Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

Introduzione

Nella sentenza 14 maggio 2019, causa C-55/18 la Grande Sezione della Corte di Giustizia UE è tornata sul tema dell’orario di lavoro, con affermazioni di grande interesse anche per il nostro ordinamento. La Corte ha anche fatto salvo il regime derogatorio di cui all’art. 17, comma 1, della direttiva 2003/88.
L’Italia aveva utilizzato la facoltà di deroga alla regola del riposo continuativo di 11 ore consentita dalla direttiva all’art. 17, comma 1, con riferimento ai dirigenti del Servizio Sanitario Nazionale, sul principale assunto secondo cui tutti i medici (gli infermieri) dell’area sanitaria nella loro qualità di dirigenti, sono dotati del potere di decisione autonoma al fine del godimento di una delle facoltà di eccezione concesse dalla direttiva.
Tale impostazione è stata smentita per effetto della procedura di infrazione aperta nel 2012 dalla Commissione europea a carico della Repubblica italiana (n. 2011/4185) e di conseguenza la norma che applicava nel diritto interno l’eccezione al principio del riposo continuativo pari a 11 ore ogni 24 per l’area medica è stata abrogata e sono state caducate le disposizioni dei contratti collettivi che regolavo il riposo giornaliero a fare data dal 25 novembre 2015 (art. 14, comma 1, legge n. 161 del 2014).
La contrattazione collettiva non si è più adeguata ‒ almeno fino all’ultimo CCNL di Comparto ‒ e nel frattempo si sono avute numerose pronunce della CGUE in materia, in favore della situazione lavorativa degli operatori sanitari.
Oggi il problema non risulta essere stato, nei fatti, risolto anche se il quadro formale della normativa appare conforme al diritto UE.
La questione è di grande rilevanza non solo per gli operatori ma anche per gli utenti del SSN, considerando altresì che essa è tornata “in prima linea” soprattutto dopo l’epidemia di coronavirus e l’impegno che ha comportato ‒ e tuttora comporta ‒ per medici, infermieri e operatori della Sanità, che ha confermato l’eccellente valore del nostro SSN.
Si spera, quindi, che anche sulla scia di questi ultimi eventi si intendano fare le scelte lungimiranti ‒ e da tanto tempo attese ‒ volte a definire finalmente l’orario di lavoro giornaliero e settimanale dei dirigenti del SSN (con i conseguenti periodi di riposo), che al momento è un diritto fondamentale solo “sulla carta”.

 

1.- Il contrasto interpretativo tra l’Audiencia Nacional (Corte centrale) e il Tribunal Supremo (Corte suprema nazionale) a proposito del carattere generale o meno dell’obbligo datoriale di istituire un sistema di registrazione dell’orario di lavoro giornaliero di lavoro dei dipendenti.

La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dall’Audiencia Nacional (Corte centrale, Spagna), nell’ambito di una controversia tra la Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CCOO) e la Deutsche Bank SAE in cui era in contestazione la mancanza, all’interno della Banca, di un sistema di registrazione dell’orario di lavoro giornaliero svolto dai dipendenti.
In particolare, la CCOO, un sindacato di lavoratori facente parte di un’organizzazione sindacale rappresentata a livello nazionale ha proposto all’Audiencia Nacional un ricorso collettivo diretto contro la Deutsche Bank, chiedendo la pronuncia di una sentenza che dichiarasse l’obbligo, a carico di quest’ultima, ai sensi dell’articolo 35, paragrafo 5, dello Statuto dei lavoratori e della terza disposizione addizionale del regio decreto 1561/1995, di istituire un sistema di registrazione dell’orario di lavoro giornaliero svolto dai dipendenti che consentisse di verificare il rispetto, da un lato, degli orari di lavoro stabiliti e, dall’altro, dell’obbligo di trasmettere ai rappresentanti sindacali le informazioni relative al lavoro straordinario effettuato mensilmente.
Secondo il sindacato l’obbligo di istituire un siffatto sistema di registrazione risulta dagli articoli 34 e 35 dello Statuto dei lavoratori, come interpretati alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta UE, dagli articoli 3, 5, 6 e 22 della direttiva 2003/88, nonché dalla Convenzione n. 1 sulla durata del lavoro (industria) e dalla Convenzione n. 30 sulla durata del lavoro (commercio e uffici), adottate dall’Organizzazione internazionale del lavoro, rispettivamente, a Washington il 28 novembre 1919 e a Ginevra il 28 giugno 1930.
La Deutsche Bank ha sostenuto, per contro, che il Tribunal Supremo (Corte suprema nazionale) in due sentenze del 2017 ha escluso che il diritto spagnolo preveda che un simile obbligo abbia applicazione generale.
Ma l’Audiencia Nacional ha espresso dei dubbi sulla conformità al diritto dell’Unione dell’interpretazione dell’articolo 35, paragrafo 5, dello Statuto dei lavoratori, fornita dal Tribunal Supremo, rilevando, fra l’altro, sia da inchieste nel settore sia da due relazioni della Dirección General de Empleo del ministerio de Empleo y Seguridad Social (Direzione generale del lavoro del Ministero del lavoro e della sicurezza sociale) è risultata la necessità di conoscere con esattezza il numero di ore di lavoro normalmente svolte, al fine di accertare se sono state svolte ore di lavoro straordinario. Per tale ragione l’Ispettorato del lavoro aveva chiesto alla Deutsche Bank l’istituzione di un sistema di registrazione dell’orario di lavoro svolto da ogni lavoratore, considerando un siffatto sistema come l’unico mezzo in grado di verificare gli eventuali superamenti dei limiti massimi previsti nel corso del periodo di riferimento.
In questa situazione, il giudice del rinvio ha sottolineato che l’interpretazione del diritto spagnolo fornita dal Tribunal Supremo, in pratica, priverebbe sia i lavoratori di un mezzo di prova essenziale per dimostrare se il proprio orario di lavoro ha superato i periodi massimi stabiliti sia i rappresentanti sindacali dei mezzi necessari per verificare il rispetto delle norme applicabili in materia, cosicché il controllo del rispetto dell’orario di lavoro e dei periodi di riposo sarebbe lasciato al mero arbitrio del datore di lavoro.
Pertanto, secondo il giudice del rinvio, il diritto nazionale spagnolo non sarebbe in grado di garantire il rispetto effettivo degli obblighi previsti dalla direttiva 2003/88 per quanto riguarda i periodi minimi di riposo e la durata massima settimanale del lavoro e nemmeno, per quanto attiene ai diritti dei rappresentanti dei lavoratori, degli obblighi derivanti dalla direttiva 89/391.

2.- Le questioni pregiudiziali proposte.

L’Audiencia Nacional ha pertanto sottoposto alla Corte le seguenti tre questioni pregiudiziali:
«1) se il Regno di Spagna, con gli articoli 34 e 35 dello Statuto dei lavoratori, quali progressivamente interpretati dalla giurisprudenza [spagnola], abbia adottato le misure necessarie per garantire l’effettività dei limiti di durata dell’orario di lavoro e del riposo settimanale e giornaliero stabiliti dagli articoli 3, 5 e 6 della direttiva [2003/88], per i lavoratori a tempo pieno che non si siano impegnati in forma espressa, individualmente o collettivamente, a effettuare ore di lavoro straordinario e che non presentino la qualifica di lavoratori mobili, della marina mercantile o ferroviari;
2) se l’articolo 31, paragrafo 2 della [Carta] e gli articoli 3, 5, 6, 16 e 22 della direttiva [2003/88], in relazione agli articoli 4, paragrafo 1, 11, paragrafo 3 e 16, paragrafo 3 della direttiva [89/391], debbano interpretarsi nel senso che ostano ad una normativa nazionale interna, quali gli articoli 34 e 35 dello Statuto dei lavoratori, da cui, come posto in rilievo da giurisprudenza [spagnola] consolidata, non si può dedurre l’obbligo per le imprese di instaurare un sistema di registrazione dell’orario giornaliero di lavoro effettivo per i lavoratori a tempo pieno che non si siano impegnati in forma espressa, individualmente o collettivamente, a effettuare ore di lavoro straordinario e che non presentino la qualifica di lavoratori mobili, della marina mercantile o ferroviari.
3) se l’ingiunzione perentoria agli Stati membri, di cui all’articolo 31, paragrafo 2 della [Carta] e agli articoli 3, 5, 6, 16 e 22 della direttiva [2003/88], in relazione agli articoli 4, paragrafo 1, 11, paragrafo 3 e 16, paragrafo 3, della direttiva [89/391], di limitare la durata dell’orario di lavoro di tutti i lavoratori in generale, sia garantita per i lavoratori comuni con la normativa di diritto interno, contenuta negli articoli 34 e 35 dello Statuto dei lavoratori dai quali, come posto in rilievo da giurisprudenza [spagnola] consolidata, non si può dedurre l’obbligo per le imprese di instaurare un sistema di registrazione dell’orario giornaliero di lavoro effettivo per i lavoratori a tempo pieno che non si siano impegnati in forma espressa, individualmente o collettivamente, a effettuare ore di lavoro straordinario, a differenza dei lavoratori mobili, della marina mercantile o ferroviari».

3.- La soluzione offerta dalla Corte.

La Corte ha esaminato congiuntamente tali questioni, dopo aver precisato che l’art 22 della direttiva 2003/88 ‒ cui hanno fatto riferimento la seconda e la terza questione ‒ non è applicabile al procedimento principale e, di conseguenza, non occorre interpretarlo nel caso di specie in quanto dalle discussioni svoltesi in udienza dinanzi alla Corte è emerso che il Regno di Spagna non si è avvalso della facoltà ivi prevista di non applicare l’art. 6 di tale direttiva (relativo alla durata massima settimanale del lavoro) e di dovere in questa caso assicurarsi, mediante le misure necessarie adottate a tal fine, che il datore di lavoro tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori interessati e che tali registri siano messi a disposizione delle autorità competenti.

