TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa: qualche breve cenno su Facebook.
Il noto social network è nato in America nel 2003, inizialmente come servizio gratuito universitario, denominato «Facemash», per poi assumere l’attuale denominazione, che ha preso spunto da un elenco con nome e foto degli studenti che veniva distribuito all’inizio dell’anno accademico per aiutare gli iscritti a socializzare tra loro.
Il sito vero e proprio, fondato nel 2014 da Mark Zuckemberg con l’attuale denominazione (ora in via di modifica in «Meta») e da alcuni suoi amici, si è poi aperto agli studenti di altre università e, dal 2006 a tutti, estendendo nel mondo la sua presenza .
È possibile iscriversi gratuitamente, inserendo i propri dati personali e l’indirizzo mail e una foto (immagine del profilo) e indi creare un profilo personale che consente di interagire con altri utenti iscritti al network, scambiandosi foto e messaggi.
La popolarità di Facebook è cresciuta in modo esponenziale , facendo del network il social più noto al mondo . Allo stato risulta avere quasi tre miliardi di utenti attivi, che sono molti di più se si aggiungono gli utilizzatori di altri social (WhatsApp, Messenger, Instagram e altri) acquisiti nel corso degli anni dal gruppo. Va considerato, peraltro, che Facebook è vietato in molti paesi, tra i quali la Cina, che da sola ospita quasi il 20% della popolazione mondiale.
Il social ha una notevole importanza nel settore economico: gran parte delle aziende e degli operatori commerciali hanno un loro profilo, ormai essenziale per un buon posizionamento sul mercato. La piattaforma ha anche dovuto attraversare diversi scandali, legati soprattutto alla enorme quantità di dati acquisiti e poi ceduti a terzi o ad organizzazioni che ne hanno indebitamente fatto utilizzo .
La rilevanza di Facebook ha avuto un impatto notevole anche nella comunicazione e nella politica, consentendo scambi di idee e di messaggi, visibili in tempo reale in qualunque luogo del mondo .
È infatti possibile che ciascun utente, accettando l’amicizia di un altro iscritto, rimanga in contatto con lui e venga continuamente aggiornato sulle pubblicazioni fatte sul suo profilo.
La struttura del mezzo consente di pubblicare testi e messaggi in gran parte delle lingue mondiali (con possibilità anche di traduzione simultanea) sui quali la piattaforma ha dovuto iniziare ad esercitare un controllo, al fine di contenere la circolazione di messaggi offensivi, di violazione della privacy o di matrice politica sovversiva, terroristica o razzista, anche finalizzati al reclutamento.
Altro problema collaterale alle modalità di comunicazione della piattaforma sono la diffusione di notizie false (cd. fake news) che notevole rilevanza hanno avuto nell’epidemia da Covid-19 in corso .
Qui, per la rilevanza che vedremo, occorre ricordare che nel 2010 il social ha inserito nel programma la funzione “like” (ovvero “mi piace”, “condivido”) che ha contribuito non poco all’ulteriore successo della piattaforma. Cliccando sul relativo “bottone”, l’utente può manifestare il suo apprezzamento o condivisione ad un messaggio da altri postato sulla piattaforma, senza necessità di scrivere altro.
È chiaro che tale libertà di accesso e di azione crea non pochi problemi, posto che la messaggistica su Facebook, considerata la facilità di trasmissione dei contenuti, anche visivi, consente di rendere immediatamente pubblici eventi imbarazzanti e veicolare posizioni di dissenso normalmente consentite o tollerate nei paesi democratici ma pericolosi per il potere in regimi autoritari che non accettano alcuna forma di dissenso .
2. L’utilizzo di Facebook e riflessi nel rapporto di lavoro
Di questo contesto, appunto, tratta la sentenza della Cedu in commento nel particolare settore del rapporto di lavoro, soprattutto in quello pubblico: infatti, in tale settore, l’utilizzo di Facebook può spesso comportare criticità.
