Testo Integrale con note e bibliografia

Abstract
L’autrice prende spunto dalle due sentenze della Corte di Giustizia sulla legittimità del divieto del velo islamico sui luoghi di lavoro e si interroga sulla semantica del velo non integrale nella società occidentale. Infatti nel mondo contemporaneo solo per le donne il velo è simbolo visibile di appartenenza religiosa. Ma a fronte di altri segni esteriori religiosi o filosofici che si manifestano nel mondo del lavoro a seguito dei fenomeni migratori, non si rileva una analoga declinazione “al maschile” del dibattito che sta animando oggi la giurisprudenza. Attraverso suggestioni e richiami al velo femminile nella storia e nell’arte, si cercano le ragioni culturali del divieto di velo a scuola e negli uffici adottato da alcuni Stati Membri. E si riflette sulla posizione della Corte di Giustizia che legittima il divieto datoriale scegliendo, fra due soluzioni possibili, da una parte la tolleranza verso tutti i simboli di appartenenza religiosa o filosofica, dall’altra l’azzeramento di ogni simbologia, quest’ultima, con la conseguenza dello svelamento forzato delle donne musulmane. Ci si chiede se il principio di libertà religiosa non sarebbe stato più tutelato scegliendo la prima delle due soluzioni. Si rileva infine una insoddisfacente lettura in chiave “di genere” del tema, sotto il profilo della discriminazione indiretta.
The author is inspired by the two judgments of the Court of Justice on the legitimacy of the prohibition of the Islamic veil in the workplace and questions the semantics of the non-integral veil in Western society. In fact, in the contemporary world only for women, the veil is a visible symbol of religious belonging. But compared to other religious or philosophical exterior signs that manifest themselves in the world of work as a result of migratory phenomena, there is no similar "masculine" declination of the debate that is currently animating the jurisprudence. Through suggestions and references to the female veil in history and art, we look for the cultural reasons for the prohibition of veil in schools and offices adopted by some Member States. In this contest, we ponder about the position of the Court of Justice which legitimizes the prohibition of the employer choosing, between two possible solutions, on the one hand tolerance to all symbols of religious or philosophical belonging, on the other the elimination of each symbolism, the latter, with the consequence of the forced unveiling of Muslim women. We wonder if the principle of religious freedom would no longer be protected by choosing the first of the two solutions. In conclusion, we can observe an unsatisfactory "gender" intepretation of the subject in terms of indirect discrimination.

 

Le due recenti sentenze della Corte di Giustizia incentrate sulla legittimità del divieto del velo islamico sui luoghi di lavoro diventano occasione per una riflessione metagiuridica, per così dire per “immagini”. Partiamo dalla considerazione che nelle nostre società multiculturali il corpo delle donne e il tema della relazione fra i generi è un vero e proprio crocevia di conflitti culturali e politici, prima ancora che giuridici. Una prima riflessione muove da un dato empirico: a differenza che in passato, nel mondo contemporaneo solo per le donne il velo è simbolo visibile di appartenenza religiosa. Altrettanto vero è che il velo non rappresenta il solo segno esteriorizzato di convinzione religiosa che si affaccia, a volte in modo vistoso, nel mondo del lavoro, ove i fenomeni migratori hanno determinato giocoforza il mescolarsi di diverse culture e delle loro manifestazioni. Basta ricordare esemplificativamente e non esaustivamente le barbe, i turbanti, il coltello per i sikh, la kippa per gli ebrei, il crocifisso per i cristiani. Eppure, fatto salvo qualche isolato precedente giurisprudenziale relativo al porto del pugnale rituale “kirpan” da parte degli indiani sikh , accanto ad una assai rarefatta casistica in materia di porto del turbante al posto del casco in moto o al posto del caschetto protettivo nei cantieri, o una isolata sentenza della Corte suprema delle Baleari in Spagna del 2002, relativa al licenziamento di un autista di autobus di religione ebraica che rivendicava il diritto di indossare la kippa durante il servizio , non si rileva sicuramente una analoga declinazione “al maschile” del fervido dibattito che sta animando oggi il tema del “velo” islamico. E non è certo un caso che la Corte europea con le due sentenze “gemelle” del marzo del 2017 sia stata chiamata a pronunciarsi per ben due volte proprio sul velo islamico in chiave di libertà religiosa nei luoghi di lavoro. Allora è necessario scavare più a fondo, capire se a fronte dell’impegno profuso dai