Testo integrale con note e bibliografia

1. Identità di tecnica tra l’art. 2 comma 1 del d.lgs. n. 81 /2015e l’art. 409 n.3 c.p.c.

Nell’area del lavoro autonomo uno spazio non piccolo era occupato dal lavoro a progetto. Ormai la disciplina di questo tipo legale è stata abrogata dall’art. 52 del d.lgs. n.81 del 2015 che però ha lasciato in vita l’art. 409 n. 3. E lo stesso decreto ha introdotto l’art. 2 comma 1 che applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente.
La prima domanda che sorge spontanea è perché il legislatore ha abrogato la disciplina del lavoro a progetto. Perché nella pratica si era riscontrato un uso fraudolento del tipo nonostante la sanzione draconiana prevista dall’art. 69 del d.lgs. n. 276 che però non aveva avuto alcuna funzione deterrente perché nessuno mai si sarebbe sognato di scrivere un contratto a progetto senza indicare il progetto. D’altra parte scrivere un progetto era operazione abbastanza agevole perché il legislatore non aveva definito cosa dovesse intendersi per progetto. E quindi i progetti, ai quali nella prima formulazione si aggiungevano addirittura il programma o la fase, potevano in realtà consistere in un mansionario oppure indicare un risultato con la difficolta di individuare in concreto lo stesso soprattutto quando le obbligazioni erano di comportamento. A questo si aggiungeva la difficoltà non piccola di distinguere la coordinazione dalla subordinazione non tanto dal punto di vista concettuale quanto nel concreto svolgimento del rapporto tanto che ho definito, in tempo non sospetto, la coordinazione una formula insincera.
Come ho affermato più volte l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 non individua un tipo legale come il lavoro a progetto ma applica ai rapporti di collaborazione organizzati dal committente integralmente la disciplina del lavoro subordinato.
In realtà la tecnica cui ricorre l’art. 2 comma 1 è simile a quella dell’art. 409 n. 3 che non individuava una fattispecie ma una categoria di rapporti di vara origine e natura ai quali si applicava la disciplina del processo del lavoro. Ma è noto che le collaborazioni continuative e coordinate non sono rimaste una fattispecie processuale.
L’autonomia privata infatti ai sensi dell’art. 1322 comma 2 c.c. ha creato una nuova fattispecie non appartenente ad alcun tipo legale. Infatti dal 1973 al 2003 molto frequentemente le parti hanno concluso una serie di contratti di lavoro autonomo continuativo, molto simili al lavoro subordinato, ma molto più vantaggiosi per il committente, perchè a questi rapporti in caso di recesso non si applicava la normativa sui licenziamenti ed erano dovuti contributi in misura assai inferiore a quelli previsti per il lavoro subordinato.
Questi rapporti il più delle volte erano di falso lavoro autonomo tanto che il legislatore del 2003 con il d.lgs. 276 ha introdotto il nuovo tipo legale del lavoro a progetto con lo scopo di attribuire al progetto una funzione selettiva che, tuttavia, il progetto non è riuscito a svolgere e conseguentemente non ha conseguito l’obbiettivo di eliminare i falsi lavori autonomi.
Questo spiega perchè il nuovo legislatore del 2015, invece di ricondurre tutte collaborazioni continuative e coordinate in un tipo legale, come era il lavoro a progetto, ha preferito, da un lato, includere nell’area dell’art. 2 comma 1 i rapporti di collaborazione organizzati dal committente applicando ad essi la disciplina integrale del lavoro subordinato e, dall’altro lato, ha conservato in vita le collaborazioni continuative e coordinate prevalentemente personali ex art. 409 n. 3 c.p.c che sono sicuramente rapporti di lavoro autonomo.
È noto invece che sulla qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro organizzati dal committente, cioè quelli dell’art. 2 comma 1 esiste una querelle infinita che non si placa e anzi si è aggravata dopo la modifica improvvida determinata dall’avverbio prevalentemente che ha sostituito l’esclusivamente.
A mio avviso secondo la formulazione originaria l’art. 2 comma 1 non solo non individuava un nuovo tipo legale perché il legislatore non aveva predisposto per questa nuova presunta fattispecie una disciplina apposita, come ha fatto nel caso del lavoro a progetto, o come ha fatto il codice civile con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato non inerenti all’esercizio dell’impresa (art. 2239 c.c) quando ha stabilito che la disciplina del lavoro subordinato si applica ai suddetti rapporti in quanto compatibile. Ma nulla di tutto questo dice il legislatore.