In linea di generale va detto che il contenuto di un post – e spesso anche di un semplice like – su Facebook può presentare aspetti offensivi o denigratori nei confronti del datore di lavoro, con conseguente reazione di quest’ultimo che può anche portare anche alla risoluzione del rapporto.
Nel nostro paese la Corte di cassazione ha avuto modo di pronunciarsi varie volte, sempre in relazione a provvedimenti datoriali adottati a fronte di pubblicazioni avvenute sulla piattaforma da parte del lavoratore .
Nel 2015, con la sentenza 20145 del 13 ottobre 2015, la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica che aveva postato su Facebook dati aziendali e di un cliente, così ledendo il rapporto di riservatezza cui è tenuto il prestatore di lavoro.
Nel 2017, con la pronuncia 2449 del 31 gennaio 2017, ha invece considerato corretta la valutazione di inidoneità a giustificare il recesso un post del lavoratore che aveva pubblicato un collage di immagini graffianti, ma ironiche nei confronti dell’impresa operante nel settore della moda.
Negli anni successivi, con la sentenza 10280 del 27 aprile 2018. ha confermato il licenziamento di un lavoratore che aveva pubblicato un post contenente espressioni di disprezzo nei confronti dell’azienda il cui contenuto diffamatorio e oltraggioso era facilmente riconducibile alla persona dell’imprenditore, sottolineandone la idoneità in ragione della pubblicazione visibile da un vasto pubblico.
Viceversa, è stato dichiarato ingiustificato il recesso operato da un sindacalista che, nel gruppo chiuso della sua organizzazione, aveva postato forti critiche nei confronti dei dirigenti aziendali utilizzando anche espressioni colorite. Nel caso specifico la Corte valorizza la ristrettezza del numero di destinatari, già determinata dall’iscrizione nel gruppo, che fa ritenere assimilabile il post in questione alla corrispondenza privata, tutelata e considerata inviolabile dalla Costituzione (il post era poi stato reso pubblico da un collega all’insaputa dell’interessato).
Come emerge dai brevi cenni fatti, il giudice di legittimità italiano è risultato molto attento, procedendo all’esame della fattispecie con una valutazione del fatto e della sua incidenza sul rapporto di fiducia, nonché delle modalità con le quali è avvenuta la pubblicazione sulla piattaforma, ponderando la le libertà fondamentali di espressione del lavoratore con l’interesse del datore alla sua privacy e al suo diritto all’immagine. Ciò in linea con i criteri, più volte affermati, in tema di giusta causa e giustificato motivo di recesso .
Più recentemente, poi, il Tribunale di Taranto ha trattato un caso simile a quello del quale, come vedremo, si è occupata la Cedu, ovvero l’apposizione di un like ad un post da altri caricato sul proprio profilo di Facebook, ritenuto offensivo nei confronti della politica ambientale dell’azienda. Anche in questo caso, l’attenzione del giudice è stata posta alle modalità con le quali è avvenuta la condivisione e all’effettivo contenuto del post condiviso, per giungere ad annullare il licenziamento .
3. brevi cenni sulla Cedu
Poiché è di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che si parla, è bene ricordare brevemente che questa è stata istituita nel 1959 per previsione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà personali , siglata nel 1950.
Di tale convenzione e dei numerosi protocolli che l’hanno integrata negli anni, la Corte cura l’applicazione nei 57 stati aderenti al Consiglio d’Europa , organismo fondato il 5 maggio 1949 con il Trattato di Londra, con il fine di superare, dopo lo shock del secondo conflitto mondiale, i dissidi che da sempre hanno anche dato luogo a guerre tra le varie nazioni del vecchio continente.
La Corte è un organo giurisdizionale che controlla l’applicazione della Convenzione e si pronuncia sulle sue violazioni ad istanza di ciascuno degli stati aderenti o di singoli, anche cittadini di stati non aderenti alla convenzione ma che si trovino al loro interno: la Convenzione, infatti, tutela tutti coloro che si trovano nel territorio degli stati aderenti.