giuristi nel giustificare il divieto del velo non integrale sul luogo di lavoro, in nome di una pretesa “neutralità” datoriale, vi sia qualche cosa di più profondo che si annida nel nostro risalente immaginario culturale e che ha a che fare proprio con la differenza di genere. Innanzi tutto il tema deve essere definito e circoscritto. Stiamo parlando del velo non integrale, di un capo di abbigliamento consistente in un quadrato di stoffa che incornicia il volto femminile, spesso colorato ed elegante, verrebbe da dire “fashion”, che viene portato in alcuni contesti anche con civettuola disinvoltura, specie dalle giovani. Ciò nonostante, questo “oggetto” ancestrale, che si insinua silenziosamente nelle nostre città ipermoderne, suscita una forte reazione difensiva da parte di alcuni e viene percepito addirittura come una specie di oltraggio, intollerabile alla vista. Eppure siamo nella società delle libertà individuali e dei diritti universali e, nelle sue forme più esasperate, della visibilità, della liberazione, dell’esposizione dei corpi, in particolare quelli femminili, della loro reificazione e mercificazione. Questo oggetto “alieno” viene interpretato come espressione di un mondo arcaico, destinato a sparire, per fare posto ad una cultura che riteniamo evoluta e per questo destinata a prevalere e diffondersi in modo universale e lineare. Attraverso questa sorta di “transfert” il velo diventa, in nome della libertà e della laicità, un oggetto proibito, un vero e proprio “ corpo del reato”, come in Francia, paese che con la loi foulardière lo vieta nelle scuole e negli uffici pubblici. Proprio la Francia, la patria della libertà per antonomasia, vieta un capo di abbigliamento in nome della laicità e della sicurezza, in realtà con un provvedimento significativamente definito da alcuni “ la legge della paura”. Un intervento autoritativo che ha risultati paradossali: si decide a tavolino che il velo è segno ostentato di appartenenza ad una religione, inammissibile nella scuola pubblica e che colei che lo porta, a prescindere dalla sua scelta individuale e dal suo grado di consapevolezza, manifesta in questo modo di aver subito una discriminazione ed un’oppressione che offende la dignità di tutte le donne. Così, con una insopportabile eterogenesi dei fini, nei paesi che hanno adottato il divieto, le ragazze musulmane con i loro foulard vengono espulse dalla scuola pubblica e rimandate all’interno delle famiglie, che secondo questo schema si suppone siano il luogo del patriarcato e del sessismo. Mentre i giovani maschi, pur appartenenti alla stessa cultura, possono continuare indisturbati a fruire del diritto all’istruzione. E’ singolare ed altresì un po’ inquietante questa spinta a “disvelare” le donne appartenenti ad una minoranza. Forse riecheggia atteggiamenti storicamente ascrivibili al bagaglio ideologico dell’occidente colonialista conquistatore-liberatore? Anche la lotta contro il velo può essere vista oggi, così come in passato, come componente strategica per favorire in maniera più rapida il processo di assimilazione ai valori occidentali di culture diverse. Ed allora cosa simboleggia davvero il velo nel nostro mondo occidentale? La manifestazione di un mondo arcaico, fuori dal tempo e dalla modernità, percepito come oscuramente minaccioso? Un limite all’emancipazione femminile? Un’espressione di libertà culturale, o al contrario un simbolo di discriminazione ed oppressione delle donne, imposto da fondamentalismi fortemente maschilisti? E cosa ancora rappresenta nel mondo musulmano? La prescrizione coranica non è dirimente né sotto il profilo letterale né interpretativo. Si parla in questi termini dell’abbigliamento femminile nella Sura “della luce” (sura XXIV versetto 31): “E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle eccetto quello che di fuori appare e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti ed ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figlio a i figli dei loro mariti o ai loro fratelli o ai figli dei loro fratelli ai figli delle loro sorelle o alle loro donne o alle loro schiave o ai loro servi maschi privi di genitali o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne”. E ne troviamo traccia nella Sura detta “dei confederati” ( sura XXXIII versetto 59): “ O Profeta, dì alle tua spose alle tue figlie ed alle mogli dei credenti di stringere su di loro i loro mantelli. Sarà il modo più semplice perché vengano rispettate e non vengano offese” . Quindi in questo testo antico il riferimento al velo non appare che un mero invito alla modestia ed al pudore nel vestire femminile e non propriamente una regola religiosa. L’Esegesi islamica moderna fa notare infatti che l’usanza di coprire il capo ed il volto è in realtà post- coranica, basata su usi