette a disposizione la struttura digitale), il soggetto che richiede il servizio, il soggetto che offre quel servizio. La relazione tra i richiedenti e gli offerenti non è fisicamente procurata dal gestore, ma da un sistema di intelligenza artificiale, più o meno sofisticato a seconda delle modalità del servizio procurato ( ).
Quando i servizi richiesti (e forniti) richiedono l’espletamento di una prestazione di lavoro (c.d. lavoro su piattaforma) si crea un sistema di gig economy, ovvero una economia di “piccoli lavori” (da uno dei significati della parola inglese gig), fondata sulla presenza di un numero indeterminato di gig workers.
Se nell’ambito dei grandi numeri l’economia delle piattaforme viene considerata una componente del sistema Industria 4.0 ( ), sul piano giuridico è estremamente problematica la qualificazione del rapporto che si crea tra i soggetti operanti sulla piattaforma. La principale difficoltà è data dalla mancanza di uno schema predeterminato di svolgimento della prestazione lavorativa, né concettuale, né (men che mai) regolato in termini normativi (per legge o contratto che sia). Si tratta di forme di attività ibride, caratterizzate da autodeterminazione dei tempi di lavoro, da non esclusività della prestazione (in quanto il lavoro può essere combinato con altre attività) e da possibilità di rapporto diretto con il fruitore della prestazione.
Questa sfera di libertà nell’esecuzione della prestazione è bilanciata dalla totale soggezione economica alla piattaforma o, per meglio dire, al suo gestore, il quale fissa il prezzo del servizio, predispone meccanismi di controllo, esercita il potere di esclusione del lavoratore dalla piattaforma stessa. In una parola le categorie del lavoro autonomo e del lavoro subordinato non sono sufficienti ad una classificazione tale da determinare obblighi e diritti delle parti ( ). Sta di fatto, però, che il fenomeno ha assunto rilevanza considerevole nel settore della fornitura di servizi, grazie a modalità eterogenee di accesso alla piattaforma e di organizzazione delle prestazioni dei lavoratori disponibili a impegnarsi in questo tipo di lavoro.
Questa eterogeneità, sul piano lavoristico, è testimoniata anche dalle diverse direzioni prese dalla dottrina nel tentativo di individuare punti sicuri di riferimento per la qualificazione giuridica del fenomeno.
Si è tentata, infatti, una distinzione a carattere classificatorio prendendo in considerazione le modalità di svolgimento della prestazione e distinguendo il lavoro su piattaforma per lo più in due tipologie: le attività svolte nelle piattaforme e le attività svolte mediante le piattaforme.
La prima tipologia (nelle) vede la piattaforma come soggetto organizzatore della prestazione, che mette in contatto il soggetto richiedente e il soggetto disponibile a fornire il servizio richiesto. È il caso della consegna di merci e beni o della fornitura di servizi. L’esempio solitamente formulato è quello della piattaforma Uber, che fornisce servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un'applicazione mobile che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. Caratteristica imprescindibile è la presenza fisica del soggetto erogatore del servizio, autista o addetto alle consegne che sia.
La seconda tipologia (mediante) prevede lo svolgimento di una prestazione dematerializzata per il tramite della piattaforma. È il caso del sistema Mechanical Turk di Amazon, in cui la piattaforma raccoglie richieste di lavoro per lo svolgimento di mansioni (solitamente semplici e ripetitive) e le redistribuisce tra una massa di soggetti disposti a svolgere le mansioni stesse ed a restituirne il prodotto per il tramite della stessa piattaforma. Esempi specifici di attività svolte esclusivamente on line, possono essere la codifica di dati, la traduzione in lingua di testi o l’attività di design. È escluso, in ogni caso, il rapporto fisico tra richiedente e lavoratore, che non si incontrano mai, essendo la prestazione (consistente in operazioni di contenuto virtuale) direttamente versata nella piattaforma.
In entrambi i casi al lavoratore viene corrisposto un compenso determinato in base a tariffe predeterminate (solitamente modeste), previa decurtazione di una percentuale che viene incamerata dal gestore della piattaforma ( ).
Questa distinzione tipologica evidenzia come in alcune situazioni la prestazione si svolga non solo al di fuori di regole prefissate, ma in assenza di fisicità del rapporto, tanto da rendere “invisibile” lo stesso lavoratore. Il che pone in discussione il carattere primario della subordinazione, per l’impossibilità di individuare i parametri previsti dall’art. 2094 c.c. e di far emergere il vincolo contrattuale dello scambio tra prestazione e retribuzione ( ).
Di fronte a queste realtà si è cercato innanzitutto di superare l’impostazione tradizionale del diritto del lavoro che imposta il rapporto di lavoro come un rapporto contrattuale binario, in ragione della già rilevata plurisoggettività della fattispecie, ripensando la figura del datore di lavoro in senso funzionale. Il datore di lavoro andrebbe dunque individuato non sulla base di precisi riferimenti giuridici, ma sulla base delle funzioni specifiche svolte dal soggetto in considerazione (nella specie la piattaforma) per l’esecuzione della prestazione ( ).
Inoltre, si è cercato di leggere l’art. 2094 c.c., rilevandosi che i concetti ivi rintracciabili non si identificano necessariamente con il modello dell’operaio fordista, ma possono essere compatibili con la realtà del lavoro su piattaforma (quello prestato mediante piattaforma, quantomeno). La circostanza che l’impresa non eserciti il potere direttivo con modalità tradizionali non esclude che tutto l’apparato tecnologico predisposto per il funzionamento della piattaforma sia in grado di determinare una diversa modalità di subordinazione ( ).