Gli Stati firmatari della Convenzione si sono impegnati a dare esecuzione alle decisioni della Corte europea . Il controllo sull'adempimento di tale obbligo è rimesso al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa .
Il criterio che guida la sua attività è sintetizzabile nella tutela dei diritti dell'uomo, della democrazia parlamentare e garanzia del primato del diritto.
La Corte, formata di tanti giudici quanti sono gli stati firmatari della convenzione accerta, con sentenza vincolante per tutti gli stati, la violazione del caso specifico sottoposto alla sua attenzione .
Alla Corte è possibile ricorrere secondo il principio della sussidiarietà, ovvero all’avvenuto esaurimento delle vie giurisdizionali interne.
Il protocollo n. 16 del 3 ottobre 2013, ad oggi entrato in vigore per 15 stati, ma non ancora ratificato dall’Italia , prevede ora la possibilità di interrogare preventivamente la Corte di Strasburgo, prevedendo che le Corti supreme di uno Stato parte della Convenzione europea possano, nel corso del giudizio avanti a loro pendente, chiedere alla Grande Camera un parere sull’interpretazione o sull’applicazione di una norma CEDU e dei suoi protocolli addizionali, sospendendo il procedimento interno in attesa della decisione della Corte Edu .
4. La giustizia in Turchia.
Per avere un quadro completo del contesto prima di passare all’esame della decisione in commento, è indispensabile spendere ancora qualche parola sulla struttura giurisdizionale della Turchia, che è ben diversa da quella vigente nella gran parte degli Stati aderenti all’Unione europea, condizionata da una struttura fortemente autoritaria del paese che si è accentuata dal 2003 ad oggi.
Il giudice è da sempre dipendente dal potere esecutivo (che coincide con quello politico al potere), basti considerare che i membri della Corte costituzionale sono nominati dal governo, circostanza palesemente contrastante con il principio della divisione dei poteri.
Per un quadro complessivo della difficile situazione della giustizia in Turchia, si rinvia ai numerosi interventi e testimonianze meritoriamente pubblicati da Questione giustizia sul punto .
Dalle ricordate narrazioni si evince che, dopo le strette autoritarie operate nel 2013 in connessione alle rivolte popolari originate dai fatti del parco Gezi e di un’inchiesta della magistratura che aveva visto l’incarcerazione di familiari degli esponenti governativi, cui fece seguito il trasferimento forzoso di decine di magistrati nella periferia della Turchia , la situazione, per la magistratura, è gravemente degenerata.
Dopo il fallito golpe del 2016, l’attuale regime stringe il cappio intorno alla magistratura, da sempre considerata contraria alle svolte autoritarie del governo. Oltre 2.700 magistrati vengono inseriti in una lista di proscrizione, tra essi due membri della Corte costituzionale, cinque del Consiglio superiore della magistratura turco, molti della Cassazione e migliaia di giudici di tribunale.
Nell’arco di pochi mesi, un terzo della magistratura (4.500) viene epurato e il governo ha proceduto successivamente alla nomina di circa 10.000 nuovi giudici con procedure opache controllate dal potere centrale .
Evidente, quindi, come la situazione della magistratura turca presenti aspetti che definire drammatici è certamente un eufemismo.
Ad aggravare lo stato di dissoluzione del rule of law in Turchia ha purtroppo contribuito anche la Cedu la quale, come è stato rilevato , ha sinora deciso solo due ricorsi che riguardavano un membro della Corte costituzionale e un giudice istruttore (accusati di far parte di un gruppo terroristico), rilevando la violazione dell’art. 5 della Convenzione .
La Corte risulta avere messo in istruttoria nel 2020 le denunce di soli 1.000 dei 2.500 giudici epurati nel 2016 che hanno fatto ricorso .
5. I fatti di causa
Viceversa, la sentenza in commento risulta essere stata resa nel procedimento 35786/2019, dunque con una celerità inusuale rispetto ai tempi ordinari della Corte EDU.