bizantini e persiani e come nel testo letterale del Corano non vi sia sostanzialmente nulla che giustifichi l’interdizione alle donne di mostrare il volto o i capelli. Il testo sacro è pertanto suscettibile di diverse interpretazioni: per molte donne musulmane è visto come una tradizione ormai da superare, tanto è vero che non lo adottano affatto. Per altre è una prescrizione inderogabile, segno identitario e regola di ordine sociale. Ma non solo: a fronte dello scoprirsi del corpo delle donne nella società occidentale, sempre più legato alla sua mercificazione ed alla sua perdita di dignità, si viene a contrapporre, da parte delle musulmane, un rifiuto di tale logica ritenuta irrispettosa, tanto da far assumere al velo un valore di perno di una cultura al femminile contrapposta, attraverso il proprio linguaggio simbolico, a quella maschile, vista come oppressiva. E ricordiamo a questo proposito le acute osservazioni di Fatima Mernissi, sociologa marocchina, nata per sua stessa dichiarazione in un harem, quando ironizza, contrapponendo la supposta costrizione del velo della donna mediorientale, alla costrizione della “taglia 42” che vincola il corpo della donna occidentale all’interno di una sorta di harem invisibile . L’impressione, a fronte di tutta questa complessità ed ambivalenza del tema, che si tenda ad una eccessiva semplificazione, la quale sotto il profilo giuridico si ammanta di principi quali la neutralità dell’impresa e la laicità dello Stato, raccogliendo tutti i simboli religiosi sotto un’unica categoria per sintetizzarne la disciplina, senza coglierne la complessità e soprattutto il legame con il genere. Se vogliamo invece investigare senza pregiudizi su di che cosa oggi il velo sia divenuto il simbolo, dobbiamo tenere conto che esso ha subito nel mondo contemporaneo globalizzato una metamorfosi profonda “caricandosi di una semantica del tutto nuova ma riproponendone, pur diversamente, una assai antica “ . E per cercare un’altra chiave di lettura meno riduttiva della semantica del velo, nei limiti di qualche suggestione sparsa, chiediamo aiuto al mito, alla cultura classica ed in particolare alla sua iconologia, che esprime molto bene in forma simbolica principi e tabù che ancora albergano nella nostra civiltà occidentale contemporanea, che di tale ispirazione è ampiamente debitrice. Omero, Iliade. Achille sogna di espugnare le mura di Troia e si prepara “a sciogliere i sacri veli di Pergamo”. Nell’interpretazione tradizionale, il termine “velo” viene tradotto come sinonimo di mura, e lo scioglimento viene letto come abbattimento, mentre il riferimento è letterale, allo stupro del velo, che ricopre la dignità delle donne. Le troiane eminenti, Ecuba, Elena, Andromaca, così come tutte le donne della città assediata, dopo la morte di Ettore e la penetrazione delle mura da parte di Ulisse ed i suoi con l’inganno, sciolgono i veli e si preparano ad essere violate. Il velo richiama la profanazione, la violazione della sacralità del femminile, la violenza sulla donna da parte del vincitore . Nell’arte l’iconografia del velo invece ci porta a richiamare le ninfe, avvolte di veli ondeggianti, la figura di Salomè, dalle sacre scritture a Oscar Wilde, l’esotismo dell’harem, la grande Odalisca di Ingres e le rappresentazioni del bagno turco, le traduzioni ottocentesche delle Mille e una Notte, le donne di Algeri di Delacroix, ed ancora Matisse, Renoir, che ci consegnano immagini dove il velo è protagonista sensuale ed erotico, che hanno a lungo alimentato l’immaginario culturale (letterario, musicale, artistico, pittorico) occidentale europeo e colonialista. Per contro, è singolare come nella letteratura occidentale, a differenza di quella orientale, non vi sia un’opera classica la cui protagonista assoluta è l’intelligenza femminile, che vince con le sole armi dell’ingegno e della competenza sulla violenza maschile, come le Mille e una Notte. Non va dimenticato che il testo, presentato in occidente sotto una luce favolistica e sensuale, inizia con una serie di femminicidi, perpetrati dal sovrano che, tradito da una delle sue mogli, uccide l’infedele e per vendetta ogni notte sposa una vergine, per farla decapitare la mattina successiva. Fino a che in tutto il regno non restano che le figlie del Gran Visir, tra cui Shéhérazade, la quale si offre in sacrificio per interrompere questa serie luttuosa. Ella, grazie alla sua sapienza di affabulatrice, racconta storie inanellate le une alle altre, interrompendole ogni notte nel momento più emozionante, fino a far desistere il re dalla sua crudele ossessione: così, salvando se stessa, salva anche tutte le altre donne. Ma nell’immaginario occidentale non viene valorizzata la sua intelligenza ed il suo coraggio, bensì viene rappresentata con