Fatta questa precisazione la Corte ha risposto al giudice del rinvio nel seguente modo:

“gli articoli 3, 5 e 6 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letti alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e dell’articolo 4, paragrafo 1, dell’articolo 11, paragrafo 3, e dell’articolo 16, paragrafo 3, della direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno Stato membro che, secondo l’interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza nazionale, non impone ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore”.

4.- L’iter argomentativo della decisione.

Alla suddetta conclusione la CGUE è pervenuta sulla base delle seguenti principali argomentazioni:

a) in base alla consolidata giurisprudenza della Corte il diritto di ciascun lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornaliero e settimanale non solo costituisce una norma del diritto sociale dell’Unione che riveste una particolare importanza, ma è anche espressamente sancito all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, cui l’art. 6, paragrafo 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei Trattati (vedi sentenze 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C 397/01 a C 403/01, punto 100; 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C 684/16, punto 20);
b) le disposizioni della direttiva 2003/88, in particolare gli articoli 3, 5 e 6, delineano tale diritto fondamentale e devono pertanto essere interpretate alla luce di quest’ultimo (vedi in tal senso: sentenze 11 settembre 2014, A, C 112/13, punto 51 e giurisprudenza ivi citata; 6 novembre 2018, Bauer e Willmeroth, C 569/16 e C 570/16, punto 85);
c) in particolare, le disposizioni della direttiva 2003/88 non possono essere oggetto di interpretazione restrittiva a scapito dei diritti del lavoratore ivi riconosciuti perché va garantita l’osservanza del suddetto diritto fondamentale (vedi, per analogia: sentenza 6 novembre 2018, Bauer e Willmeroth, C 569/16 e C 570/16, punto 38 e giurisprudenza ivi citata);
d) l’obiettivo della direttiva 2003/88 è fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori mediante un ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell’orario di lavoro (vedi, segnatamente: sentenze 26 giugno 2001, BECTU, C-173/99, punto 37; 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14, punto 23; 20 novembre 2018, Sindicatul Familia Constanţa e a., C-147/17, punto 39);
e) tale armonizzazione a livello dell’Unione europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro è intesa a garantire una migliore protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, facendo godere a questi ultimi periodi minimi di riposo – in particolare giornaliero e settimanale – e periodi di pausa adeguati, e prevedendo un limite massimo per la durata settimanale del lavoro (vedi, in particolare: sentenze 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C 397/01 a C 403/01, punto 76; 25 novembre 2010, Fuß, C 429/09, punto 43; 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14, punto 23);
f) in conformità alle disposizioni degli artt. 3 e 5 della direttiva 2003/88, gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, rispettivamente, nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore, di un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive e, per ogni periodo di sette giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di ventiquattro ore cui si sommano le undici ore di riposo giornaliero previste al citato art. 3 (sentenza del 7 settembre 2006, Commissione/Regno Unito, C 484/04, punto 37);
g) inoltre, l’art. 6, lettera b), della direttiva 2003/88 impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere un limite di 48 ore alla durata media settimanale di lavoro, limite massimo che, come espressamente precisato, include le ore di straordinario, e che, al di fuori dell’ipotesi, non pertinente nel caso di specie, prevista all’art. 22, paragrafo 1, di tale direttiva, non può in alcun caso essere derogato, neppure con il consenso del lavoratore interessato (vedi, in tal senso, sentenza del 25 novembre 2010, Fuß, C 429/09, punto 33 e giurisprudenza citata);
h) al fine di garantire la piena efficacia della direttiva 2003/88, è pertanto necessario che gli Stati membri garantiscano il rispetto di tali periodi minimi di riposo e impediscano ogni superamento della durata massima settimanale del lavoro (sentenza del 14 ottobre 2010, Fuß, C 243/09, punto 51 e giurisprudenza ivi citata);
i) gli artt. 3, 5 e 6, lettera b), della direttiva 2003/88 non determinano le modalità concrete con le quali gli Stati membri devono garantire l’attuazione dei diritti da essi previsti, in quanto affidano agli Stati membri il compito di adottare dette modalità, adottando le «misure necessarie» a tale scopo (vedi, in tal senso, sentenza del 26 giugno 2001, BECTU, C-173/99, punto 55), ma gli Stati sono tenuti a fare sì che l’effetto utile dei diritti previsti sia integralmente assicurato, facendoli beneficiare effettivamente dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale e del limite massimo della durata media settimanale di lavoro previsti da tale direttiva, tenuto conto dell’obiettivo essenziale perseguito dalla direttiva 2003/88, consistente nel garantire una protezione efficace delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e una migliore tutela della loro sicurezza e della loro salute (vedi, in tal senso: sentenze 1 dicembre 2005, Dellas e a., C-14/04, punto 53; 7 settembre 2006, Commissione/Regno Unito, C-484/04, punti 39 e 40; 14 ottobre 2010, Fuß, C-243/09, punto 64);
l) in particolare gli Stati devono ricordare che il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti (sentenze 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, punto 82; 25 novembre 2010, Fuß, C-429/09, punto 80; 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C-684/16, punto 41);
m) parimenti, va considerato che, tenuto conto di tale situazione di debolezza, un lavoratore può essere dissuaso dal far valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di lavoro, dal momento che, in particolare, la loro rivendicazione potrebbe esporlo a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro in danno di detto lavoratore (vedi in tal senso: sentenze 25 novembre 2010, Fuß, C-429/09, punto 81; 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C-684/16, punto 41);
n) alla luce di tali considerazioni generali l’istituzione di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun dipendente appare necessaria per assicurare il rispetto effettivo della durata massima settimanale del lavoro e dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale, in quanto in assenza di un tale sistema, non c’è modo di stabilire con oggettività e affidabilità né il numero di ore di lavoro così svolte dal lavoratore e la loro collocazione nel tempo, né il numero delle ore svolte al di là dell’orario di lavoro normale, come ore di lavoro straordinario e quindi risulta eccessivamente difficile per i lavoratori, se non impossibile in pratica, far rispettare i diritti ad essi conferiti dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta e dalla direttiva 2003/88, al fine di beneficiare effettivamente della limitazione dell’orario settimanale di lavoro e dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale previsti dalla menzionata direttiva;
o) una simile difficoltà non è per nulla attenuata dall’obbligo per i datori di lavoro (esistente in Spagna) di istituire, in base alla legislazione nazionale, un sistema di registrazione delle ore di lavoro straordinario svolte dai lavoratori che hanno dato il loro consenso a siffatto riguardo;
p) è anche ininfluente che la normativa nazionale consenta agli interessati di utilizzare altri mezzi di prova (quali, in particolare, le testimonianze, la produzione di messaggi di posta elettronica o la consultazione di telefoni cellulari o di computer) al fine di fornire l’indizio di una violazione dei diritti di cui si tratta e dare così luogo ad un’inversione dell’onere della prova. Infatti, a differenza di un sistema che misura la durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto, tali mezzi di prova non consentono di dimostrare in modo oggettivo e affidabile il numero di ore di lavoro quotidiano e settimanale svolte dal lavoratore, tanto più che, tenuto conto della situazione di debolezza del lavoratore nel rapporto di lavoro, la prova testimoniale non può essere considerata, di per sé sola, come un mezzo di prova efficace idoneo a garantire un rispetto effettivo dei diritti di cui trattasi, dal momento che i lavoratori possono mostrarsi restii a testimoniare contro il loro datore di lavoro a causa del timore di misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro a loro svantaggio;
q) neppure si può ritenere che le difficoltà derivanti dall’assenza di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore possano essere superate dai poteri di indagine e sanzionatori conferiti dalla normativa nazionale agli organi di controllo, quali l’Ispettorato del lavoro. Infatti, in assenza di un sistema di tal genere, le suddette autorità sono esse stesse private di un mezzo efficace per ottenere l’accesso a dati oggettivi e affidabili riguardanti la durata dell’orario di lavoro svolto dai lavoratori in ciascuna impresa, che risulterebbe necessario per esercitare la loro missione di controllo e, eventualmente, per infliggere una sanzione (vedi, in tal senso: sentenza del 30 maggio 2013, Worten, C-342/12, punto 37 e giurisprudenza ivi citata);
r) di conseguenza, al fine di assicurare l’effetto utile dei diritti previsti dalla direttiva 2003/88 e del diritto fondamentale sancito dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, gli Stati membri devono imporre ai datori di lavoro l’obbligo di predisporre un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore;
s) tale conclusione è avvalorata dalle disposizioni della direttiva 89/391, che è pienamente applicabile in materia di periodi minimi di riposo giornaliero, di riposo settimanale e di durata massima settimanale del lavoro (fatte salve le disposizioni più vincolanti e/o specifiche contenute nella direttiva 2003/88), come risulta dall’art. 1, paragrafi 2 e 4, della direttiva 2003/88, dal suo considerando 3 e dall’art. 16, paragrafo 3, della direttiva 89/391;
t) le modalità concrete di attuazione di un siffatto sistema, in particolare la forma che esso deve assumere vanno determinate tenendo conto, se del caso, delle specificità proprie di ogni settore di attività interessato, e altresì delle particolarità di talune imprese (in special modo delle loro dimensioni), fatto salvo l’art. 17, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, che consente agli Stati membri, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di derogare, segnatamente, agli artt. da 3 a 6 di tale direttiva, quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle particolari caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi;
u) le considerazioni che precedono non possono essere inficiate né dalle previsioni di regole particolari per la misurazione dell’orario di lavoro nel settore dei trasporti e neppure dai costi che l’attuazione di un sistema che consenta la misurazione dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore potrebbe comportare per i datori di lavoro;
v) a tale ultimo riguardo va, infatti, ricordato che, come risulta dal considerando 4 della direttiva 2003/88, la protezione efficace della sicurezza e della salute dei lavoratori non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico (vedi in tal senso; sentenze 26 giugno 2001, BECTU, C-173/99, punto 59; 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02, punti 66 e 67).