Vediamo brevemente i fatti. La signora Selma Melike era una dipendente con mansioni di addetta alle pulizie presso la direzione nazionale dell’istruzione di Seyan a Adana.
Nel periodo tra il 29 novembre 2015 e il 10 marzo 2016 aveva apposto un like su alcuni messaggi pubblicati su Facebook del seguente tenore:
«i giornalisti vengono arrestati, il popolo curdo viene massacrato, coloro che... vogliono marciare per la giustizia vengono arrestati. Ma (...) questo non basta per fascismo! Gli assassini attaccano per le strade come se lo fossero scatenato] ... Oggi hanno ucciso il presidente di un bar, il presidente dell'Ordine degli Avvocati di Diyarbakır, T.E. Anche se uccidi, anche se metti in detenzione, non ci arrenderemo, non staremo zitti, non lo faremo non si arrenderà. Le strade [e] le piazze sono nostre. I martiri sono immortali; Nonostante le abbondanti nevicate, la gente cammina verso Sur. Se non c'è nient'altro che puoi fare, condividi, supporta» (aveva inoltre apprezzato, sempre con un like un'immagine di una folla che cammina, su cui era scritto) «È opportuno condividere questo onorevole atteggiamento»; «Durante il CHP (Party repubblicano popolare, principale partito politico di opposizione), bambini avrebbero bevuto birra... Ai tempi dell'AKP (Justice Party e sviluppo, partito politico al potere), professori e imam hanno violentato i loro studenti…»; (inoltre, su una foto di C.A.H, leader di un noto gruppo religioso pubblico che riportava una sua citazione del seguente tenore : “se le donne non fossero esistite, gli uomini sarebbero andati in paradiso più facilmente”, aveva condiviso la scritta) «Sporco ragazzo ti ha partorito un mulo, bigotto da lavaggio del cervello. Se solo tu non avessi avuto una madre non saresti venuto al mondo» .
Con l’approvazione della Prefettura di Adana del 26 marzo 2016, la Commissione disciplinare per i dipendenti dell’educazione nazionale della provincia di Adana, apriva un procedimento disciplinare nei confronti della lavoratrice.
La Commissione, composta da quattro membri, il Vicedirettore della Direzione provinciale dell'educazione nazionale (presidente della commissione), un ispettore della direzione provinciale dell'istruzione nazionale, e due funzionari sindacali che rappresentano i dipendenti dell'istruzione nazionale, adottavano la sanzione del licenziamento con il voto decisivo del presidente (i rappresentanti sindacali hanno votato contro e rappresentanti del datore di lavoro a favore) .
La sanzione veniva giustificata con il motivo che «i fatti addebitati al ricorrente costituivano i reati di "commettere atti e atti contenenti violenza fisica, molestie sessuali e minaccia di in alcun modo" e "per disturbare la pace, la tranquillità e l'ordine del posto di lavoro per scopi ideologici e politici, fare a boicottaggio o occupazione, mettendo in atto comportamenti volti a prevenire condotta di servizi pubblici e provocare e incoraggiare tali atti”, previsto rispettivamente ai paragrafi j e k dell'articolo 44/II/C della Convenzione of lavoro collettivo, in vigore nel luogo di lavoro del richiedente presso il momento dei fatti» (par. 7 sentenza).
6. L’iter processuale nazionale
Il 22 settembre 2016 la lavoratrice presentava ricorso al Tribunale del lavoro di Adana, chiedendo la sua reintegra nel posto di lavoro, sostenendo che il contenuto controverso dei messaggi ai quali aveva apposto il suo like non giustificavano il suo licenziamento e che non ricorreva l’ipotesi risoluzione del rapporto richiesta dall’art. 44/II/C del contratto collettivo di lavoro applicabile .