2. Funziona antielusiva dell’art. 2 comma 1.
In realtà, a mio avviso il legislatore quando ha scritto l’art. 2 comma 1 ha attribuito a questa norma una funzione essenzialmente anti fraudolenta, memore dell’insuccesso della disciplina del lavoro a progetto, non a caso abrogata, per colpire quei rapporti che, proprio perché simili ma non uguali al lavoro subordinato in senso stretto, potevano assolvere, come il lavoro a progetto, ad una funzione fraudolenta.
Ed infatti a quanto consta non risultano nei formulari formule che si riferiscono a contratti che presentano le caratteristiche dell’art. 2 comma 1.
Fino a quando non è intervenuta la Corte di appello di Torino che invece ha inquadrato la fattispecie dei riders Foodora nell’art. 2 comma 1 qualificandola improvvidamente come tertium genus.
Nel frattempo prima della sentenza n. 1663 della Cassazione del 20 gennaio 2020 è intervenuta la modifica dell’art. 2 comma con il d.l. n. 101 del 2019 che ha modificato l’art. 2 comma 1 sostituendo l’esclusivamente con il prevalentemente, eliminando l’inciso “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro” e aggiungendo una seconda parte al primo comma “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
3. Ampliamento dell’ambito di applicazione dell’art. 2 comma 1 anche ai lavoratori autonomi deboli.
Queste modifiche non sono di piccolo conto e certamente ampliano l’area dell’art. 2 comma 1 sicchè dopo queste modifiche si deve prendere atto che la norma fa riferimento anche a lavoratori sicuramente autonomi deboli e applica anche ad essi la disciplina integrale del lavoro subordinato.
E non a caso la Cassazione, che pure prende in considerazione il caso Foodora, sorto prima delle modifiche legislative, non esita ad affermare al par. 27 che la disciplina del lavoro subordinato si applica “anche a prestatori ritenuti in condizione di debolezza economica operanti in una zona grigia tra autonomia e subordinazione ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea” . Se così è, si può dire la norma è forse applicabile a tutti quei lavoratori in condizione di subordinazione socioeconomica e di sottoprotezione sociale.
Mi rendo conto che la categoria della subordinazione socioeconomica non ha molti adepti, ma in questo caso evita all’interprete il compito faticoso e comunque controverso di identificare i tratti che distinguono il cosiddetto potere organizzativo dal potere direttivo almeno fino a quando resta in vigore l’art. 2094 c.c.
Un altro percorso potrebbe essere quello dell’individuazione di una nozione di dipendenza economica del lavoratore i cui indici di individuazione non sono di agevole identificazione.
È vero che nel 2012 una nozione di dipendenza economica fu accolta dal legislatore (art. 1 commi 23-26 legge n. 92 del 2012) con la norma che estendeva l’applicazione integrale del diritto del lavoro subordinato ai rapporti caratterizzati da una durata superiore alla soglia minima prestabilita, dalla monocommittenza e da un livello retributivo medio basso.
La verità è pero che questa norma ha avuto una modesta applicazione perché le fattispecie concrete non presentano sempre congiuntamente i tre requisiti. Secondo un autore ( ), se fosse stata in vigore una norma del genere avrebbe potuto essere applicata ai pony express di trenta anni fa e ora ai rapporti di lavoro dei ciclofattorini ( ).

4. Il coordinamento non è (più) un potere unilaterale ma è il risultato di un accordo tre le parti ai sensi dell’art. 15 della legge n. 81 del 2017.
Voglio esternare a questo proposito una preoccupazione e cioè che l’individuazione del potere organizzativo come potere unilaterale e autonomo del committente richiama alla mente la tesi del potere unilaterale di coordinamento nelle collaborazioni continuative e coordinate affermata da autorevoli dottrine già prima del d.lgs.276 del 2003 . Questa tesi a mio avviso ha favorito l’elusione della disciplina del lavoro subordinato.
Infatti, come la coordinazione non è sempre facilmente distinguibile dalla subordinazione, allo stesso modo il potere di coordinamento non è agevolmente distinguibile dal potere organizzativo.
È vero che la disciplina del lavoro a progetto contemplava il potere di coordinamento del committente ma, ormai piaccia o non piaccia, questa disciplina è stata abrogata e non esiste più il potere unilaterale di coordinamento del committente e non può essere fatto rivivere surrettiziamente con un nome diverso, e cioè potere organizzativo, i cui tratti identificativi non sono indicati dal legislatore, con la pretesa oltretutto di una parte della dottrina di individuare le parti della disciplina del lavoro subordinato applicabili ai rapporti di lavoro organizzati dal committente alla stregua dell’interpretazione della Corte di Appello di Torino, correttamente respinta dalla sentenza n. 1663 della Cassazione.