 

6. (Segue) L’intervento del legislatore. La sentenza n. 1663 della Corte di cassazione

I cennati dubbi nascenti dalla mancanza di un modello standardizzato del lavoro su piattaforma e dalla liquidità concettuale delle fattispecie riscontrabili ( ), hanno trovato una parziale risposta nell’art. 2 del d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81, che, nel rendere applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato “anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”, ha ritenuto la disposizione applicabile “anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
La giurisprudenza ha avuto, dunque, miglior gioco della dottrina. I giudici, infatti, non solo hanno potuto pronunziarsi su una fattispecie specifica, evitando la magmaticità dei casi di scuola, ma hanno avuto il supporto legislativo.
È il caso della sentenza n. 1663/20 ( ) della Corte di cassazione, in una controversia in cui i ricorrenti chiedevano l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro (intercorso con società del gruppo Foodora), consistente nello svolgimento di mansioni di fattorini addetti alla consegna di cibi confezionati (cd. riders), con tutte le conseguenze di natura economica, ripristinatoria e risarcitoria (differenze retributive maturate, ripristino del rapporto e risarcimento del danno causato dal licenziamento). Secondo gli incontroversi accertamenti di merito i ricorrenti, compilato un formulario sul sito di Foodora, e, convocati per un colloquio. avevano assicurato di possedere una bicicletta e un telefono cellulare smartphone; avevano poi sottoscritto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, previo versamento di caparra, ricevuto indumenti di lavoro, dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l'attrezzatura per il trasporto dei beni.
La Corte d’appello pur confermando la tesi del Tribunale dell’inesistenza della subordinazione, aveva applicato la disciplina del lavoro subordinato ritenendo che si trattasse di rapporto di collaborazione con prestazioni continuative organizzate dal committente esclusivamente personali, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 ( ).
La Corte di cassazione ha confermato la sentenza, in quanto, pur non riconducendo la fattispecie a un tertium genus tra lavoro autonomo e subordinato, ha rilevato che, pur in presenza di autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, l’etero-organizzazione nella fase della sua esecuzione si rivelava funzionale all’esistenza del rapporto stesso ed era determinante per la sua riconduzione alla fattispecie dell'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015.
Il ragionamento seguito nella motivazione della sentenza di legittimità, ad avviso di chi scrive, è la riprova dell’opportunità di distinguere per tipologie le modalità di prestazione del lavoro su piattaforma (e, quindi, l’incidenza dell’I.A.), in quanto è solo la verifica della materialità del rapporto tra gestore, lavoratore e beneficiario del servizio che consente l’analisi giuridica della fattispecie. E la Corte di cassazione, anche grazie ad un congruo accertamento di fatto, ha potuto inquadrare giuridicamente quantomeno la fattispecie degli addetti alle consegne.
Il principio di diritto enunziato, comunque, va inteso soprattutto per la sua impostazione generale di apertura alla subordinazione. Anzi, è evidente che la struttura del giudizio di cassazione non ha consentito un responso risolutivo con l’affermazione della natura subordinata del rapporto, in quanto i controricorrenti (i fattorini, attori originari) non avevano presentato ricorso incidentale, accettando la pronunzia di appello. La circostanza che la soluzione della Corte sia stata nella sostanza fatta propria dal legislatore con la l. 2 novembre 2019 n. 128, convalida la logica della sentenza, ma chiude solo apparentemente il dibattito sul food delivery, il quanto l’art. 47 bis inserito nel d.lgs. n. 81 del 2015 non esclude che in un rapporto di lavoro possa essere riscontrato il livello superiore della piena subordinazione.
La sentenza 1663 ha avuto comunque ampia risonanza nella giurisprudenza di merito che ha tratto dal ragionamento della Corte di cassazione lo spunto per dichiarare la natura subordinata del rapporto di lavoro dei riders ( ).