Nella parte finale della sentenza la CGUE ricorda che, secondo la propria costante giurisprudenza, l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima, così come il loro dovere, ai sensi dell’art. 4, paragrafo 3, TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito della loro competenza, quelle giurisdizionali (vedi, in particolare: sentenze 19 aprile 2016, DI, C-441/14, punto 30 e 13 dicembre 2018, Hein, C-385/17, punto 49).
E si aggiunge che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE (sentenza del 19 aprile 2016, DI, C-441/14, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
Da ultimo si sottolinea che l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva (sentenze 19 aprile 2016, DI, C-441/14, punto 33; 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16, punto 72; 11 settembre 2018, IR, C-68/17, punto 64).

5.- Osservazioni.

La sentenza illustrata, oltre ad avere il pregio di ricordare i principi che governano l’interpretazione conforme in ambito UE, contiene importanti affermazioni in ordine al diritto di ciascun lavoratore ad un definizione dell’orario massimo di lavoro giornaliero e settimanale e a periodi di riposo giornaliero e settimanale. Tale diritto, infatti, viene configurato non solo come elemento del diritto sociale dell’Unione ma anche come diritto individuale espressamente sancito all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, cui l’art. 6, paragrafo 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei Trattati (vedi sentenze 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C 397/01 a C 403/01, punto 100; 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C 684/16, punto 20) e quindi in modo analogo al diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite
E questo porta a desumere che gli articoli della direttiva 2003/88 in materia di orario di lavoro abbiano efficacia diretta e che, anche per l’orario di lavoro, così come per le ferie, all’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali UE debba essere attribuito un analogo ruolo ai fini interpretativi.

Alcuni dei principi affermati sono nuovi, mentre altri vengono ribaditi efficacemente.

5.1.- Il lavoratore è parte debole del rapporto di lavoro.

Già in passato la Corte aveva affermato il principio secondo cui il lavoratore deve essere considerato come la “parte debole” del rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di influenzare la volontà dell’altro contraente o di imporgli una restrizione dei suoi diritti senza che questi abbia manifestato esplicitamente il suo consenso a tale proposito . Ma è significativo che tale principio venga ribadito ‒ come già avvenuto con la sentenza del 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C-684/16, punto 41 ‒ in quanto le precedenti affermazioni al riguardo non erano recenti (vedi, per tutte: CGUE, Grande Sezione, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 a C-403/01 nonché sentenza 25 novembre 2010, C-429/09, punti 80 e 81).
Nella presente sentenza tale principio viene collegato, in linea generale, alla necessità per gli Stati membri di esercitare il proprio potere discrezionale attuativo della direttiva 2003/88 ‒ e, nella specie, degli artt. 3, 5 e 6, lettera b), della direttiva in materia di orario di lavoro ‒ in modo da garantire il rispetto dei periodi minimi di riposo previsti e da impedire ogni superamento della durata massima settimanale del lavoro (sentenza del 14 ottobre 2010, Fuß, C 243/09, punto 51 e giurisprudenza citata).
La Corte, al riguardo, precisa che, in base alla citata direttiva gli Stati membri sono tenuti a garantire ad ogni lavoratore: 1) rispettivamente, nel corso di ciascun periodo di ventiquattro ore, di un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive e, per ogni periodo di sette giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di ventiquattro ore cui si sommano le undici ore di riposo giornaliero previste al citato art. 3 (sentenza del 7 settembre 2006, Commissione/Regno Unito, C 484/04, punto 37); 2) un limite di 48 ore alla durata media settimanale di lavoro, limite massimo che, come espressamente precisato, include le ore di straordinario, e che, al di fuori dell’ipotesi, non pertinente nel caso di specie, prevista all’art. 22, paragrafo 1, di tale direttiva, non può in alcun caso essere derogato, neppure con il consenso del lavoratore interessato (vedi, in tal senso, sentenza del 25 novembre 2010, Fuß, C-429/09, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).

Inoltre, con specifico riferimento alla fattispecie sub judice, la Corte richiama la posizione di debolezza del dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro al fine di sottolineare che soltanto un sistema di misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto dai dipendenti può considerarsi uno strumento particolarmente efficace per accedere in modo agevole a dati obiettivi e affidabili relativi alla durata effettiva del lavoro realizzato e come tale idoneo a facilitare sia la prova per i lavoratori, della violazione dei diritti loro conferiti dagli artt. 3, 5 e 6, lettera b), della direttiva 2003/88 (i quali precisano il diritto fondamentale sancito all’art. 31, paragrafo 2, della Carta), sia il controllo da parte delle autorità e dei giudici nazionali competenti del rispetto effettivo dei diritti in parola. Invece l’utilizzo di altri mezzi di prova da parte del lavoratore ‒ e, in particolare, della testimonianza dei colleghi ‒ non potrebbe considerarsi efficace, di per sé, proprio a causa del metus che i lavoratori possono nutrire nei confronti del datore di lavoro.

Comunque il principio di cui si tratta ha applicazione generale da parte della Corte, mentre nell’ambito della più recente giurisprudenza nazionale (in particolare della Corte di cassazione) il principio del “favor lavoratoris” riceve applicazione principalmente – se non esclusivamente – per la soluzione delle questioni di giurisdizione che implichino la soluzione di un conflitto fra giudice nazionale e giudice di un altro Stato, peraltro sempre richiamandosi la giurisprudenza della CGUE secondo cui in accordo pure con quanto stabilito dal regolamento CE n. 593/2008 del 17 giugno 2008, l’individuazione del giudice competente per le relative controversie deve ispirarsi ai principi del “favor lavoratoris”, in quanto le parti più deboli del contratto devono essere protette «tramite regole di conflitto di leggi più favorevoli» (CGUE sentenze 15 marzo 2011, C-29/10; 10 aprile 2003, C-437/00; 27 febbraio 2002 C-37/00; 9 gennaio 1997, C 383/95; 13 luglio 1993, C 125/92). Infatti, tale orientamento è stato recepito anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (vedi, per tutte: Cass. SU 13 dicembre 2007, n. 26089; Id. 9 gennaio 2008, n. 169; Id. 17 luglio 2008, n. 19595), in applicazione dell’usuale criterio ermeneutico dell’interpretazione del diritto nazionale in conformità con il diritto UE come interpretato dalla CGUE (vedi, al riguardo: Cass. 12 settembre 2014, n. 19301; Cass. SU 20 febbraio 2017, n. 4308).

5.2.- Garantire una protezione efficace delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori.

È interessante sottolineare che la Corte ha posto l’accento sull’obiettivo essenziale perseguito dalla direttiva 2003/88, consistente nel garantire una protezione efficace delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e una migliore tutela della loro sicurezza e della loro salute ed ha quindi più volte ribadito che gli Stati membri sono tenuti a garantire che l’effetto utile di tali diritti sia integralmente assicurato, nella specie facendoli beneficiare effettivamente dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale e del limite massimo della durata media settimanale di lavoro previsti dalla direttiva stessa, le cui disposizioni non possono essere oggetto di interpretazione restrittiva a scapito dei suddetti diritti anche perché esse non sono altro che precisazioni del diritto fondamentale previsto dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta UE e devono pertanto essere interpretate alla luce di quest’ultimo.
Pertanto, il rispetto effettivo del diritto a una limitazione della durata massima dell’orario di lavoro e a periodi minimi di riposo, conferito dalla direttiva 2003/88 deve essere pienamente assicurato ai lavoratori e non può essere lasciato alla discrezionalità del datore di lavoro.

5.3.- Interpretazione conforme al diritto UE e disapplicazione della normativa nazionale contraria al diritto UE.

Nella sentenza in commento, pur pervenendosi ad una configurazione del diritto del lavoratore ad un orario di lavoro definito analoga a quella attribuita al diritto alle ferie retribuite nelle citate sentenze di novembre 2018 , tuttavia la CGUE non si è soffermata, in particolare, a specificare gli strumenti interpretativi a disposizione dei giudici nazionali per riconoscere il diritto incondizionato e imperativo all’orario di lavoro determinato in presenza di normative interne che non siano conformi al diritto UE in materia, limitandosi a ricordare i principi che governano l’interpretazione conforme al diritto UE.

Ma già da tali statuizioni si desume che sul punto la sentenza è interpretabile in conformità con quelle sul diritto alle ferie il che vuol dire che:
a) il giudice nazionale ha la facoltà di disapplicare la normativa interna contraria al diritto UE solo se risulta impossibile interpretala in modo da garantirne la conformità, nella specie agli artt. 3, 5 e 6 della direttiva 2003/88/CE, da leggere alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché dell’art. 4, paragrafo 1, dell’art. 11, paragrafo 3, e dell’art. 16, paragrafo 3, della direttiva 89/391/CEE;
b) in linea generale i giudici nazionali, nell’applicare il diritto interno, sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE;
c) il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima;
d) in base al costante orientamento della Corte l’esigenza di un’interpretazione conforme siffatta include in particolare l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva, sicché un giudice nazionale non può, in particolare, validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in ambito nazionale in un senso che è incompatibile con tale diritto.

