Testo integrale con note e bibliografia

Con la decisione 35/2020 del 6.2.2020 , il Tribunal Supremo di Spagna --organo giurisdizionale posto al vertice dell’ordinamento giudiziario spagnolo e del sistema delleimpugnazioni al pari della Corte di Cassazione italiana -- ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Saragozza, che aveva condannato gli imputati a una pena detentiva di due anni e nove mesi di carcere per truffa continuata. La frode era stata valutata nella misura di 456,340.27 euro per alcuni imputati e di 340,650 euro per altri.
Nella decisione, la Corte sottolinea l' utilita’ e l’efficacia delle segnalazioni nelle quali l'autore opta per l'anonimato, soprattutto nei casi in cui, come quello all’attenzione della Corte, la società coinvolta non si e’ dotata di un programma interno di compliance: "Di rilevanza è la denuncia effettuata in assenza di un programma di compliance interna, sìcche’ è straordinariamente interessante che, nel periodo dei fatti provati, si sia realizzato quel meccanismo all'interno della società che è stato recentemente regolamentato come cosiddetto “canale per i reclami interni”, detto anche whistleblowing, e che è stato incluso nella recente direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio lo scorso ottobre, relativa alla protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione.”

La Corte utilizza pertanto il caso portato alla sua attenzione come un esempio dell’importanza di canali interni di segnalazione, anche in forma anonima, “per costituire l'inizio dell'indagine in quanto "notitia criminis" e richiama, al proposito, la Direttiva 2019/1937 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 October 2019 “... la Direttiva è motivata dalla constatazione che i segnalatori sono il mezzo più importante per scoprire le frodi commesse all'interno delle organizzazioni; e il motivo principale per cui le persone che sono a conoscenza di pratiche criminali nella loro azienda o entità pubblica non procedono alla segnalazione, è fondamentalmente perché non si sentono sufficientemente protetti contro possibili rappresaglie dalle aziende di cui segnalano le violazioni”.

La Direttiva UE: anonimato e spersonalizzazione delle segnalazioni

Come e’ noto, la Direttiva UE lascia ai singoli paesi membri la decisione sulla ammissibilita’ o meno delle segnalazioni anonime , fatta salva la possibilita’ per il whistlebower di invocare tali segnalazioni al fine di ottenere protezione da ritorsioni subite a seguito di segnalazione: ”Le persone che hanno segnalato o divulgato pubblicamente informazioni su violazioni in forma anonima, ma che successivamente sono state identificate e hanno subito ritorsioni, possono nondimeno beneficiare della protezione prevista ai sensi del capo VI, a condizione che soddisfino le condizioni di cui al paragrafo 1.”

Tale disposizione non esime pero’ i legislatori nazionali dal considerare il tema dell’anonimato alla luce dei principi espressi dalla stessa Direttiva, alcuni dei quali influiscono direttamente sul trattamento delle segnalazioni anonime.

Va innanzi tutto osservato che, come visto, il comma 3 dell’art. 6 della Direttiva riconosce alla segnalazione anonima un ruolo essenziale al fine della successiva richiesta di protezione da ritorsioni da parte del segnalatore anonimo. Cio’ implica che tale segnalazione anonima deve quantomeno essere: a) accertata come tale dall’ente che l’ha ricevuta e b) registrata/catalogata ai fini del possibile futuro utilizzo da parte del segnalante.

C’e’ poi da considerare la chiara scelta operata dalla Direttiva nel senso della “spersonalizzazione” delle segnalazioni. Attraverso la previsione sulla irrilevanza degli interessi personali del whistleblower e la eliminazione della necessita’ della buona fede quale elemento soggettivo della segnalazione, la Direttiva ha operato un chiaro cambio di prospettiva dalle intenzioni del segnalante ai fatti riportati dallo stesso.

La problematica “anonimato si’/anonimato no” deve dunque essere inquadrata dai legislatori nazionali in tale prospettiva, ricordando che l’enfatizzazione del CHE COSA viene riportato rispetto al CHI riporta rappresenta un ampliamento della tutela del whsitleblowing sia dal punto di vista soggettivo (certa protezione della identita’ del segnalante), che oggettivo (incremento di segnalazioni utili alla emersione di illeciti), come indicato dal Tribunal Supremo.

Anonimato: arma a doppio taglio

L’anonimato non e’ mai stato popolare come al giorno d’oggi.