 

7. (Segue) Una sentenza della Supreme Court UK

La Corte di cassazione, ove si fossero create le condizioni processuali, a confutazione dell’opinione dell’obsolescenza del concetto di subordinazione, avrebbe optato probabilmente per la natura subordinata del rapporto, avendo a riferimento il solo art. 2094 c.c. ( ).
È stato rilevato come l’analisi delle fattispecie specifiche abbia orientato anche i giudici di altri Paesi nel senso del carattere subordinato di alcune tipologie di lavoro su piattaforma. Riprendendo una vicenda processuale già conosciuta in dottrina ( ) ed approdata all’attenzione della Corte suprema del Regno Unito, si riscontrano diversi punti di contatto con la pronunzia della Corte di cassazione sopra richiamata, trattandosi di una controversia per molti versi simile, in cui si faceva questione di lavoro su piattaforma (il rapporto degli autisti di Uber), se ne valutava il livello di digitalizzazione (con chiaro riferimento all’I.A.) e se ne dichiarava la natura subordinata ( ).
La controversia verte tra alcuni autisti (drivers) operanti sulla piattaforma Uber e la società che gestisce quest’ultima e ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato (ovvero il riconoscimento della qualifica di worker) e dei conseguenti diritti. Questa la sintesi della questione:
“Nuove modalità di lavoro organizzate attraverso piattaforme digitali pongono interrogativi sulla condizione occupazionale delle persone che svolgono il lavoro in questione. Il punto centrale è se il tribunale del lavoro può affermare che i conducenti il cui lavoro è organizzato tramite l'applicazione per smartphone ("l'app Uber") lavorano per Uber con contratti di lavoro e quindi hanno diritto al salario minimo nazionale, al pagamento di congedi e altri diritti dei lavoratori; o se, come sostiene Uber, i conducenti non godano di questi diritti perché lavorano autonomamente, eseguendo servizi in base a contratti stipulati con i passeggeri attraverso Uber [che opera] come loro agente di prenotazione. Se i conducenti lavorano per Uber con contratti di lavoro, sorge una questione secondaria: se la prestazione di lavoro dei conducenti esistesse ogni volta che essi si connettevano all'app Uber all'interno della zona di competenza ed erano pronti ad accettare viaggi; o se, come sostiene Uber, esistesse solo al momento del trasporto dei passeggeri verso le loro destinazioni”.
Il primo giudice ha affermato che ricorrenti erano "lavoratori" che, sebbene non esplicitamente assunti con contratto di lavoro subordinato, lavoravano per Uber in base a "contratti di lavoro" ai sensi della parte (b) dell’art. 230 dell’Employment Rights Act 1996, secondo cui è lavoratore (worker) chi instaura (a) un formale contratto di impiego o (b) “qualsiasi altro contratto, espresso o implicito e (se espresso) orale o scritto, in base al quale l'individuo si impegna a fare o eseguire personalmente qualsiasi lavoro o servizio per un'altra parte del contratto il cui stato non è in virtù del contratto quello di un cliente o committente di qualsiasi professione o attività imprenditoriale svolta dal privato”. La Corte si muove pertanto per verificare se nella specie sussistano i requisiti voluti dalla legge.