Proprio al fine di evitare l’evidente inconveniente di lasciare all’arbitrio del giudice questo arduo compito con il risultato che situazioni identiche potrebbero ricevere un trattamento diverso e viceversa, e prestarsi anche ad usi fraudolenti a seconda della diversa sensibilità del giudice.
Né si può sostenere, utilizzando un obiter dictum della Cassazione (par. 41) che fa riferimento a rapporti ontologicamente incompatibili con la disciplina del lavoro subordinato, che il legislatore consenta l’applicazione parziale della disciplina del lavoro subordinato ai rapporti per definizione riconducibili all’art. 2 comma 1.
Non mi sembra che la sentenza consenta questa interpretazione quando afferma espressamente “che non ha senso interrogarsi se queste forme di collaborazione così connotate…. siano riconducibili nel campo della subordinazione o dell’autonomia perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha stabilito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato” par. 25. E ancora al par. 26 “quando l’etero-organizzazione accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione rende il collaboratore comparabile ad un lavoro dipendente, si impone una protezione equivalente e quindi il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato.
5. Etero-organizzazione e coordinamento: differenze normative.
E invece, a mio avviso è importante tracciare una frontiera tra i rapporti di lavoro riconducibili nell’area dell’art. 2 comma 1 che possono essere subordinati e anche autonomi deboli contraddistinti da una sorta di subordinazione socio-economica e ai quali si applica integralmente la disciplina del lavoro subordinato e i rapporti di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c dove il coordinamento per espressa disposizione dell’art. 15 della legge n. 81 del 2017 è determinato di comune accordo tra le parti e quindi non è per definizione un potere unilaterale del committente, e come già dal 1979 avevo sommessamente sostenuto .
6. Ai sensi dell’art. 2 comma 2 solo la contrattazione collettiva può individuare una disciplina diversa da quella del lavoro subordinato e non l’interprete teorico e pratico.
Se veramente si vuole individuare una disciplina diversa da quella del lavoro subordinato e da quella degli artt. 47 bis anche con riferimento ai ciclofattorini, questo compito non compete all’interprete teorico e pratico, ma ai sensi dell’art. 2 comma 2 alle parti sociali che devono siglare un contatto collettivo per gli addetti a coloro che lavorano tramite le piattaforme digitali, come è avvenuto per gli addetti ai call center.
Se non interviene la contrattazione collettiva resta ferma l’applicazione a questi soggetti della disciplina integrale del lavoro subordinato o degli art. 47 bis e susseguenti del d.lgs. 81 prevista per i ciclofattorini.
7. I riders continuativi e non continuativi e la diversa disciplina applicabile.
A questo proposito non si può fare a meno di parlare della recente vicenda dei riders , e cioè di coloro che consegnano il cibo a domicilio.
Di recente il contratto collettivo della logistica è applicato anche ai riders con il riconoscimento di tutte le coperture assicurative e previdenziali, comprese la sanità integrativa e la bilateralità. La retribuzione base è di 867 euro lordi mensili e l’orario di lavoro di 39 ore settimanali distribuite in 6 giorni.
Ma bisogna aver presente che i riders quasi mai si relazionano con un unico contraente ma con un’applicazione dedicata ad una o più piattaforme e nessuna di queste piattaforme applica ai riders la disciplina del contratto collettivo della logistica anche perché i rappresentanti delle piattaforme come quelli dei riders non erano presenti al tavolo della trattativa per la conclusione di quel contratto.
Nella maggior parte dei casi è vero che i riders sottoscrivono contratti di collaborazione dove sembra che essi si comportino come meri contraenti d’opera o servizio perché formalmente sono liberi di accettare il singolo incarico ma nella sostanza, una volta accettato ciascun incarico, la loro attività è regolata da un “algoritmo che esercita un controllo pervasivo sull’attività svolta dal singolo riders e penalizza quei prestatori che non si adeguano al modello ideale di produttore (che presuppone la sottoposizione a turni massacranti di lavoro), stila la classifica dei più meritevoli e traccia le prestazioni dei singoli e le confronta. E quindi la piattaforma tramite l’algoritmo controlla la prestazione e sanziona i comportamenti non conformi a determinati standard” .
Si tratta quindi di un lavoro fortemente vincolato, nonostante fino all’accettazione dell’incarico il riders possa essere libero e autonomo.
Si potrebbe obbiettare che in questi casi si applica direttamente la disciplina del lavoro subordinato perché le modalità di esecuzione sono in realtà determinate dalla piattaforma digitale. A mio avviso è semmai preferibile applicare l’art. 2 comma 1 seconda parte: in primo luogo perché questa disposizione prevede espressamente per i lavoratori che operano nelle piattaforme anche digitali l’applicazione dell’art. 2 comma 1.