Nella presente sentenza la CGUE non specifica nulla con riferimento all’ipotesi in cui non sia possibile fare ricorso all’interpretazione conforme al diritto UE, ma dato il tenore della decisione e i riferimento ad un diritto fondamentale previsto dalla Carta UE si può desumere che anche per il presente caso valga il potenziamento degli strumenti a disposizione del giudice nazionale per la disapplicazione previsto nelle citate sentenze sul diritto alle ferie .

Cioè, in particolare:

1) l’effetto diretto delle suindicate disposizioni della direttiva, che comporta la loro invocabilità nell’ambito di una controversia dinanzi ai giudici nazionali allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto ad un orario di lavoro determinato con i conseguenti riposi e la correlata disapplicazione di ogni disposizione di diritto nazionale contraria;
2) tuttavia, in base alla costante giurisprudenza della CGUE, tale effetto diretto non può prodursi nelle controversie tra privati perché estendere l’invocabilità di una disposizione di una direttiva non recepita, o recepita erroneamente, all’ambito dei rapporti tra privati equivarrebbe a riconoscere all’Unione il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti;
3) pertanto, il suddetto effetto può prodursi, quindi, solo quando una delle parti del giudizio sia una parte pubblica intesa in senso ampio, indipendentemente dalla veste, di datore di lavoro o di pubblica autorità nella quale si trova in giudizio agisce. Deve trattarsi, cioè, di uno Stato membro e/o di tutti gli organi della sua amministrazione, comprese le autorità decentrate oppure di organismi ed enti soggetti all’autorità o al controllo dello Stato e/o cui sia stato demandato da uno Stato membro l’assolvimento di un compito di interesse pubblico e che dispongono a tal fine di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra privati;
4) per le ipotesi di controversie fra privati, nelle quali il suddetto effetto diretto non si può produrre, si deve ritenere applicabile anche per l’orario di lavoro l’innovativa statuizione ‒ effettuata nelle citate sentenze sul diritto alle ferie retribuite ‒ secondo cui allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto fondamentale in oggetto, in questi casi il giudice nazionale ove necessario può fare ricorso alla disapplicazione della normativa interna contraria al diritto UE facendo riferimento all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE, disposizione che è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro privato;
5) ovviamente, deve trattarsi di una controversia in cui si discuta di una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione, come tale rientrante nell’ambito di applicazione della Carta.
In tal modo, e alle condizioni stabilite nelle sentenze sulle ferie, anche per il diritto all’orario di lavoro determinato verrebbe riconosciuta una c.d. efficacia diretta orizzontale ad una norma della Carta dei diritti relativa ad un diritto fondamentale dei lavoratori, in quanto tali.
Mentre in precedenza la Carta dei diritti risulta avere avuto spazio nella giurisprudenza della CGUE soprattutto per il diritto relativo all’accesso alla giustizia (art. 47), alla protezione dei dati personali (art. 41), alla non discriminazione (art. 21), nonché per il diritto di proprietà (art. 17) e quello di libertà di impresa (art. 16).

E l’efficacia diretta orizzontale è stata riconosciuta al divieto di discriminazioni.

5.4.- Le deroghe.

Detto questo, va anche sottolineato che la Corte nella sentenza in commento ha anche aggiunto che gli Stati membri, nell’ambito dell’esercizio del potere discrezionale di cui dispongono nel determinare le modalità concrete di attuazione del sistema di misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero dei lavoratori possono tenere conto delle specificità proprie di ogni settore di attività interessato, delle particolarità di talune imprese (con riguardo, in particolare, alle loro dimensioni).
Al riguardo, la Corte ha ribadito la salvezza dell’art. 17, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, che consente agli Stati membri, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di derogare, segnatamente, agli artt. da 3 a 6 di tale direttiva, quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle particolari caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi.

5.5.- L’applicazione della sentenza nel ordinamento nazionale.

Molti dei principi affermati dalla CGUIE nella presente sentenza hanno grande rilievo anche per il nostro ordinamento, a partire dal collegamento effettuato tra le disposizioni della direttiva e l’art. 31 della Carta UE, che conferma l’efficacia diretta delle suddette disposizioni, con ciò che ne consegue in materia di interpretazione conforme e di disapplicazione.

Va però osservato che, purtroppo, anche dopo questa sentenza resta inalterato uno dei maggiori problemi che si riscontrano nel lavoro pubblico contrattualizzato nazionale che è quello dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari, che secondo l’impostazione originaria del nostro Stato doveva considerarsi ricompreso tra le deroghe di cui all’art. 17 della direttiva 2003/88, avendo l’Italia utilizzato la facoltà di deroga alla regola del riposo continuativo di 11 ore consentita dalla direttiva all’art. 17, comma 1, considerando tutti i medici dell’area sanitaria come dirigenti, cioè come personale cioè dotato di potere di decisione autonomo per godere di una delle facoltà di eccezione concesse dalla direttiva. Per effetto della procedura di infrazione aperta nel 2012 dalla Commissione europea a carico della Repubblica italiana (n. 2011/4185) tale impostazione è stata smentita e le norme (legislative e contrattuali) che vi si adeguavano sono state eliminate. Mentre la contrattazione collettiva non si più adeguata ‒ almeno fino all’ultimo CCNL di Comparto ‒ e nel frattempo si sono avute numerose pronunce della CGUE in materia in favore degli operatori del settore.

In questa complessa situazione, a questo punto, non si può certamente pensare di trovare soluzione all’anzidetto annoso problema nelle sentenza della CGUE perché si tratta di un problema che è di sistema e che quindi, come tale, non può essere risolto in modo generale ed esauriente in sede giudiziaria nazionale o europea.
Vale però la pena di ricordarne in questa sede le coordinate principali, data la grande rilevanza della questione non solo per gli operatori ma anche per gli utenti del servizio, considerando altresì che essa è tornata “in prima linea” soprattutto dopo l’epidemia di coronavirus e l’impegno che ha comportato ‒ e tuttora comporta ‒ per medici, infermieri e operatori della Sanità.

5.6.- La questione dell’orario di lavoro dei dirigenti del SSN.

Si tratta di una questione la cui soluzione non dipende dalla definizione di una qualunque voce retributiva, ma che implica la determinazione delle modalità in cui si intende organizzare il Servizio Sanitario Nazionale e quindi recuperarne o rafforzarne la qualità gestionale e operativa.
Tale operazione – che coinvolge in primo luogo i dirigenti – è, da più parti, considerata fondamentale per varie ragioni, tra le quali si pone in primo piano quella della riduzione delle differenze regionali che, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2001, si riscontrano nel nostro Paese, minando la garanzia di equità e universalità del SSN, fino a determinare una vistosa diminuzione dell’aspettativa di vita nel Sud del Paese rispetto al Nord, mentre la situazione di partenza era inversa o comunque paritaria.
Le suddetta differenziazione non solo è discriminatoria ma ha anche degli elevati costi individuali e collettivi – che riguardano tutto il sistema – come emblematicamente risulta dal fatto che dove la prevenzione non funziona si ha una maggiore incidenza – con esiti spesso nefasti – di tumori e malattie croniche, la cui cura è impegnativa per i pazienti e per il sistema .
E se una risposta esauriente alla questione dell’orario di lavoro dei dirigenti del SSN è collegata anche alla suindicata problematica delle differenze regionali è perché la maggiore difficoltà concreta di riorganizzare il lavoro nella Sanità pubblica secondo le regole del diritto UE in materia di orario di lavoro, anche dopo l’entrata in vigore della legge 30 ottobre 2014 n. 161, è pacifico che sia da individuare nel blocco del turnover del personale medico, i cui effetti non possono dirsi ancora superati, tanto meno in modo da colmare il crescente divario tra Nord e Sud del Paese
Per tutte le suddette ragioni, dopo tanti anni che se ne discute e dal punto di vista normativo e giurisprudenziale interno e UE il quadro è molto ben delineato per trovare una reale soluzione al problema della determinazione dell’orario dei dirigenti sanitari ‒ nelle sue varie articolazioni ‒ appaiono necessarie delle scelte strategiche da effettuare con uno “sguardo ampio”, cioè senza dimenticare che:
a) la definizione dell’orario di lavoro – di tutti i lavoratori – involge la loro dignità, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e anche la salute dei lavoratori (nel nostro caso dei dirigenti sanitari) e quindi, indirettamente, quella degli utenti del Servizio Sanitario Nazionale;
b) le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo», come chiarito dalla Corte di Giustizia, appartengono al diritto UE e vanno interpretate secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema ed alla finalità delle direttive in materia oltre che dell’art. 31 della Carta UE e non già alle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri (vedi, di recente: Cass. 19 dicembre 2019, n. 34125);
c) se il rispetto dei principi affermati dalla Corte costituzionale in materia di contenimento della spesa per il personale del SSN può portare all’affermazione secondo cui le prestazioni rese in eccedenza rispetto all’orario ordinario tema dai dirigenti sanitari, a causa della grave carenza di personale non possono configurarsi come prestazioni libero-professionali richieste, in via eccezionale e temporanea, ad integrazione dell’attività istituzionale, ai sensi dell’art. 55, comma 2, del CCNL 1998-2001, laddove tale carenza abbia carattere strutturale e non contingente, trovando origine nelle limitazioni alle assunzioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni fondate sul cd. “patto di stabilità interno”, di cui all’art. 28 della l. n. 448 del 1998, principio fondamentale di finanza pubblica finalizzato al contenimento della spesa regionale e locale (Cass. 11 luglio 2018, n. 18271, riguardante l’attività eccedente l’orario prestata presso il servizio di pronto soccorso di un Ospedale della Regione Lazio nel periodo in cui era stata commissariata nel Settore della Sanità regionale a causa dell’ingente disavanzo nella spesa sanitaria, progressivamente accumulato nel corso degli anni),
d) tuttavia, i dati statistici ed epidemiologici portano a considerare che, in caso di incidente medico con evento avverso, le Aziende sanitarie possano essere esposte al rischio di corrispondere direttamente il risarcimento dei danni subiti sia dal paziente sia dal dipendente se l’incidente risulti essersi verificato in condizioni di sicura violazione delle disposizioni in materia di durata di orario di lavoro e di riposi, a maggior ragione se tale violazione, nella realtà aziendale, non sia annoverabile tra gli accadimenti eccezionali ma sia “ordinaria” e l’Amministrazione non vi abbia posto rimedio.