“42. Questo caso riguarda il primo di questi requisiti [l’esistenza di un contratto con cui un individuo si obbliga a eseguire lavori o servizi per l'altra parte]. È pacifico che gli autisti ricorrenti lavoravano in base a contratti con i quali si impegnavano a svolgere servizi di guida personalmente; …. La questione critica è se, ai fini della definizione di legge, i ricorrenti debbano essere considerati come lavoratori in base ai contratti con i quali si sono impegnati a fornire servizi per Uber London; o se, come sostiene Uber, debbano essere considerati come prestatori di servizi esclusivamente per conto e in base a contratti stipulati con i passeggeri attraverso l'agenzia di Uber London”.
Al fine di risolvere questo quesito, la Corte prende nuovamente in considerazione i cinque elementi di valutazione già esaminati dal primo giudice: 1) il compenso corrisposto all’autista è fissato da Uber, a differenza di quanto avviene per gli altri noleggiatori di veicoli; 2) le condizioni contrattuali di esecuzione del servizio sono fissate da Uber; 3) gli autisti hanno la libertà di scegliere quando e dove lavorare, ma una volta che abbiano effettuato l'accesso all'app Uber, l'accettazione o meno delle richieste di corsa è rimessa a Uber; 4) Uber controlla direttamente l’esecuzione del servizio da parte degli autisti forniscono; 5) Uber limita al minimo la comunicazione tra passeggero e conducente e impedisce ai conducenti di stabilire con il passeggero qualsiasi rapporto tale da estendersi oltre la singola corsa (nn. 94-100), e conclude che:
“Mettendo insieme questi fattori, emerge che il servizio di trasporto svolto dagli autisti e offerto tramite l'app Uber è definito e controllato con rigore da Uber. Inoltre, il servizio fornito ai passeggeri è standardizzato e gli autisti sono percepiti come sostanzialmente intercambiabili, in quanto Uber tende alla fidelizzazione dei clienti e non dei singoli autisti. Dal punto di vista dei conducenti, gli stessi fattori - in particolare l'impossibilità di offrire un servizio personalizzato o di fissare i prezzi, nonché il controllo di Uber su tutti gli aspetti del loro rapporto con i passeggeri - significano che essi hanno poca o nessuna occasione di trarre un più alto beneficio economico dalle proprie capacità professionali o imprenditoriali, dato che l'unico modo in cui possono aumentare i loro introiti è lavorare più ore nel costante rispetto delle misurazioni delle prestazioni di Uber”.
Secondo lo stile della Corte, non viene formulato un esplicito principio di diritto ed è lasciato al lettore effettuare le sue considerazioni di diritto. È esplicita, tuttavia, la conclusione: rigetto del ricorso di Uber e conferma della sentenza del primo giudice che aveva accolto la domanda.
La sentenza è ben più ampia di quanto qui detto (dà ad esempio spazio ai molti precedenti della stessa Corte in materia). La sintesi effettuata, tuttavia, dà conto di un approccio simile a quello della Corte di cassazione, in quanto si verifica la ricorrenza dei requisiti del modello legale mediante la scomposizione della fattispecie, per valutare non tanto il contenuto delle (peraltro inesistenti) formali dichiarazioni negoziali, quanto per verificare che l’accordo comunque raggiunto sia coerente con la definizione della figura di “lavoratore” (worker) data dalla legge.
L’opinabilità delle soluzioni adottate in applicazione di questo approccio potrebbe, forse, essere attenuata dalla scelta di altri Paesi di dare per presunto il rapporto di lavoro subordinato nel caso sia riscontrata la presenza di alcuni indici fattuali “caratteristici del socialtipo lavoro subordinato” ( ).