E in secondo luogo perché quando il rider promuove una controversia diretta ad accertare la natura subordinata del rapporto controverso, il committente può opporre la mancata disponibilità del lavoratore negli intervalli tra una chiamata e l’altra con la conseguenza che verrebbe meno il vincolo della dipendenza giuridica.
Bisogna avere presente, tuttavia, che il lavoro del rider può essere continuo ma anche discontinuo nel senso che nel primo caso il lavoratore risponde sempre alla chiamata e invece nel secondo caso non risponde sempre.
Solamente se il rapporto di lavoro del rider è continuo, allora è possibile ricondurre tale rapporto all’art. 2 comma 1 .
Viceversa, al rider che non presta attività in forma continuativa perché sceglie di volta in volta se rispondere alla chiamata e quindi rendere la prestazione, si applicano esclusivamente le tutele dettate dagli artt. 47 bis ss., le quali letteralmente non menzionano, e quindi non presuppongono la continuatività del rapporto di lavoro, a differenza di quanto accade nell’ipotesi prevista dall’art. 2 comma 1 che contempla espressamente i rapporti continuativi .
Si tratta del resto di casi nei quali intermittenza e discontinuità delle prestazioni dipendono proprio dalla mancata accettazione da parte del rider della proposta di esecuzione della prestazione proveniente dalla piattaforma.
Il legislatore ha voluto rafforzare peraltro la libera scelta del rider di accettare o no la chiamata, stabilendo che «l'esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione sono vietate» (art. 47 quinquies, comma 2; cfr. oltre)
Di converso, l’etero-organizzazione delle modalità esecutive non pare un criterio altrettanto affidabile per la selezione delle tutele applicabili ai rapporti in questione. E ciò in quanto l’art. 47 bis, comma 2, del d.lgs. 81 del 2015, chiarisce che, ai fini dell’applicazione dei livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi addetti alle consegne di beni tramite piattaforme anche digitali (v. oltre), si considerano piattaforme digitali «i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione» .
In merito al rilievo della libera accettazione del lavoratore, va ricordata la sentenza di Cassazione n. 1663 del 2020 laddove sottolinea che nel rapporto dei riders si riscontra un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto non tanto nella fase genetica dell’accordo, per la rilevata facoltà del lavoratore di obbligarsi o meno alla prestazione, quanto nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità della prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smarthphone.
Ciò detto non si vuole negare che anche il rider (ovviamente non quelli che hanno fatto ricorso contro la Foodora) possa e voglia godere di maggiore autonomia e quindi possa rifiutare un incarico o una serie di incarichi, ma non per questo ad esso devono essere negate determinate tutele nell’esecuzione della prestazione lavorativa.
Infatti, l’art. 47 bis del decreto n.101 del 2019 definisce i livelli minimi di tutela che sono applicati esclusivamente ai lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o di veicoli a motore … attraverso piattaforme anche digitali. Ne consegue che tale disciplina non si applica alle piattaforme che svolgono una funzione di mera intermediazione, che esclude per definizione un rapporto di lavoro autonomo con la piattaforma.
L’art. 47 quater comma 1 affida ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale la definizione dei criteri di determinazione del compenso. In difetto del contratto collettivo i fattorini non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate ma deve essere loro riconosciuto un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini. Pertanto, in assenza del contratto collettivo una clausola del contratto individuale che stabilisca il pagamento a consegna sarebbe nulla ex art. 1418 c.c. per violazione dell’art.47 quater comma 2 e verrebbe sostituita di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. dalla previsione del compenso minimo orario. E solo quando non si rinvengano contratti di settori affini il giudice può determinare il compenso secondo i parametri indicati dall’art. 2225 c.c.
L’art. 47 bis quinquies prevede l’estensione della disciplina antidiscriminatoria e quella posta a tutela della libertà e della dignità del lavoratore del lavoratore subordinato, ivi compreso l’accesso alla piattaforma .
Infine, va ricordato che la Cassazione, in assenza del controricorso e del ricorso incidentale dei ciclofattorini, ha confermato la sentenza della Corte d’appello di Torino.
Chiudo con questa domanda: quale sarebbe stato il responso della Suprema Corte se la difesa avesse presentato il ricorso incidentale? Non dò di proposito una risposta perché non voglio sostituirmi al giudice ma dalla motivazione si può desumere quale sarebbe stata la soluzione.
E tuttavia la soluzione adottata dalla Cassazione induce a ritenere che questa sentenza segna il primo tratto di un percorso che non si è ancora concluso.

 

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