un’immagine riduttiva, sensuale e voluttuosa . Il velo è diventato così l’immagine proiettiva di un oriente misterioso ed affascinante, esotico ed erotico, che finchè è “altrove” ispira sogni e desiderio. Ma tutto cambia quando questo immaginario diventa prossimo, quando dalla trama della tradizione e dell’immaginario ci proiettiamo all’oggi, al velo delle pratiche quotidiane, alle contraddizioni di un mondo globalizzato, dove tutto si intreccia senza reciproca comprensione, fra donne ed uomini di paesi diversi che coesistono insieme in un unico paese che non riconosce più la sua storia e le proprie radici. Il velo è diventato così una sorta di luogo della mente: sulla testa delle donne si proietta l’immagine monocorde e stereotipata che l’occidente ha dell’oriente islamico tutto, che invece è una galassia molto diversificata. Peraltro anche di velo non ve ne è uno solo: Hijab, haik, neqab, chador…. Vi è un’unificazione anche terminologica che appiattisce la varietà assunta dal capo d’abbigliamento nella vasta e composita area mediorientale e che va dal fazzoletto quadrato che incornicia il viso e lascia scoperti parte dei capelli alla palandrana nera o azzurra che copre l’intero corpo. E l’annullamento delle diversità con la quale la regola del velo è interpretata nei vari paesi risale a Montesquieu, che nelle sue “Lettere persiane” del 1721 aveva definito “ voile” in maniera sintetica questo capo di abbigliamento, senza precisare a quale religione o paese viene applicata la regola, avvalendosi di un unico termine, poi assunto dagli accademici occidentali, che diventa metafora dell’Islam stesso. E’ come se un unico velo si interponesse tra Occidente ed Oriente, dal settecento fino a parte del novecento, sul quale l’immagine dell’Oriente e del mondo arabo viene proiettato da viaggiatori e studiosi orientalisti spesso in forma artificiosa, come se fosse il luogo della differenza e dell’esotismo, nel quale i veli delle donne diventano la cifra simbolica di un intero mondo. Questa riduttiva visione occidentale è stata funzionale alla relazione di dominio, che il colonialismo ha comportato, e che ne ha esasperato sempre di più il valore paradigmatico di arretratezza, arcaicità ed in definitiva di pericolosità. E le donne velate, più di altre icone, sono diventate emblema dell’antitesi dei valori occidentali. L’occidente, della sua missione liberatrice e di progresso, sembra passare sempre e comunque dallo “svelamento” delle donne. Vi è un intero archivio di immagini della memoria coloniale occidentale, dove l’oriente è donna, dove l’esotismo è soprattutto una fantasia erotica e lo svelamento è immaginario ed estetico. Quindi questo desiderio di “svelare”, nella sua duplice accezione, le donne musulmane entra così a fare parte dell’immaginario non solo artistico ma altresì filosofico ed ideologico dell’occidente conquistatore-liberatore. La logica colonialista finisce per identificare il velo con l’oppressione e lo svelamento con la liberazione. Rammentiamo un evento storico, cruciale nella sua valenza simbolica, accaduto durante l’occupazione coloniale francese dell’Algeria il 13 maggio 1958. Anche in questo caso, molto significativamente, protagonista è la Francia. Alcune donne arabe vengono fatte salire su un palco nella piazza principale ed ivi pubblicamente si tolgono il velo. E’ una messa in scena organizzata dalle moglie dei colonnelli francesi rappresentanti dell’autorità coloniale, ma di grande importanza esemplare. La lotta contro il velo diventa il punto di forza della strategia per fiaccare la resistenza del popolo algerino attraverso l’assimilazione dei valori della società francese. Molto interessanti le osservazioni di Frantz Fanon, scrittore e filosofo francese rappresentante del movimento per la decolonizzazione, che definisce la precisa politica coloniale sottesa a tali interventi: ”se vogliamo colpire la società algerina nel suo contesto, nella sua capacità di resistenza, dobbiamo prima di tutto conquistare le donne, dobbiamo andarle a cercare dietro il velo con cui si nascondono e nelle case in cui l’uomo le rinchiude. Conquistare le donne, convertirle ai valori occidentali significa “impadronirsi di un potere reale sull’uomo, e possedere i mezzi pratici efficaci per minare la struttura della cultura algerina” . In altre parole il colonizzatore si arroga il diritto di parlare a nome della donna nativa, ritenuta oppressa dal patriarcato locale, per legittimare se stesso come liberatore e civilizzatore. Ma il dato più interessante è che né il patriarcato impositore del velo e di altre forme di subalternità femminile né chi propone una modernizzazione anche forzata rappresenta veramente la voce autentica delle donne. Chi pretende di contribuire all’emancipazione delle donne musulmane