Il Tribunale del lavoro rigettava la sua richiesta. Pur avendo ritenuto che i fatti non avessero costituito violenza fisica, molestie sessuali o minacce, valutava che i contenuti condivisi dalla signora Melike «non potessero essere considerati coperti dalla libertà di espressione, tenendo conto dello stabilimento in cui ha lavorato il richiedente, il contenuto relativo agli insegnanti era offensivo per loro e poteva essere visto dagli studenti e genitori e li preoccupano, che l'altro contenuto fosse politico e che il contenuti in questione erano quindi suscettibili di disturbare la pace e tranquillità del posto di lavoro. Pertanto, conclude che la cessazione del contratto di lavoro del richiedente ai sensi dell'articolo 44/II/C/k del contratto collettivo di lavoro (…) ha rispettato procedura e la legge» (Par. 9).
La lavoratrice impugnava la sentenza sia in Corte di appello che in Corte di cassazione, sostenendo «che questi riferimenti "I love" non avevano creato problemi, nessun insegnante o genitore aveva indicato di essere stato offeso o ferito al riguardo e che il datore di lavoro avrebbe dovuto spiegare come i suoi commenti "I love" avessero disturbato la pace nel posto di lavoro. Inoltre, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte e Corte Costituzionale in materia di libertà di espressione, egli sosteneva che i suoi “mi piace” su Facebook dovrebbero essere considerati coperti dal suo diritto alla libertà di espressione» (par. 11).
Entrambe le corti superiori rigettavano le impugnazioni della signora Melike fossero «pertinenti e conformi alla legge quanto a procedura e sostanza» (la Corte di appello) e «in conformità con la procedura e la legge» (Cassazione).
La lavoratrice ricorreva allora alla Corte costituzionale turca ribadendo le sue ragioni. Il 5 aprile 2019 la Corte dichiarava inammissibile il ricorso «per manifesta infondatezza considerando che la ricorrente non aveva adempiuto al suo obbligo di presentare prove e spiegazioni a sostegno delle sue accuse di violazione, che, pertanto, sono rimaste, ad avviso della Corte, infondate» (par. 14).
Nel frattempo, il 23 gennaio 2019, la lavoratrice presentava al Tribunale del lavoro un nuovo ricorso finalizzato a vedersi riconoscere l’indennità di anzianità e il preavviso contrattuale.
Il Tribunale ha rigettato anche questa richiesta osservando che «un dipendente non ha diritto al premio di anzianità e indennità di preavviso in caso di risoluzione del contratto di lavoro per giusta causa, e ha ritenuto che le azioni della ricorrente che hanno portato al suo licenziamento non fossero coperti dalla libertà di espressione, che avrebbero potuto ferire e offendere il personale del suo stabilimento e l'onorabilità della professione di insegnante, per creare ansia tra studenti e genitori e, in vista di al loro contenuto politico, per provocare dissensi e perturbare la pace e tranquillità sul posto di lavoro» (par. 16).
Il procedimento di appello promosso dalla lavoratrice risultava ancora in corso al momento della decisione della Corte europea.
7. La sentenza della Corte di Strasburgo del 15.06.21.
La signora Melike adiva allora la Corte di Strasburgo, denunciando la violazione dell’art. 10 della Convenzione che prevede: «1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».
Nel procedimento interviene anche l’İfade Özgürlüğü Derneği (Associazione di libertà di espressione ), che il presidente della sezione aveva autorizzato a agire in qualità di terzo (Articolo 36 § 2 della Convenzione e Articolo 44 § 2 del Regolamento della Corte)
Il ricorso viene innanzi tutto dichiarato ammissibile, disattendendo l’eccezione del governo turco sul mancato esaurimento delle vie giudiziarie nazionali ed accogliendo il rilievo della parte istante secondo la quale il procedimento ancora in corso, relativo alle sole competenze di fine rapporto, non riguardasse le ragioni del suo licenziamento, ormai decise in via definitiva dalla Corte costituzionale.
Parimenti inammissibile viene considerata la seconda eccezione di manifesta infondatezza del ricorso, non costituendo la Corte EDU, ad avviso del governo nazionale, un quarto grado di giudizio, poiché l’esame della violazione dell’art. 10 della convenzione attiene necessariamente al merito della questione .