8. Conclusioni. Una proposta della Commissione europea

In presenza degli evidenziati dubbi di carattere sociale, economico e giuridico, appare giustificata l’attesa suscitata dalla proposta di direttiva europea sul lavoro mediante piattaforme digitali, da tempo in gestazione ( ).
La Proposta, partendo dal presupposto che nove piattaforme digitali su 10 tra quelle operanti nell'UE classifichino come lavoratori autonomi le persone che vi lavorano, nella consapevolezza del carattere spesso fittizio di tale classificazione, intende promuovere una regolazione del fenomeno che garantisca a detti lavoratori “la corretta situazione occupazionale alla luce del loro effettivo rapporto con la piattaforma di lavoro digitale” e consenta loro “accesso ai diritti applicabili in materia di lavoro e protezione sociale” (il c.d. lavoro dignitoso, decent work”) ( ).
Vengono, dunque, promossi il principio del “primato dei fatti” (per tale intendendosi l’effettiva modalità di svolgimento della prestazione, a dispetto della definizione data dal contratto stipulato tra lavoratore e gestore della piattaforma) e la presunzione legale che esista un rapporto di lavoro ogni volta che la piattaforma di lavoro digitale controlla determinati elementi dell'esecuzione del lavoro ( ).
Sul piano definitorio, viene elaborato il concetto di “piattaforma di lavoro digitale” e se ne fissano i requisiti.
Viene precisato che il lavoro mediante piattaforme digitali è svolto da persone fisiche “sulla base di un rapporto contrattuale tra la piattaforma di lavoro digitale e la persona fisica, indipendentemente dal fatto che esista o no un rapporto contrattuale tra tale persona e il destinatario del servizio”.
Si distingue tra la persona che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali (indipendentemente quindi dalla sua situazione occupazionale) e il lavoratore delle piattaforme digitali (ovvero, colui che ha un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro per tali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi).
Le attese sono ulteriormente giustificate dall’obiettivo europeo di affrontare le problematiche dell’innovazione tecnologica in un contesto normativo coordinato, per cui la proposta in materia di lavoro su piattaforme è destinata a coordinarsi con la proposta di regolamento sull’I.A. COM(2021) 206 final, più volte menzionata, e, per una serie di rimandi interni, con le raccomandazioni concernenti gli aspetti etici delle tecnologie correlate all’I.A. e alla robotica ( ).
L’intervento di una cogente normativa europea è opportuno in ragione della ultranazionalità del fenomeno. Per evitare suggestioni salvifiche, tuttavia, è bene aver presente che le tipologie di piattaforme informatiche (o quantomeno alcune di esse) grazie al ricorso ai canali informatici prescindono dalla territorialità, per cui la normativa deve essere rivolta non solo ai gestori allocati in Europa, ma anche a preservare gli utenti europei (e tra loro in primis i lavoratori) dall’invadenza dei gestori extraeuropei ( ).
In ogni caso, operatori ed utenti si preparino ad affrontare con distacco l’ineliminabile carico di burocrazia (in termini di obblighi di informazione e di trattamento dati) che la regolamentazione europea ci riserverà, nella consapevolezza (o nella speranza?) che l’intelligenza artificiale non ci ridurrà come i robot di Karel Čapek.

 

 

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