La diffusione di internet ne ha enfatizzato al massimo l’uso, rendendone evidenti vantaggi e limiti: migliore protezione delle informazioni personali e possibilita’ di esprimere le proprie opinioni senza timore di imbarazzi o rappresaglie, ma anche maggiore vulnerabilita’ a molestie, stalking e maleducazione.

Come ben descritto dalla filosofa Julie Ponesse,“ l’anonimato può proteggerci dall'oppressione, dalla persecuzione e dalle condotte fraudolente e può rafforzare la comunicazione senza censura, punizione o paura di rappresaglie, che in molti contesti sono preoccupazioni ancora molto reali.[...] Ma la stessa protezione viene garantita anche a individui con motivi ignobili, incoraggiando comportamenti disonesti, corrotti o socialmente devianti. L'anonimato può essere particolarmente attraente per le persone che desiderano comportarsi in modo irresponsabile senza incorrere in alcuno dei costi sociali che normalmente sarebbero sopportati da chi si comporta in tal modo.”

Nella prospettiva del whistleblowing, il tema dell’anonimato -- ovvero la scelta del segnalante di non fornire le proprie generalita’al momento della segnalazione -- e’ particolarmente dibattuto. Il tema si presta infatti in modo particolare a quelle contrapposte conseguenze di cui parla Ponesse: da una parte, l’indiscussa protezione del segnalante da possibili ritorsioni, dall’altra, le considerazioni concernenti la mancanza di credibilita’e le difficolta’ investigative che la segnalazione anonima comporterebbe.

Resistenze al whistleblowing anonimo
1) L'anonimato viola la lealta’ di gruppo: il whistleblower come traditore

Siamo tutti cresciuti con l’idea che fare la spia e’ male, cosi’ come dire cose brutte su persone non presenti per potersi difendere. Ma, a ben pensarci, il “riportare” e’ condannato non tanto come atto di cattiva educazione, bensi’ come atto di slealta’ che mina la fiducia reciproca e minaccia la solidarietà del gruppo. Da qui, l’identificazione del segnalante come traditore, comune soprattutto a societa’ di tipo collettivistico, dove alla protezione della famiglia e del gruppo di amicizie viene data priorita’ rispetto agli interessi che riguardano la collettivita’, ma non solo. Molta cultura aziendale e’ a tutt’oggi informata da tale premessa, laddove l’obbligo di fedelta’ del dipendente viene inteso come aderenza indiscussa alla gestione datoriale e il segnalante spesso marchiato come sleale tanto dal datore di lavoro, come dai colleghi, cosi’ nel settore privato, come in quello pubblico.
2) Chi segnala deve “metterci la faccia”: il whistleblower come eroe
Un altro attaggiamento critico nei confronti del whistleblowing anonimo e’ quello di chi associa l’anonimato alla cattiva fede: perché il segnalante non dichiara la sua identità? Cosa deve nascondere? Se le sue intenzioni sono “pure”, se davvero agisce nell’interesse pubblico, allora che si mostri e accetti la responsabilità delle sue azioni. Questo il ragionamento.

E’ noto come la maggior parte dei whistleblowers paghi un prezzo molto alto per la scelta di segnalare, dal licenziamento al demansionamento, dal trasferimento a incarichi o luoghi poco attraenti, all’ ostracismo di colleghi, fino alla condanna all’isolamento psicologico e professionale. Nonostante cio’, in molti casi, prevale l’aspettativa del sacrificio da parte del segnalante come prova della serieta’ delle sue intenzioni.

Se e’ vero che leggere le parole di Andrea Franzoso sulla sua scelta di venire allo scoperto ci riempie di ammirazione, e’ vero anche che l’eroismo morale non puo’ mai essere obbligatorio e che aspettarsi azioni di straordinario sacificio da parte dei segnalanti non puo’ essere giustificato. Il rischio di perdere la carriera, il sostentamento e la salute mentale sono ragioni perfettamente sufficienti per rimanere anonimi (se non silenti). Come ben detto da Frederick A. Elliston “C'è un limite a ciò a cui possiamo chiedere a una persona di rinunciare per fare la cosa giusta. Nella misura in cui l'anonimato riduce per prima cosa quello che può essere un onere ingiusto, riduce un male che promuove un bene”.
E ancora: “La sfida dell'accusato che il segnalante si faccia avanti e lo affronti da uomo a uomo è una sfida da bullo quando proviene da potenti”.