L'associazione İfade Özgürlüğü Derneği, oltre a ribadire che l’apposizione di like su Facebook consente agli utenti di mostrare apprezzamento e supporto per il contenuto e che si tratta di una manifestazione di pensiero attraverso atti simbolici, ha presentato alla Corte statistiche diverse organizzazioni non governative che confermano come la libertà di espressione non sia un caso isolato che ha riguardato la sola signora Melike, ma costituisca un indicatore del «deterioramento del rispetto della libertà espressione e repressione delle voci dissenzienti nel Paese, nella in quanto dimostra, ai suoi occhi, che ogni atteggiamento critico rischia di essere severamente sanzionato dalle autorità turche».
Venendo quindi al merito, la Corte procede rilevando che la dipendente risulta sì essere stata una lavoratrice impiegata nel Ministero dell’Istruzione ma il suo rapporto non era quello di dipendente pubblico, e quindi sottoposto ad uno speciale vincolo di lealtà nei confronti della propria amministrazione che si presume svolga un’attività nell’interesse della collettività.
La signora Melike operava in un rapporto di lavoro disciplinato dalle regole del diritto comune del lavoro e quindi con un vincolo di riservatezza e discrezione del tutto diverso a quello richiesto a funzionari impegnati in un ruolo pubblico.
Ed infatti, osserva la Corte, del suo caso si erano occupati dapprima la Commissione disciplinare regolata dal contratto collettivo comune e indi i Tribunali ordinari del lavoro e non i giudici amministrativi, competenti nelle controversie dei dipendenti pubblici.
Del resto, i messaggi ai quali aveva mostrato il suo apprezzamento con i like contestati, non avevano neppure attinenza alcuna con i compiti ad essa affidati e, di conseguenza, ai doveri che le competevano.
Inoltre, sottolinea la Corte (par. 39), la tutela di cui all’art. 10 della Convenzione si estende alla sfera professionale in generale e che questa disposizione si applica non solo nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore quando ineriscono al diritto pubblico ma può anche applicarsi quando queste relazioni rientrano, come nel caso di specie, nel diritto privato .
Infatti, l'esercizio reale ed effettivo della libertà espressione non dipende semplicemente dal dovere dello Stato di astenersi da ogni interferenza, ma può richiedere misure di protezione positive fino a quando nei rapporti degli individui tra loro e, in alcuni casi, lo Stato ha l'obbligo positivo di tutelare il diritto alla libertà di espressione, anche contro gli attacchi di privati .
Quindi (par. 40) la Corte osserva che «anche se, nel caso di specie, il licenziamento della ricorrente fosse deciso in conformità al contratto collettivo di lavoro applicabile al lavoro della persona interessata al momento dei fatti, la responsabilità delle autorità le autorità nazionali sarebbero comunque impegnate se i fatti denunciati fossero il risultato di una omissione da parte loro di garantire al richiedente il godimento del diritto sancito dall'articolo 10 della Convenzione. In tali circostanze, la Corte ritiene che il presente ricorso debba essere esaminato dal punto di vista di obblighi positivi che incombono allo Stato convenuto in materia di» tutela della libertà di espressione.
E anche se il confine tra obblighi dello stato di attivarsi e obblighi di astenersi nei confronti delle prescrizioni dettate dalla Convenzione non si presta a una definizione precisa, i principi applicabili sono comunque comparabili: in entrambi i casi andava tenuto in debito conto un giusto equilibrio tra l’interesse generale e quello del singolo, pur godendo lo stato di un certo margine di apprezzamento (par. 41).
Nel caso di specie la questione principale, osserva la Corte, è se lo stato aveva l’obbligo di garantire il rispetto della libertà di espressione della ricorrente, annullando il suo licenziamento. «La Corte ha quindi il compito di determinare, nel caso di specie, se la sanzione inflitta al ricorrente da suo datore di lavoro fosse proporzionato allo scopo legittimo perseguito e se le ragioni invocato dalle autorità nazionali per giustificarlo fosse "rilevante e sufficiente”» (par. 42).