5.7.- Lavoro e salute “colonne” dello Stato democratico contemporaneo.

Da quanto si è detto risulta chiaro che la definizione dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari ha un ruolo centrale per tutto il SSN.
Del resto, si tratta un elemento fondamentale per ogni tipo di rapporto di lavoro subordinato, come risulta confermato dalla sentenza della CGUE in commento.
Di questo si sono mostrati consapevoli i nostri Costituenti che, infatti, nell’art. 36 della Costituzione hanno previsto che “la durata massima della giornata lavorativa” deve essere stabilita dalla legge, oltre a riconoscere il diritto del lavoratore al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, cui l’interessato non può rinunciare.
Le suddette disposizioni ‒ con le quali, implicitamente, i Padri Costituenti si sono mostrati consapevoli della necessaria una distinzione i tempi di vita e i tempi di lavoro, dei quali tanto si discute oggi ‒ possono considerarsi un’applicazione del concetto di lavoro quale adottato dai nostri Costituenti.
Si tratta di una concezione “alta” del lavoro, che ha la sua base nella scelta dei Padri costituenti di non inserire nella Carta una specifica norma ove siano riconosciuti la pari dignità e l’uguale valore di tutte le persone umane, come invece accade nelle principali Carte riguardanti i diritti fondamentali (per l’Europa, vedi per tutte: CEDU, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) così come in molte Carte costituzionali dei Paesi europei, tanto che l’autorevole Corte costituzionale federale tedesca di Karlsruhe ha qualificato come intangibile «superprincipio» quello della tutela della dignità umana (sentenza del 9 febbraio 2010).
Ebbene, la nostra Costituzione ‒ nella quale la persona e il rispetto della persona hanno un ruolo centrale ‒ per una precisa scelta, ha seguito una diversa impostazione, che si è tradotta nella solenne proclamazione, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In tal modo è stato creato un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro, come è stato acutamente osservato .
Infatti, secondo la tesi più accreditata , una simile scelta è stata fatta nell’ottica di considerare il lavoro dei singoli consociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto come lo strumento principale per dare «un contenuto concreto» alla partecipazione del singolo alla comunità e per tutelarne la dignità, la cui inviolabilità non è proclamata espressamente da nessun articolo della Costituzione (diversamente da quel che accade in altre Carte) nell’idea che circoscrivere in una disposizione tale concetto avrebbe potuto equivalere a sminuirne la portata, mentre esso rappresenta il “valore fondante” di tutta la Carta.
Ne consegue che, nel nostro ordinamento, per far vivere la democrazia non basta alzare il livello culturale della popolazione, ma è necessario farlo favorendo l’affermazione ‒ come tipo di lavoro dominante ‒ di un lavoro che sia compatibile con il modello avuto di mira dai Costituenti.
Cioè un lavoro diretto al benessere – materiale e spirituale − del singolo e della società e che consenta a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individuale, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
Un lavoro che non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità, personale e sociale, come tale tutelato dagli articoli 1, 2 e 4 Cost. (Cass. 18 giugno 2012, n. 9965).
In questa ottica la tutela del diritto ad un lavoro dignitoso è stata collegata a quella del diritto alla salute, tanto che a questi due diritti è stata una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone ‒ sia anche sociale.
Inoltre, questi due diritti dai nostri Costituenti sono stati intesi ‒ e sono tuttora da intendere ‒ come le “colonne”del nostro Stato democratico, in armonia con quanto stabilito da molte Carte internazionali, a cominciare dall’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dall’Assemblea Generale ONU nel 1948 e dal Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO in inglese, entrata in vigore il 7 aprile 1948), ove la salute viene definita come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non come “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”.
Del resto, nell’art. 32 della nostra Costituzione, la tutela della salute è configurata non solo come fondamentale diritto dell’individuo ma anche come interesse della collettività, in armonia con la definizione di salute adottata dall’OMS.
Neppure va dimenticato che non solo per il nostro Stato, ma in linea generale salute e lavoro, sono considerati come gli elementi distintivi dello Stato democratico contemporaneo, visto che l’essenza dei regimi democratici moderni è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza.
E questo a prescindere dal tipo di assetto costituzionale – centralizzato o decentralizzato – che il singolo Stato si è dato perché, in ogni caso, l’attuazione del diritto alla salute, così come quella del diritto al lavoro, devono essere conformi ai principi fondamentali di pari dignità degli individui, uguaglianza e di solidarietà che regolano la partecipazione del singolo alla comunità di appartenenza, in base al principio democratico, sul quale sono fondati il nostro Stato e la stessa Unione europea.
In Italia per dare migliore attuazione al diritto alla salute nella sua dimensione collettiva con legge 23 dicembre 1978, n. 833, è stato istituito il nostro Servizio Sanitario Nazionale (operativo dal 1° luglio 1980), che è tuttora considerato uno dei migliori sistemi sanitari del mondo, in termini di efficienza di spesa e accesso alle cure pubbliche per i cittadini.
Ma perché questo “gioiello” continui ad essere tale non si può più procrastinare la soluzione della questione della definizione, in concreto, dell’orario di lavoro dei dirigenti del Servizio (medici e infermieri).

5.8.- Il lavoro pubblico “liquido” e i suoi costi.

È evidente che nell’ultimo ventennio l’attuazione dei due fondamentali diritti di tutela della salute e del lavoro abbia incontrato – e tuttora incontri ‒ molte criticità e tenda a discostarsi dal pieno rispetto degli anzidetti basilari principi.
Infatti, abbiamo assistito allo “scolorirsi”, in Italia e nella UE, del modello dello Stato sociale ‒ come welfare state, ossia “lo Stato del benessere” ‒ sicché il riconoscimento della suddetta dimensione collettiva sia del diritto alla salute sia del diritto al lavoro – di per sé positivo e mai espressamente negato – si è “scolorito” anch’esso e, purtroppo, non si sono avute scelte adeguate da parte dal sistema economico e politico a tutti i livelli – nel nostro Stato, nella UE ma anche negli Stati di altri continenti che fanno parte dell’ONU – con le quali, ci si sia impegnati concretamente a favorire progressi duraturi in termini di creazione netta di lavoro dignitoso, adeguata tutela della salute in un’ottica universalistica nonché tutela di un ambiente salubre.
Mentre in sede ONU e, in particolare, da parte dell’OIL si è sottolineato più volte che il trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso dovrebbe essere l’obiettivo centrale per garantire uno sviluppo equo e sostenibile .
Questa situazione, in un primo momento, ha riguardato il lavoro privato, ma poi si è estesa pur anche al pubblico impiego, di cui è stata disposta la “privatizzazione” con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, entrato in vigore il 21 febbraio 1993 e più volte modificato, fino all’attuale d.lgs. n. 165 del 2001 (anch’esso integrato e modificato nel tempo).
E va ricordato che – come si sottolinea nella sentenza n. 141 del 2012 della Corte costituzionale – nel pubblico impiego il primo segnale di cambiamento nell’indicata direzione si è avuto proprio sul fronte dell’orario di lavoro con il superamento della regola originaria dell’esclusività (contenuta nell’art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) e con il conseguente riconoscimento della possibilità, per le Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici istituzionali e territoriali, di costituire rapporti di lavoro a tempo parziale.
Nell’ambito di questa riforma si è dato ingresso anche nel settore pubblico, ad una serie di contratti di lavoro non-standard, la cui utilizzazione da parte delle P.A. è stata spesso massiccia ‒ soprattutto nel settore Sanità e in quello della Scuola ‒ non conforme alla normativa di rifermento e come tale sanzionata, dando luogo ad una situazione, dagli alti costi personali e giudiziari, nata su basi esclusivamente di risparmio di spesa e, come tali, fragili per la giurisprudenza delle Corti europee centrali, non potendo certamente applicarsi alle pubbliche Amministrazioni la necessità di accrescimento della competitività, che è quella che può giustificare le assunzioni di lavoratori non-standard da parte delle imprese e delle organizzazioni produttive che operano nel mercato.
E, con uno sguardo d’insieme, va anche sottolineato che ‒ specialmente per le Regioni e gli enti locali ove si sono riscontrati i maggiori abusi nell’utilizzazione dei contratti a termine ‒ a causa del diffondersi di situazioni lavorative perennemente precarie nel governo del personale delle nostre Pubbliche Amministrazioni si sono prodotte ‒ e continuano a riscontrarsi ‒ incisive criticità che si traducono sia in violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori sia in una complessiva disorganizzazione che produce aumenti della spesa pubblica per molteplici aspetti, lede l’immagine delle Pubbliche Amministrazioni (e, quindi, dell’intero Paese) crea disagi per gli utenti, che a loro volta possono essere fonti di spesa.
Del resto, se la PA datrice di lavoro maltratta i propri dipendenti questi ultimi avranno maggiori difficoltà a trattare bene l’utenza: il rispetto delle regole si può ottenere solo con esempi virtuosi e le Pubbliche Amministrazioni dovrebbero essere le prime a darli.
Va anche ricordato che, per quel che riguarda la Sanità pubblica, il 1° gennaio 1993 è entrato in vigore il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, di “Riordino della disciplina in materia sanitaria”, più volte modificato, che si iscrive nel medesimo processo di riforma e ne condivide la logica.