e di liberarle dalla segregazione in cui le confinano padri, mariti, fratelli, proponendo l’accesso ad un universo di valori ritenuti moderni e laici attraverso interventi forzosi, non si pone il problema di ascoltare direttamente la loro voce, di capire realmente le loro ragioni, di rispettare i loro tempi, i loro percorsi, le loro riflessioni. E facendo un salto di sessant’anni, senza poter indagare per ragioni di spazio le molteplici e dolorose vicende che hanno caratterizzato il medio oriente islamico dal secondo dopoguerra ad oggi ( il fondamentalismo e la teocrazia in Iran ed in Afghanistan, le primavere arabe ed il loro fallimento, il terrorismo in occidente ed il senso di insicurezza che esso provoca) e scusandoci con il lettore per la drastica semplificazione e la necessaria sommarietà cui la brevità del contributo ci costringe, ci rendiamo conto che il punto di vista occidentale sulla condizione della donna musulmana continua a risentire di questo approccio, che non contempla un percorso emancipatorio autogestito dalle donne, che pure vi è, ma un intervento di “liberazione” forzato e deciso dall’alto. Dall’altra parte è indubbio che il velo nei paesi islamici si è caricato di significati ambivalenti, ora oggetto di leggi che ne hanno imposto il generalizzato abbandono, ora, viceversa, che lo hanno reso obbligatorio per tutte le donne. Fino a manifestare, attraverso il corpo della donna “l’immagine del velo come scudo protettivo della sacralità di un’intera comunità e recupero di un’identità vista come indebolita e minata dall’Occidente “ . Con un apparente ritorno alla tradizione del velo, reinventato però in chiave politica, come bene narrano, con la efficacia della graphic novel la prima e dell’incisività del saggio la seconda, due famose opere scritte da donne, Persepolis di Marjane Satrapi e Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi che ben rappresentano gli intrecci dei valori occidentali e tradizionali nella vita e nella formazione dei giovani, in particolare delle ragazze .
Non si può nascondere pertanto l’impressione di contraddittorietà che suscita la scelta della Francia, laica e libertaria, di vietare il velo a scuola e negli uffici. E suscita perplessità, con tutto il rispetto per l’autorevolezza della Curia, anche la posizione assunta dalla Corte di Giustizia nelle due decisioni del marzo scorso, quando legittima il divieto ed autorizza il datore di lavoro, autoproclamatosi “neutrale”, al licenziamento della lavoratrice che non vuole “disvelarsi” (ed alla discriminazione nel’accesso al lavoro, mediante il respingimento della candidata velata). Scegliendo, fra le due soluzioni possibili, ovvero da una parte la tolleranza verso tutti i simboli di appartenenza religiosa o filosofica, qualsiasi essi siano, dall’altra l’azzeramento di ogni simbologia, quest’ultima soluzione, cioè lo svelamento forzato delle donne musulmane, in quanto gruppo socialmente più rilevante sotto il profilo numerico. Perché alla fine proprio questo finisce per essere l’effetto più evidente di tale orientamento interpretativo, a fronte della quasi irrilevanza nella casistica pratica di una simbologia “al maschile”. E ci si chiede se la libertà religiosa, una delle più importanti conquiste dello stato laico moderno, non sarebbe stata tutelata con maggiore pienezza sul posto di lavoro optando per la prima soluzione e non invece indirizzandosi verso la seconda, che, con una certa dose di ipocrisia, in nome della supposta neutralità delle imprese, costringe le donne ad una scelta fra la perdita del posto e la rinuncia ad un innocuo simbolo identitario costituito da un semplice foulard. Ci si interroga infine sull’assenza o quantomeno il mancato approfondimento di una lettura “di genere” delle vicende che hanno per protagonista il velo non integrale sui luoghi di lavoro, quantomeno in chiave di discriminazione indiretta.
A conclusione di questo modesto contributo alla riflessione, nell’ambito di una tematica che richiederebbe interventi di ben altra portata, conservando ancora davanti agli occhi l’immagine evocativa della giovane ricercatrice a Teheran, che si svela pubblicamente durante le manifestazioni e sventola il foulard bianco come una bandiera, prima di essere arrestata e sparire per mesi, esprimiamo la speranza che le donne, nel momento in cui decidono in prima persona, liberamente, di rappresentare o meno la propria fede o la propria identità culturale con simboli esteriori, siano sempre messe in grado di farlo, ovunque, in famiglia, per la strada o sul lavoro, in tutta libertà, senza costrizioni e discriminazioni, godendo di una piena autodeterminazione, che è la vera espressione dell’emancipazione e della libertà.

 

 

 

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