La Corte prosegue ricordando che il rapporto di lavoro, «per poter prosperare» deve basato sulla reciproca fiducia, ma ciò non significa né un dovere di «assoluta lealtà» del lavoratore nei confronti del datore di lavoro né «un obbligo di riserva che comporti un suo assoggettamento agli interessi economici dell’imprenditore», ancorché alcune manifestazioni del diritto di libertà di espressione, legittime in altri contesti, «non lo sono nel quadro di un rapporto di lavoro» (par. 43).
Premessi in generale questi principi, la Corte passa ad esaminare la fattispecie (Par. da 44 a 54), osservando come l’apposizione di un like sui social costituisca «in quanto tale, una forma di esercizio comune e popolare libertà di espressione online».
Il Tribunale del lavoro, in primo grado, aveva invece ritenuto che i contenuti «apprezzati» dalla signora Melike costituissero un turbamento della tranquillità del posto di lavoro, poiché i contenuti erano di politica generale. Il Tribunale aveva quindi confermato la decisione della Commissione disciplinare secondo cui l’atto compito dalla ricorrente costituiva «il reato di "disturbo della quiete, della tranquillità e l'ordine del posto di lavoro per scopi ideologici e politici, fare boicottaggio o occupazione, mettendo in atto comportamenti volti a ostacolare lo svolgimento di servizi pubblici e a provocare e incoraggiare tali atti”».
La Corte di appello e la Cassazione hanno confermato tale decisione senza fornire adeguata motivazione e la Corte costituzionale aveva censurato il fatto che la ricorrente «non avesse motivato la sua affermazione di violazione del suo diritto alla libertà di espressione per motivo del suo licenziamento, senza fornire ulteriori dettagli al riguardo”.
La corte EDU rileva che le giurisdizioni nazionali non avevano proceduto ad un esame sufficientemente approfondito del contenuto delle dichiarazioni condivise dalla lavoratrice, che si erano concretizzate nell’apprezzamento di critiche violente nei confronti del potere politico, nell’invito a protestare contro le repressioni in manifestazioni di indignazione per assassini e abusi nei confronti di studenti e critiche circa dichiarazioni sessiste di esponenti religiosi.
Tanto premesso la Corte rileva che tali dichiarazioni rientrano pienamente nell’ambito di dibattiti di interesse generale e che la questione di causa si inserisce in questo contesto e che »l’art. 10, § 2, della Convenzione lascia poco spazio a restrizioni alla libertà di espressione in due aree: quella di parola politica e questioni di interesse generale (… ) lasciando un elevato livello di tutela della libertà di espressione, che va di pari passo con il margine di discrezionalità delle autorità particolarmente ristretto, quando i commenti riguardano un argomento di interesse generale».
Il ricorrere di una certa ostilità nell’esposizione e l’eventuale gravità che possono caratterizzare alcuni giudizi pubblicati, non fa venir meno il diritto alla protezione rafforzata quando è in gioco l’interesse generale .
La ricorrente inoltre non era un funzionario pubblico legato da un rapporto di particolare fiducia ma un dipendente con rapporto di lavoro privato al quale non è possibile chiedere obblighi di lealtà e riservatezza riservati al personale pubblico .
La Corte sottolinea poi la portata innovativa dei nuovi social ed i benefici conseguenti alla possibilità di veicolare in tempo reale scambi di opinioni che rafforzano la libertà di espressione .
In tal senso, «internet è ormai diventato uno dei principali mezzi per esercitare la libertà di espressione in quanto fornisce strumenti essenziale per la partecipazione ad attività e discussioni riguardanti questioni politiche e dibattiti di interesse generale », ancorché i vantaggi convivano con i rischi di propagande illecite, diffamatorie odiose o che invitano alla violenza che possono essere diffuse in tutto il monto istantaneamente e restino in linea per molto tempo.
In questa complessa situazione occorre valutare anche, in punto di fatto, se la dichiarazione pubblicata riguardi invece un pubblico ristretto e il numero di visitatori che la condivisione ha avuto .