5.9.- Le Pubbliche Amministrazioni sono lo specchio dello Stato.

Diversamente da quanto originariamente si ipotizzava – in particolare nel famoso rapporto (Job Study) dell’OCSE sull’occupazione del 1994 – il “mercato del lavoro più libero” da pressioni sindacali e da normative a protezione dei lavoratori ha soltanto portato ad un grande aumento del lavoro flessibile e precario nell’ambito sia del lavoro privato sia di quello pubblico “contrattualizzato”, le cui conseguenze non sono state di tipo espansivo, ma anzi hanno determinato molti guasti nella società e nell’economia, che a volte si ripropongono oggi nell’economia delle piattaforme digitali, visto che sono considerati un portato della globalizzazione .
Nel settore pubblico per effetto di queste scelte si è anche avuta l’applicazione alle Pubbliche Amministrazioni, in genere, della logica del profitto, sicuramente impropria specialmente per i settori-chiave del lavoro pubblico, quali le Scuole pubbliche, gli Uffici giudiziari e le Aziende sanitarie.
Per un imprevisto fenomeno di eterogenesi dei fini, tale logica ‒ unita al nostro prevalente individualismo ‒ anziché portare ad una razionalizzazione dei costi ha favorito l’aumento dei casi di cattiva amministrazione (che non assurgono a livello di reati, ma creano comunque dei danni) oltre a quelli di corruzione intesa in senso ampio e in senso stretto, tutti fenomeni che hanno costi elevati umani e materiali.
E, secondo i dati della Corte dei conti, gli effetti distorsivi delle irregolarità e degli illeciti penali nel pubblico impiego sono particolarmente incisivi nei settori in cui è più alto il livello della spesa, tra i quali quello della Sanità, oltre a quelli della realizzazione di opere pubbliche e della prestazione di servizi.
Tali fenomeni, inoltre, incidono in modo sensibile anche sull’immagine e l’attrattività del nostro Paese per gli investitori stranieri.
Del resto, è indubbio che le Pubbliche Amministrazioni – e, in particolare, le Scuole pubbliche, gli Uffici giudiziari e le Aziende sanitarie – siano lo specchio dello Stato e, quindi, siano elementi determinanti per la “reputazione” dello Stato stesso.
La reputazione, a sua volta, è un fattore molto rilevante dal punto di vista economico, come risulta anche dal Country RepTrak, cioè l’annuale classifica del Reputation Institute ‒ società USA di advisor che studia e vende agli investitori privati una specie di rating della onorabilità internazionale del Paesi del mondo con il PIL più alto (oltre che delle società commerciali più affidabili).
Tutto questo dovrebbe portare ad avere di mira Pubbliche Amministrazioni che siano organizzate secondo il canone del “benessere organizzativo”, ma deve anche essere precisato che questo canone – il quale, in origine, a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981, aveva come specifico obiettivo la salute e la sicurezza dei lavoratori (anche con riguardo ai rischi psicosociali allo stress lavoro-correlato) – nel corso del tempo è divenuto comprensivo della tutela sia della salute e della sicurezza dei lavoratori sia della “salus” di tutto il contesto lavorativo, quindi della legalità di tale contesto e ‒ tramite il lavoro pubblico ‒ della legalità dello Stato.
In base a questo canone, oggi potenziato nei suddetti termini:
a) avere Pubbliche Amministrazioni di migliore qualità – e cioè Amministrazioni che creino “valore” in modo più efficiente ma anche più ergonomico – ha delle importanti ricadute sull’affidabilità, attrattività e crescita economica del Paese;
b) per cercare di raggiungere il suddetto obiettivo, si deve puntare su una maggiore qualificazione dei pubblici dipendenti non soltanto dal punto di vista della preparazione tecnica ‒ che rappresenta una pre-condizione ‒ ma anche per quel che concerne la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e di conseguenza delle loro prestazioni.
Infatti è ormai assodato da tempo che lo sviluppo e l’efficienza della struttura lavorativa pubblica (così come di quella privata) dipendono dalla sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l’apprendimento, l’ergonomia (oltre alla sicurezza) dei luoghi di lavoro.
E gli esempi in tal senso non mancano anche nel nostro Paese, ma si tratta di casi piuttosto isolati e questo certamente non dipende solo dalle risorse, più o meno scarse, quanto piuttosto dai comportamenti di dipendenti e utenza.
Per questo, da tempo, anche nel nostro ordinamento le Amministrazioni sono state ripetutamente invitate a progettare e realizzare indagini sul clima e il benessere della propria organizzazione nonché a realizzare le opportune misure di miglioramento al fine di valorizzare le risorse umane, la motivazione dei collaboratori, migliorare i rapporti tra dirigenti ed operatori, accrescere il senso di appartenenza e di soddisfazione, rendere attrattive le P.A. per i talenti migliori, migliorarne l’immagine interna ed esterna e la qualità dei servizi, diffondere la cultura della partecipazione, realizzare sistemi di comunicazione interna e prevenire i rischi psico-sociali .
Per cercare di ottenere questi ambiziosi risultati ‒ che comportano un diverso modo di affrontare il lavoro, con riflessi diretti sul singolo dipendente e sulla qualità delle prestazioni erogate, ma anche con una positiva influenza sull’azione amministrativa nel suo complesso ‒ è necessario seguire più traiettorie convergenti:
a) assicurare un’adeguata tutela della salute dei dipendenti, intendendo per “salute” lo “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, che non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità, secondo la famosa definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948;
b) promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in linea con la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale, ove si afferma che tale conciliazione ‒ nello spirito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ‒ deve essere garantita quale diritto fondamentale di tutti i lavoratori, con misure che siano disponibili a ogni individuo, non solo alle giovani madri, ai padri o a chi fornisce assistenza;
c) ma soprattutto riscoprire il senso, il valore e la dignità del pubblico impiego, quale fondamentale fattore produttivo in grado di incidere significativamente sulla qualità dei servizi resi ai cittadini, per fare in modo che in tutto il pubblico impiego ‒ contrattualizzato e non ‒ i dipendenti si sentano realmente al servizio della Nazione, come recita, d’altronde, il primo comma dell’articolo 98 della Costituzione.
Nel nostro ordinamento, a partire dal d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, si è cominciato a fare riferimento, al riguardo, alla misurazione e valutazione della performance individuale e organizzativa degli uffici pubblici come parametro della produttività, ma anche dell’efficienza e della trasparenza della Pubblica Amministrazione.
Nella Riforma Madia (in particolare nel d.lgs. n. 74 del 2017) – introducendosi modifiche al d.lgs. n. 150 del 2009 n. 150 – si è potenziato molto il rilievo di tale parametro, dando continuità alla legge di delega 7 agosto 2015, n. 124 il cui dichiarato obiettivo è la ricostruzione della fiducia tra cittadini e Stato “recuperando risorse per restituirle sotto forma di servizi, valorizzare i dipendenti pubblici come motore del cambiamento, sostenere lo sviluppo e incentivare l’occupazione”, sottolineandosi che, per la prima volta, la riforma della Pubblica amministrazione “non è stata concepita come una riforma di settore ma come un progetto di cambiamento del Paese”.
Come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere sulla Riforma Madia la valutazione delle performance, come ivi prevista, ha carattere spiccatamente multidisciplinare e per la sua attuazione richiede un vero e proprio cambiamento culturale, all’interno e anche all’esterno dell’Amministrazione che non si può realizzare soltanto con l’intervento sul piano legislativo, ma richiede misure – spesso di natura non giuridica – di accompagnamento non meno fondamentali.
Essa, infatti, muove dalla premessa secondo cui, per ottenere i maggiori risultati nell’ambito del lavoro pubblico (come accade anche in quello privato), si deve puntare ad un capitale umano di qualità, grazie all’instaurazione di rapporti di fiducia all’interno dell’ambiente di lavoro e con l’utenza.

5.10.- Le Pubbliche Amministrazioni sono chiamate a produrre valori, non profitti.

