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La storia della flessibilità del lavoro – ma oggi, alla luce della dilagante precarietà dominante nel mercato del lavoro, l’utilizzazione di questo termine appare manifestamente inappropriato - è ormai più che ventennale ed irrompe nello scenario nazionale con la caduta del divieto di stipulare contratti a termine nei settori produttivi diversi da quelli previsti dalla normativa di legge in vigore sino al 1996.
Nel 1996, con il primo governo Prodi, si sviluppò una fase molto costruttiva di confronto fra le forze sociali e con il governo, nel tentativo di dare una risposta all’endemica difficolta di occupazione presente nel paese. I temi del lavoro - intesi come politiche per lo sviluppo e l'occupazione, per la qualità del lavoro, ed anche per innovare significativamente le regole del mercato del lavoro - furono fra gli argomenti centrali, trascurando tuttavia uno dei principi fondamentali di ogni teoria economica, cioè che l’occupazione non è una variabile indipendente, ma è strettamente connessa allo sviluppo ed alla crescita economica dell’economia e, pertanto, i temi del lavoro e dell’occupazione non avrebbe dovuto essere trattati senza affrontare contemporaneamente quelli del modello di sviluppo industriale e delle trasformazioni tecnologiche.
Da quel tempo è stato un susseguirsi di interventi legislativi tesi a regolamentare le innovazioni introdotte nel mercato del lavoro, divenuto improvvisamente aperto ad una flessibilità prima sconosciuta. In questo quadro, sostanzialmente lacunoso, scaturì per il mercato del lavoro un primo importante accordo, condiviso da tutte le parti sociali in causa, che introdusse elementi reali di flessibilità. Fu così superato il tradizionale divieto assoluto di "intermediazione di manodopera", con un provvedimento che introduceva l'istituto nel nostro ordinamento ad alcune specifiche condizioni per la sua concreta attivazione: che l'istituto fosse essenzialmente prioritario al reperimento di profili professionali di livello medio-alto; che dovesse essere la contrattazione collettiva a sugellare la sussistenza delle condizioni per ricorrervi; che il costo per quella manodopera interinale gravasse sull’impresa in misura maggiore del costo del lavoro ordinario a parità di inquadramento professionale. Condizioni che nel corso del tempo sono state ampiamente dimenticate o omesse.
Spacciata come elemento di modernizzazione del mercato del lavoro, la flessibilità è divenuta ben presto un meccanismo di vera e propria gestione scientifica delle imprese e dei bilanci aziendali, imprese alle quali non è sembrato vero poter gestire il regime dei costi e dei prezzi anche attraverso oculate operazioni di taglio del costo del lavoro, con l’inserimento ed il disinserimento di manodopera a basso costo, secondo criteri di stagionalità e di convenienza. Questa si presume ha voluto rappresentare una risposta alla progressiva globalizzazione dei mercati, sempre più condizionati dalla presenza di produzione concorrente proveniente da paesi a basso costo del lavoro e, dunque, in grado di compromettere la sopravvivenza delle imprese nazionali. In altri termini, la cosiddetta flessibilità del lavoro è divenuta una sorta di dumping sociale con cui far fronte alla concorrenza dei paesi emergenti in grado di offrire prodotti analoghi a prezzi concorrenziali.
La guerra all’assetto del mercato del lavoro ed alle regole che lo avevano regolato per oltre un trentennio è stata nel tempo oggetto di attenzione da parte di numerosi esecutivi, da quello Prodi a quello D’Alema, da quello Berlusconi a quello Monti, da quello Renzi a quello del sostanziale triumvirato Salvini-Conte-Di Maio, sebbene nessuno di questi sia riuscito nell’ardua impresa di dare una risposta definitiva alla gravissima e crescente disoccupazione giovanile. E’ una lunga storia questa che non serve riesumare nell’economia dell’obiettivo che qui ci siamo posti, quantunque sia doveroso sottolineare che tutte quelle iniziative non siano servite a chiarire un aspetto fondamentale che ancora oggi rimane irrisolto.
La diffusione selvaggia dei contratti di precariato non è stata immune da tentativi di delimitazione della loro sfera di applicazione, sebbene alla luce dell’esperienza quei tentativi abbiano rivelato nel tempo l’insorgere di nuovi ed ulteriori storture, che hanno aggravato lo stato di precarietà dei destinatari.