3) L'anonimato impedisce le indagini sulle segnalazioni: il whistleblower inutile
Si sostiene anche che la persona che formula accuse senza rivelare la propria identità renda difficile determinare se ciò che riporta è vero o falso: non si potrebbero richiedere ulteriori informazioni, ne’ identificare le sue fonti di informazione ne’, tantomeno, esercitare propriamente il diritto di difesa.

Tali preoccupazioni risultano infondate alla luce della possibilita’ di istituire canali di comunicazione che consentano un dialogo tra investigatore e whistleblower pur nel mantenimento dell'anonimato da parte di quest’ultimo.

Vero e’ che non sempre e’ possibile portare a compimento un’indagine amministrativa o penale senza che l’identita’ del segnalante venga rilevata (per permettere all’accusato di difendersi da certi tipi di accuse o per necessita’ legate alla testimonianza nel processo), ma cio’ non implica affatto il rifiuto a priori dello strumento anonimo, bensi’ la sua regolazione. E’ sufficiente, per esempio, un avvertimento preliminare ai potenziali whistleblower anonimi di indicare un mezzo di contatto – di posta elettronica -- come un indirizzo che non li identifichi ma che permetta di richiedere loro ulteriori informazioni. Tale avvertimento dovrebbe anche riportare l’onesto caveat che, in alcune circostanze, potrebbe risultare impossibile completare le indagini in assenza della identificazione del segnalante.

4) L’anonimato incrementa il flusso di segnalazioni: il whistleblower irresponsabile
Cosa succede se tutti si sentono liberi di segnalare? La necessità di identificarsi, si dice, funge da filtro e controllo di una pratica che minaccia altrimenti di sommergere le istituzioni pubbliche e private responsabili per il whistleblowing. Per non parlare della qualita’ delle segnalazioni: chiunque si sentirebbe libero di riportare schermaglie private o vendette personali nell’ambiente di lavoro a rischio zero.
Difficile dire se questo convincimento abbia elementi di sostegno. Non sappiamo se la possibilita’ dell’anonimato provochi un aumento di segnalazioni e/o di segnalazioni irresponsabili. Quel che sappiamo e’ che il whistleblowing e’ cosa nuova e non particolarmente vicina alla cultura del nostro paese e pertanto, se siamo convinti della bonta’ dell’istituto, dobbiamo mettere in conto che, almeno per qualche tempo, ci saranno segnalazioni che nulla hanno a che fare con l’interesse pubblico. E’ un questione di educazione e di tempo. Ma non per questo timori di sovraccarico di lavoro devono prevalere sulla possibilita’ di prevenire o reprimere illeciti nell’interesse pubblico.

Conclusioni

Come visto sopra, tutte le obiezioni al whistleblowing anonimo implicano una certa enfasi sul soggetto che riporta e sulle sue motivazioni: se non mi dici chi sei, come posso valutare la tua credibilita’? Questo, in sostanza, il nocciolo del problema.

La focalizzazione sulle motivazioni del whistleblower – rifiutata, come visto, dalla Direttiva UE – appare pero’ spesso una strategia utilizzata per deflettere l’attenzione dai problemi segnalati e delegittimare allo stesso tempo chi segnala (anche se e’ una strategia destinata a fallire: se ciò che qualcuno dice e’ vero non dipende dal suo motivo per dirlo).

Come notato recentemente da Mark Worth a proposito dello scandalo Wirecard , partito da una segnalazione anonima: “Il bello di questa storia è che l’dentita’ dei segnalatnti [...] non e’diventata pubblica. Hanno fatto il loro lavoro. Hanno fornito le loro prove. Quindi sono tornati a casa e hanno continuato la loro vita. Hanno avuto l'istinto lungimirante di autoconservazione di non diventare parte della storia. I media difficilmente possono evitare la tentazione di sensazionalizzare il messaggero piuttosto che riportare il messaggio. I whistleblowers di Wirecard hanno privato i giornalisti di questo piacere, lasciando i media senza altra scelta che quella di coprire lo scandalo stesso. Ciò ha incrementato le possibilità che Wirecard fosse ritenuta responsabile di eventuali violazioni. Rimanendo anonimi, i segnalanti hanno anche evitato il controllo, l'invasione della privacy, l'attacco alla reputazione e l’inserimento nella lista nera del settore che colpiscono molti segnalanti che diventano pubblici”.

 

 

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.