È evidente che la problematica della determinazione dell’orario di lavoro dei dirigenti del SSN si inscrive in questo quadro perché rientra nella logica di puntare ad avere una Pubblica Amministrazione sanitaria di qualità e “sana” da tutti i punti di vista, avendo il coraggio di smettere di puntare su risparmi di spesa nel contingente e nell’immediato senza alcuna lungimiranza sui possibili costi futuri dei propri inadempimenti sul fondamentale fronte dei “valori” .
Negli ultimi anni abbiamo supinamente accettato la disgregazione tra valori e interessi che ha portato in primo piano gli egoismi mettendo da parte la solidarietà su cui è fondata la nostra democrazia per come risulta dalla nostra bella Costituzione.
L’anzidetta situazione rischia di minare alle radici il “modello sociale costituzionale” di cui i nostri Padri ci hanno dotato e che, non senza difficoltà, ha potuto affermarsi soprattutto grazie al ruolo propulsivo della Corte costituzionale e della giurisdizione, principalmente sulla base dell’art. 3, secondo comma, Cost., che ha sancito il principio di uguaglianza sostanziale.
Grazie a questa giurisprudenza ‒ fondata sul riconoscimento a tutti gli individui della pari dignità sociale ‒ si è giunti ad affermare la dimensione “soggettiva” dei diritti sociali e il loro carattere universale, con la conseguenza di escludere che il parametro dell’efficienza economica possa essere posto sullo stesso piano dei diritti della persona, poiché non ha un valore costituzionale rilevante, sicché il bilanciamento fra i due suddetti valori deve essere “ineguale” a favore dei diritti sociali .
Questo vale soprattutto per le Pubbliche Amministrazioni che sono chiamate a produrre valori e non profitti, anche se poi dai valori possono indirettamente nascere profitti (anche cospicui: di immagine ed economici) ma tutto questo dipende da un sano e legittimo investimento su un capitale umano di qualità, cosa che presuppone, in primo luogo che il datore di lavoro pubblico abbia una condotta corretta, che possa anche essere di esempio per i datori di lavoro privato.
Quel che è chiaro è che le strategie e la capacità di gestione delle Pubbliche Amministrazioni ‒ e, quindi, delle Aziende sanitarie ‒ devono essere valutate proprio in quest’ottica, che è l’unica che può consentire un reale miglioramento dei servizi offerti.
Tutti i consociati sono chiamati a favorire il raggiungimento di questo obiettivo perché contribuire a riformare i comportamenti delle Pubbliche Amministrazioni significa contribuire al cambiamento del Paese e, quindi, ad assicurare anche ai giovani un futuro conforme al disegno dei nostri Costituenti, cioè basato sulla fiducia in sé e negli altri.
Ma i primi ad essere chiamati a farlo sono coloro che lavorano alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, a partire dai dirigenti che devono essere messi nelle condizioni di poter svolgere al meglio questo compito essenziale.
Di tutto questo si deve avere consapevolezza anche quando si affronta il tema dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari ‒ che, come si è detto, ha un ruolo centrale per la qualità gestionale e operativa del SSN ‒ prendendo in considerazione pure gli ulteriori concordanti elementi che si ricavano, direttamente o indirettamente, da molteplici atti del Consiglio europeo e della UE nonché da plurime sentenze della CGUE.
In questa ottica viene, in primo luogo, in rilievo l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Condizioni di lavoro giuste ed eque) al quale anche la sentenza in commento attribuisce un ruolo centrale.
Tale articolo, dopo aver stabilito che “ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” (comma 1), specifica che “ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite” (comma 2).
Dalle Spiegazioni ufficiali della Carta dei diritti fondamentali risulta che i diritti riconosciuti in questo articolo hanno la loro base nelle direttive 12 giugno 1989, 89/391/CEE (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro) e 23 novembre 1993, 93/104/CE (concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), le quali a loro volta si ispirano agli artt. 2 e 3 della Carta sociale europea, ai punti 8 e 19 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, nonché, per quanto riguarda il diritto alla dignità sul lavoro, all’articolo 26 della Carta sociale europea riveduta (CSER). Si precisa, infine, che l’espressione «condizioni di lavoro» deve essere intesa nel senso dell’art.156 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), il che vuol dire principalmente nel rispetto dei i diritti sociali fondamentali .
Dalla giurisprudenza della CGUE si desume che quelli indicati nel suddetto art. 31 nell’ambito della UE sono al tempo stesso diritti fondamentali dei singoli lavoratori e principi essenziali del diritto sociale dell’Unione, in quanto tali dotati di natura imperativa , come si afferma nella sentenza qui in commento a proposito del diritto del lavoratore ad un orario di lavoro giornaliero e settimanale ben definito.
Di conseguenza, gli Stati membri possono apportare eventuali limitazioni ai diritti sanciti come diritti fondamentali dall’art. 31, solamente rispettando le rigorose condizioni previste all’art. 52, paragrafo 1, della Carta medesima e, in particolare, il contenuto essenziale dei diritti stessi.
Inoltre le disposizioni delle direttive che li contemplano “possono essere interpretate come aventi effetto diretto” (CGUE, sentenza 3 ottobre 2000, C-303/98; sentenza della Grande Sezione, 5 ottobre 2004, procedimenti riuniti da C-397/01 a C-403/01).
Ma questa favorevole situazione normativa a livello UE non è però risolutiva con riguardo alla questione dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari del SSN.
Infatti, in materia il non allineamento con la disciplina UE non si riscontra in primo luogo a livello di normativa primaria, quanto piuttosto a livello di contrattazione collettiva, sicché non è ipotizzabile fare ricorso ad alcuna disapplicazione al riguardo, tanto più che la disciplina di matrice europea non può certamente considerarsi self-executing, con riferimento a tutti i possibili effetti di un’eventuale violazione.
Inoltre si deve anche considerare che sia in ambito OIL sia in ambito UE il rapporto di “pubblico impiego” − anche quello, da noi, contrattualizzato, a partire dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 – è sempre stato, in linea generale, lasciato da parte, in conformità con i Trattati, salvo che venissero in considerazione violazioni di diritti fondamentali dell’Unione, come quello di discriminazione, ma sempre con alcune limitazioni.
Si tratta di un tipo di impostazione analoga – mutatis mutandis – a quella della Corte di Strasburgo, secondo cui, in linea di principio, agli Stati è riconosciuta ampia discrezionalità nella regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (vedi, per tutte: sentenza del 20 settembre 2005 Akat c. Turchia).
Questa situazione non è cambiata con il Trattato di Lisbona.
Infatti, l’art. 4, paragrafo 1, TUE stabilisce che “qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri” e la CGUE, richiamando questa norma, ha sempre riconosciuto il potere degli Stati membri di organizzare e razionalizzare le rispettive pubbliche amministrazioni.
Tale self-restraint delle Istituzioni UE rispetto al pubblico impiego è stato concepito in modo molto rigoroso.
Pertanto, per quel che riguarda il nostro Paese, è sempre stata pacifica l’attribuzione alla competenza del legislatore nazionale della regolazione del rapporto di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni, sulla base dell’art. 97 Cost., ivi compreso l’accesso attraverso il pubblico concorso.
In questo quadro, peraltro, per effetto della giurisprudenza della CGUE si sono aperti alcuni “varchi” in favore della normativa UE, ma solo con riferimento ad talune specifiche situazioni − tuttora non del tutto risolte in ambito nazionale – come quella dei criteri e dell’ambito di applicazione, ai rapporti di pubblico impiego, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.
Da ultimo va considerato che, in base all’art. 126 del TFUE, (ex art. 104 del TCE) “gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi” e che a partire dall’approvazione del cd. Fiscal Compact (Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione Economica e Monetaria), ci siamo impegnati a rispettare dei precisi limiti della spesa pubblica.
Tutto questo per le Regioni e gli enti locali ha portato all’applicazione in un primo momento del patto di stabilità interno e quindi, dal 2016, alla regola contabile dell’equilibrio di bilancio.

5.11.- Investire nel capitale umano.

Tutte le indicate ragioni portano a ritenere che il problema dell’orario di lavoro dei dirigenti del SSN non possa essere risolto in sede giudiziaria, tanto più che ormai il relativo quadro normativo e giurisprudenziale è piuttosto definito, a partire dalla giurisprudenza della Corte di cassazione che da più di dieci anni esprime sempre gli stessi orientamenti, rispettosi di quelli della CGUE.
Questo non significa che non sia ormai non più procrastinabile la soluzione del problema, nelle sedi appropriate.

Per raggiungere finalmente questo obiettivo sarebbe bene muovere dalla premessa secondo cui tutte le Pubbliche Amministrazioni ‒ e, a maggior ragione, le Aziende sanitarie che amministrano la salute delle persone ‒ sono complessi organizzativi all’interno dei quali il capitale umano risulta uno dei principali fattori produttivi.
Poiché il tempo è la nostra maggiore ricchezza è evidente che per la migliore “resa” del suddetto capitale sia necessario definire gli orari di lavoro del personale, a partire da quello dei dirigenti, che hanno un ruolo organizzativo.
Come si è detto, la definizione dell’orario di lavoro dei lavoratori subordinati risponde, in primo luogo, alla tutela della loro salute, da intendere nella sua duplice dimensione individuale e collettiva.
Ovviamente la salvaguardia della salute degli operatori – e, in particolare dei dirigenti ‒ attraverso la individuazione dell’orario di lavoro assume nel settore sanitario un’importanza strategica ben superiore all’interesse particolare di una categoria professionale, in quanto influisce anche sulla sicurezza delle cure e quindi della salute dei cittadini.
È altrettanto chiaro che la specificità della prestazione lavorativa dei dirigenti sanitari rende particolarmente difficile ‒ soprattutto per i medici ‒ coniugare il principio di autogestione dell’attività lavorativa proprio dell’area dirigenziale con la predisposizione di rigidi schemi di attività ed orari predeterminati.
Un altro fattore di complicazione è rappresentato poi dall’esercizio della libera professione, visto che l’attività intramuraria è caratterizzata dalla piena autonomia della prestazione e del prestatore. Del resto, l’art. 15-quinques del d.lgs. n. 502 del 1992 precisa che la libera professione è effettuata dal dirigente “al di fuori dell’impegno di servizio”.
Né va omesso di ricordare che, da rilevazioni statistiche, risulta che la stragrande maggioranza dei medici non è disposta a ridurre autonomamente il proprio impegno lavorativo.
In tutto questo le questioni più complesse da risolvere sono note a tutti da tempo e riguardano principalmente: a) la previsione della durata minima del riposo giornaliero, finalizzata al recupero delle energie psico-fisiche tra un turno e l’altro di lavoro; b) la previsione di un riposo minimo settimanale; c) quella della durata massima della prestazione lavorativa quotidiana e settimanale, diretta ad evitare per il prestatore un carico di lavoro continuativo eccessivo, che almeno nel lungo periodo potrebbe incidere negativamente sul riposo giornaliero e/o settimanale; d) “i regimi di reperibilità” o, più precisamente, di “pronta disponibilità”, attiva e passiva; e) la necessaria consecutività o meno della fruizione delle ore di riposo giornaliero come determinate dalla normativa legislativa e contrattuale.
Ebbene, dato che il quadro delle questioni è chiaro, per trovarvi soluzione è necessario operare scelte adeguate ‒ e lungimiranti ‒ che dovrebbero porre in primo piano le condizioni di vita e di lavoro degli infermieri e dei medici dipendenti delle Aziende sanitarie ( considerando che possono crearsi delle situazioni nelle quali si arriva addirittura a morire a causa dei massacranti turni di lavoro vedi: Cass. 8 giugno 2017, n. 14313).
Dati gli interessi in gioco il problema delle dalle risorse economiche da impegnare ‒ al quale si tende a dare un ruolo primario ‒ dovrebbe essere considerato solo in chiave strumentale e comunque considerando che dalle suddette risorse bisognerebbe comunque sottrarre i costi umani e materiali originati dall’attuale situazione che tra disservizi, contenziosi etc. non sono certo irrilevanti.
Questo significa che la soluzione del problema dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari comporti un ripensamento del nostro SSN nell’ottica di privilegiare la sicurezza delle cure erogate, che inevitabilmente si collega ad evitare che i dirigenti sanitari ‒ a partire dai medici ‒ soffrano la deprivazione del sonno, a causa dell’eccessiva dilatazione dell’orario di lavoro.
Perché queste situazioni non solo determinano per il singolo un esponenziale aumento di patologie di vario genere spesso derivanti dall’esposizione ai rischi psico-sociali, ma gravano su tutta la collettività.
Dati i fondamentali diritti cui l’auspicata soluzione risponde credo che gli interessanti siano tenuti a collaborare perché la soluzione stessa possa avere successo.
Questa forma di collaborazione ‒ che rientra a pieno titolo tra i compiti dei dirigenti ‒ a mio avviso dovrebbe, ad esempio, comportare che:
a) si crei all’interno delle diverse strutture un clima di collaborazione tale da evitare che la definizione dell’orario di lavoro dei dirigenti incida negativamente sulla stabilità e continuità della terapia (nel senso che, per esempio, ad ogni cambio di turno, il medico subentrante apporti continue correzioni della terapia, anche marginali, che possano incidere profondamente sul decorso e sugli esiti della patologia);
b) benché l’attività intramuraria non sia conteggiata nell’orario di lavoro subordinato, tuttavia si dovrebbe evitare, con opportune disposizioni organizzative, che il dirigente medico che viene obbligatoriamente posto in periodo di riposo svolga, dopo il turno di servizio, un’attività identica a quella istituzionale senza limiti di orario e quindi di stanchezza.
Ovviamente, in molti casi, saranno anche necessarie nuove assunzioni ‒ e su questo fronte qualcosa si sta facendo ‒ ma è evidente che le nuove assunzioni non possono dirsi, di per sé, risolutive se non sono accompagnate da un’incisiva modifica organizzativa e di comportamento degli operatori favorita da condizioni di vita e di lavoro conformi a quelle che la CGUE, anche nella sentenza in commento, considera essenziali per tutti i lavoratori subordinati.