Un esempio di questo aggravamento è il provvedimento Fornero di modifica del Dlgs. 276/03, noto con il nome di Riforma Biagi, lì dove, con l’intento di fissare una netta linea di demarcazione tra contratti a termine e lavoro subordinato, oltre che di far emergere le false partite IVA, stabilisce automatiche trasformazioni del rapporto di lavoro ove uno solo dei requisiti fissati dal provvedimento venga meno. Peccato che inspiegabilmente e inopinatamente vengano categoricamente esclusi da tale beneficio le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione ad un albo, cioè tutti coloro che fruiscano di un contratto con apposizione di termine ma che svolgano attività di avvocato, medico, ingegnere, architetto, giornalista e via dicendo. Costoro, in un paese nel quale la scolarizzazione è molto diffusa e la corsa ad una laurea professionalizzante è nel desiderio di moltissimi giovani, grazie a quel provvedimento divengono automaticamente cittadini di seconda serie, cittadini penalizzati in ragione di un titolo di studio costato duri sacrifici d’impegno, cittadini che assunti con un contratto a termine mai potranno aspirare alla stabilizzazione automatica qualora i termini distintivi di quel contratto non vengano rispettati alla lettera. Allo stesso tempo, una politica sempre più incoerente, avulsa dal rapporto con i veri bisogni del popolo e soggiogata dalle pretese di un clan imprenditoriale privo di morale, recrimina ipocritamente sulla fuga di “cervelli” da un paese incapace di valorizzare le sue risorse pregiate.
Il punto, nodale nella materia, non ha trovato modifiche anche nel tanto decantato Jobs Act di Renzi, che se ha certamente innovato nel campo delle provvidenze per i precari, con incentivi a favore delle imprese che assumono, con l’introduzione di misure a sostegno del reddito, con la tutela della maternità, nulla ha corretto sul lato della grave discriminazione sussistente tra lavoratori impiegati in attività manuali e lavoratori addetti alla produzione di risultati frutto delle idee, così perpetuando un ingiusto trattamento normativo e uno svilimento di professioni appannaggio del tanto bistrattato ceto medio. Certamente la L. 81/17 sulla proprietà delle opere intellettive, quantunque un parziale pannicello caldo a favore delle opere realizzate da un contrattista, nulla modifica in materia di diritto all’assunzione per chi da anni e senza soluzione di continuità presta la propria opera per un determinato datore di lavoro, sebben quella continuità abbia platealmente travalicato ogni tolleranza dei limiti di rinnovabilità di un contratto a termine.
Analoga assenza di misure si rileva nel cosiddetto Decreto Dignità (dl. 101/19), che in fondo ha circoscritto le sue attenzioni ad una delle categorie più povere e sfruttate delle realtà di inizio secolo, quella dei rider, categoria debole, che esercita la propria attività nella consegna di beni per conto altrui; anche se non mancano misure per i precari, i lavoratori socialmente utili e con disabilità: le serie problematiche della manodopera “pregiata” senza diritti rimangono del tutto irrisolte.
A conclusione di queste osservazioni, la cui rilevanza rimane non secondaria, c’è da chiedersi quale provvedimenti possano attivarsi per dare riscontro alle giuste e comprensibili istanze di schiere di giovani il cui peccato risiede in una scelta di specializzazione paradossalmente tra le più richieste dalle aziende e, nello stesso tempo, tra le più penalizzate dal mercato del lavoro e dalla legislazione corrente. Appare incredibile che la riacquisizione di un minimo di dignità sociale e umana per migliaia di giovani laureati, sottopagati e senza futuro, sia legata ad un semplice emendamento all’art. 69bis della Riforma Fornero, un articolo di legge che in prima istanza sembrerebbe violare il principio di eguaglianza nell’accesso ai diritti ed alla tutela dei cittadini, un articolo la cui applicazione in forma estensiva ed ugualitaria non può essere ipocritamente delegata al buon senso del magistrato di turno, come è accaduto in passato con le cosiddette sentenze creative.
Per quanto non se ne conosca la ratio resta il dubbio che questa esclusione sia connessa all’obbligo di iscrizione in un albo professionali per coloro che quelle attività svolgono, ma nello stesso tempo non è data capire la ragione per la quale l’eventuale assolvimento dell’iscrizione venga brandita quale arma ostativa del diritto medesimo: chissà se il legislatore o un ente giurisdizionale superiore, appositamente investito della questione, non risolva definitivamente il quesito e lenisca le pene dei tanti disperati in cerca di un futuro certo.

 

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