In proposito la Corte rileva che i giudici interni non hanno dimostrato con sufficiente analisi e chiarezza quale fosse stato l’atto idoneo a perturbare la quiete e la tranquillità sul posto di lavoro, tanto più che la lavoratrice in questione non era l’autrice dei contenuti ma il soggetto che si era limitato ad apporre il suo like ai messaggi e i due comportamenti non possono esser messi sullo stesso piano, poiché la mera condivisione non può essere equiparata alla volontaria creazione del messaggio ed alla sua diffusione.
La ricorrente poi non risultava avere avuto particolare notorietà o rappresentatività nel suo luogo di lavoro, caratteristiche che avrebbero avuto un impatto significativo sugli studenti ed i loro genitori.
Nessun accenno, infine, a denunce che fossero pervenute da genitori, studenti o professori nel periodo (sei mesi) tra l’apposizione del like e l’apertura del provvedimento disciplinare.
La Corte, valutate tutte le circostanze e le particolarità del caso conclude quindi, tenuto anche conto dell’età della lavoratrice, che la sanzione adottata sia manifestamente sproporzionata.
Ne consegue che i giudici nazionali non hanno applicato regole coerenti con i principi sanciti dall’art. 10 della Convenzione e non hanno effettuato una valutazione ragionevole rispetto ai fatti oggetto della causa .
Senza contare la plateale violazione dei principi di proporzionalità tra i diritti del singolo e lo scopo perseguito dalle autorità nazionali.
8. Conclusioni
Come si vede, il ragionamento della Corte EDU si svolge secondo criteri non dissimili da quelli adottati dalla Corte di cassazione italiana e dal Tribunale di Taranto, sopra citati.
In una situazione nella quale il bilanciamento degli interessi delle parti, nella specie il fondamentale diritto alla libera espressione del singolo e l’interesse dello Stato al controllo di possibili attività contrarie alla sicurezza, all’ordine pubblico e all’onorabilità altrui vengono in conflitto, il compito del giudice è particolarmente delicato e va condotto sulla base di un attento esame dei fatti.
Ciò non pare essere stato fatto dalla giurisdizione turca che, anzi, ha dimostrato un atteggiamento chino agli interessi del potere autoritario esercitato dal governo nazionale in carica.
La Corte non ha ritenuto di sottolinearlo, ma il provvedimento disciplinare è stato iniziato con l’«approbation» della prefettura di Adana (cui evidentemente si erano rivolti i dirigenti della sede locale del Ministero datore di lavoro o dalla quale erano stati avvertiti), così rendendo palese che il provvedimento aveva ben poca connessione con una mancanza o una ragione oggettiva legata all’attività svolta dalla signora Melike che giustificasse la risoluzione del rapporto.
Sul comportamento successivo della magistratura cui si era rivolta la signora Melike, spiace dirlo, dal Tribunale alla Corte costituzionale, è meglio stendere un velo pietoso.
Su tale aspetto la Corte è ferma nella sua censura, avendo da sempre avuto un atteggiamento costante nel richiedere ai giudici l’obbligo di esercitare pienamente i poteri ed il ruolo che spetta loro nell’interesse dei diritti dei singoli in applicazione della Convenzione, ratificata dallo stato in cui operano.
Non è un caso che, proprio recentemente, la stessa Corte abbia censurato la Cassazione italiana per l’eccessivo formalismo nel dichiarare inammissibili i ricorsi dei ricorrenti alla luce dei criteri di redazione dei ricorsi per cassazione con la sentenza del 28.10.21 .
I casi sono, è ovvio, stellarmente differenti, ma sono anche indice dell’attenzione della Corte EDU ai diritti dei singoli e al compito della loro tutela da parte della magistratura, al di là della gravità e delle conseguenze del caso specifico.
Pronunce come questa sono per tutti una garanzia per la tutela dei diritti nelle società moderne e democratiche da parte del giudice.

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