6.- Conclusioni.

In sintesi, nella sentenza 14 maggio 2019, causa C-55/18 la Grande Sezione della Corte di Giustizia UE è tornata sul tema del diritto di ogni lavoratore a una chiara delimitazione della durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale con i conseguenti periodi di riposo, attribuendo a tale diritto la duplice configurazione di diritto individuale sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e di garanzia prevista dal diritto sociale dell’Unione.
Di conseguenza la CGUE, nell’indicare gli strumenti a disposizione del giudice nazionale in materia, ha ribadito il rilievo centrale dell’interpretazione conforme al diritto UE e tracciato la strada per disapplicazione della normativa nazionale contraria al diritto UE, strada desumibile dalla sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nella causa C-684/16 in materia di diritto alle ferie retribuite e dalle altre coeve, per analogia di impianto motivazionale e per i numerosi richiami a dette sentenze contenuti in quella in oggetto.

La Corte, peraltro, come di consueto ha fatto salvo l’art. 17, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, che consente agli Stati membri, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di derogare, segnatamente, agli artt. da 3 a 6 di tale direttiva, quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle particolari caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi.

Uno dei regimi derogatori più importanti nel nostro Paese è quello che riguarda i dirigenti del SSN.

Nel settore dell’area medica e sanitaria si è fatto uso delle deroghe, originariamente previste nell’art. 17, comma 6-bis, del d.lgs. n. 66 del 2003 e nell’art. 41, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008 convertito dalla legge n. 133 del 2008. La legge permetteva di non applicare la regola delle 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore e consentiva di superare le 48 ore settimanali di lavoro, attribuendo alla contrattazione collettiva il compito di definire le modalità atte a garantire ai dirigenti dell’area sanitaria protezione adeguata e il recupero delle energie psicofisiche. Nel 2012 la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione a carico della Repubblica italiana (n. 2011/4185) per l’esclusione del personale medico dai diritti previsti dalla direttiva 2003/88, avendo l’Italia utilizzato la facoltà di deroga alla regola del riposo continuativo di 11 ore consentita dalla direttiva all’art. 17, comma 1, considerando tutti i medici dell’area sanitaria come dirigenti, cioè come personale cioè dotato di potere di decisione autonomo per godere di una delle facoltà di eccezione concesse dalla direttiva. Di conseguenza per effetto della procedura europea la norma che applicava nel diritto interno l’eccezione al principio del riposo continuativo pari a 11 ore ogni 24 per l’area medica è stata abrogata e sono state caducate le disposizioni dei contratti collettivi che regolavo il riposo giornaliero a fare data dal 25 novembre 2015 (art. 14, comma 1, legge n. 161 del 2014).

La contrattazione collettiva non si è più adeguata ‒ almeno fino all’ultimo CCNL di Comparto ‒ e nel frattempo si sono avute numerose pronunce della CGUE in materia.

Tra queste si può ricordare la sentenza della Quinta Sezione 21 febbraio 2018, causa C-518/15 ove è stato affermato che “le ore di guardia che un lavoratore trascorre al proprio domicilio con l’obbligo di rispondere alle convocazioni del suo datore di lavoro entro 8 minuti, obbligo che limita molto fortemente le possibilità di svolgere altre attività, devono essere considerate come «orario di lavoro»”, sicché è necessaria una verifica caso per caso del tempo concesso al lavoratore per l’intervento ai fini della valutazione della sua posizione di “attesa” come “orario di lavoro” o meno, non essendo quindi in via generale escluso il computo come tale (orario di lavoro) anche una condizione di attesa della chiamata al di fuori del luogo di lavoro.

è centrale per la qualità della risposta del SSN e per fare sì che tale risposta sia conforme al principio di uguaglianza nell’ambito del territorio nazionale.

 

Nei lunghi anni in cui, in sede nazionale ed UE, è stata presa la questione della determinazione dell’orario di lavoro dei dirigenti sanitari non si è riusciti a darvi una risposta conforme ai principi fondamentali in materia, a partire dal principio di uguaglianza nell’ambito del territorio nazionale.
Probabilmente la causa principale di questa situazione è rappresentata dalle “ragioni di bilancio”, ma in quest’ottica forse non sono stati valutati i costi umani e economici elevatissimi che tale impostazione ha prodotto ‒ per i dipendenti e per gli utenti ‒ oltretutto in un Comparto come quello della Sanità nel quale l’uso e l’abuso dei contratti a termine e flessibili in genere con il conseguente precariato ha raggiunto punte stratosferiche, soprattutto per i medici.
Eppure la preparazione dei nostri giovani medici è, mediamente, molto elevata, tanto che spesso sono contesi dalle strutture sanitarie straniere, specialmente dei Paesi UE e il loro “emigrare” corrisponde ad un ulteriore “costo” sia per la reputazione del nostro Paese sia dal punto di vista economico, perché vuol dire che non siamo in grado di mettere a frutto il “capitale umano” che le nostre Università hanno formato così bene, con i conseguenti investimenti.
Comunque, grazie all’impegno di medici e personale sanitario il nostro Servizio Sanitario Nazionale è tuttora uno dei migliori del mondo.
Per mantenerlo in efficienza e, laddove serve, migliorarlo la soluzione della questione dell’orario di lavoro dei dirigenti, come si è detto, è strategica e non dipende solo da aspetti retributivi (che pure hanno il loro peso).
Infatti, questa soluzione comporta un incisivo cambiamento di rotta che porti a puntare realmente sul “capitale umano”, come ci suggeriscono la UE e l’OIL, in atti validi anche per il nostro Paese.
Si tratta di impegnarsi per la salvaguardia dei diritti umani e fondamentali, sia dei dipendenti sia dei pazienti, del resto non va dimenticato che l’art. 4, comma secondo, della Costituzione italiana, stabilisce che: “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Inoltre, poiché la garanzia della salute e del lavoro dignitoso sono alla base del nostro Stato democratico in ultima analisi risolvere l’anzidetto problema ‒ e, quindi, investire nel SSN, non solo finanziariamente, ma anche in termini organizzativi ‒ significa far vivere la democrazia.
E al riguardo non va dimenticato che secondo Piero Calamandrei: «Per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica, ma occorre dietro di esse la vigile e operosa presenza del costume democratico, che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà» .
Ebbene, se come diceva Albert Einstein, dedicare le proprie energie e la propria vita ad un obiettivo dà la felicità, può essere importante che coloro cui competono le relative scelte dedichino le proprie energie all’obiettivo di chiudere la questione orario di lavoro dei dirigenti sanitari perché si tratta di un importante tassello per migliorare la risposta del nostro SSN secondo il “costume democratico” delineato dal grande Calamandrei.
E così, al contempo, assicurare una maggiore conformità del nostro sistema ai principi affermati dalla Corte di Giustizia, anche nella sentenza in commento, in materia di diritto dei lavoratori ad un orario giornaliero e settimanale determinato.

 

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