Testo integrale con note e bibliografia

1. La sentenza con cui la Suprema Corte ha risolto (per ora) la vicenda degli odierni moto-fattorini guidati tramite piattaforma digitale (noti, e di seguito indicati, come “riders”), merita grande attenzione, non solo sotto il profilo strettamente esegetico, ma anche sotto il profilo sistematico, a sua volta rilevante ai fini della valutazione delle prospettive di politica legislativa che ispirano la normativa vigente.
In estrema sintesi, la Corte di legittimità concorda su tre punti con la Corte d’appello, ma la smentisce sotto due importanti profili, che peraltro non incidono sulla soluzione del caso concreto, non avendo i controricorrenti presentato ricorso incidentale, sicché il ricorso è stato rigettato.
La sentenza conferma l’impostazione del collegio torinese laddove esso, in ordine logico: (a) aveva ricondotto i riders al lavoro autonomo, in quanto essi erano liberi di accettare o meno le singole “chiamate”; (b) avendo riscontrato nei loro rapporti di lavoro gli estremi della “etero-organizzazione”, aveva dato applicazione all’art. 2, comma 1°, del d.lgs. n. 81/2015, il quale prescrive che, ai rapporti così caratterizzati, “a far data dal 1° gennaio 2016 si applic(hi) la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”.
Quest’ultima affermazione si basa sul presupposto - ed è il terzo profilo di assonanza - che la predetta norma del Jobs Act non sia - come sostenuto da autorevole dottrina e condiviso dalla sentenza di primo grado - una “norma apparente”, ma, come tutti “i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme”, una norma che richiede una esegesi aggiornata, tesa a conferirle “un senso, al pari di quanto l’art. 1367 cod. civ. prescrive per il contratto, stabilendo che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”; esegesi alla quale la S.C. procede attraverso una lettura “contestualizzata” della norma in questione, effettuata alla luce degli “interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte … alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche … ”.
Non è invece condivisa, in primo luogo, la tesi secondo cui il lavoro etero-organizzato sarebbe un tertium genus di contratto di lavoro, “avente caratteristiche tanto del lavoro subordinato quanto di quello autonomo, ma contraddistinto da una propria identità, sia a livello morfologico, che funzionale e regolamentare”; ma soprattutto, non è condivisa la conseguenza che dalla teoria del tertium genus (in combinato disposto con la natura autonoma del rapporto) la Corte d’appello aveva tratto, e cioè che non fosse “praticabile un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione”, dovendosi optare “per un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa approntate, limitata alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativa all’inquadramento professionale), i limiti di orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento”.
Il Giudice di legittimità, infatti, “non ritiene” che sia necessario inquadrare la fattispecie litigiosa … in un tertium genus, intermedio tra autonomia e subordinazione, con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile”; “più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione”; e conclude, con affermazione teoricamente impegnativa, che “si tratta … di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie”.
E’ meramente rafforzativa di tale pensiero, la ragionevole osservazione che, “Del resto, la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici”.
Altrettanto importante, però, è la successiva ammissione che “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.”: solo che da questa affermazione la S.C. non trae alcuna conseguenza nel caso concreto, trattandosi “di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte”.
Intendiamo di seguito svolgere alcune riflessioni, focalizzate non tanto sulla correttezza esegetica della sentenza qui commentata - che pure offre spunti critici - , quanto sulla coerenza sistematica dell’assetto normativo che ne scaturisce, e sulla linea di politica legislativa che da tale assetto risulta delineata.

2. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso - quando la “terza rivoluzione industriale”, segnata dall‘utilizzo dell'elettronica e delle tecnologie informatiche per automatizzare la produzione, raggiungeva il suo apice - , correva l’idea che la rivoluzione tecnologica avrebbe favorito la “fuga” dal lavoro subordinato verso il lavoro autonomo.
Già si profilava, invero, la “quarta rivoluzione industriale”, segnata all’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate ad internet, e dalla fusione tra mondo delle “cose” e mondo della comunicazione digitale (internet of things): ma si pensava che ciò avrebbe ulteriormente rafforzato la tendenza alla “liberazione” dal lavoro dipendente; e si ipotizzava di contrastare il fenomeno, aggiornando la nozione di subordinazione di ascendenza barassiana, sostituendola col nuovo paradigma della “dipendenza economica”.
La previsione (almeno la prima; della seconda diremo più avanti) è stata, com’è noto, smentita, a cominciare dalla “riforma Biagi” del 2003, cui pure si è generalmente imputato un eccesso di flessibilità tipologica: nella zona di confine tra subordinazione e autonomia, quella riforma si caratterizzò per il tentativo di costruire una fattispecie negoziale intermedia tra le due aree, realizzata attraverso una manipolazione restrittiva della nozione trans-tipica di “collaborazione coordinata e continuativa” (le “collaborazioni a progetto”), e sul piano regolativo, attraverso l’imputazione a detta fattispecie di tutele ridotte, secondo un principio di “proporzionalità” alternativo e antitetico rispetto all’idea dell’omologazione col lavoro subordinato.
Con l’avanzare della “quarta rivoluzione industriale” si va facendo sempre più chiaro che a cambiare non è il confine tra subordinazione e autonomia, ma il substrato comune a tutte le tipologie di lavoro e a tutti i tipi contrattuali, indipendentemente dal fatto che l’attività lavorativa venga dedotta in un contratto di lavoro subordinato o autonomo. Infatti, l’interconnessione tra sistemi fisici e digitali, se da un lato sta sconvolgendo - almeno in alcuni settori - , il postulato basico del “tipo sociale” della subordinazione, costituito dall’unità di spazio, tempo e azione, evocando così un’impressionistica parvenza di autonomia; dall’altro, sta imprimendo al lavoro autonomo prevalentemente personale e continuativo caratteri di forte integrazione con l’organizzazione aziendale, a loro volta , simmetricamente, evocativi di quell’”inserimento funzionale” eretto ab origine a indice sussidiario della subordinazione (di qui, la tesi secondo cui l’etero-organizzazione sarebbe nozione “apparente”, ripropositiva di un indice classico della subordinazione).
Accade allora che la “prima linea” dei lavoratori impattati dalle nuove modalità lavorative non sia costituita dall’immaginata aristocrazia dei knowledge workers, bensì, e nel contempo, sia dalla proiezione aggiornata di quello che un tempo chiamavamo ”l’operaio massa” (oggi simboleggiato dall’operatore munito di braccialetto digitale), sia dalla vasta schiera dei collaboratori autonomi “etero-organizzati”.
In questo passaggio storico, e venendo a tempi più recenti, abbiamo assistito al tentativo di fondare su basi più corrette ed efficaci l’esigenza di realizzare un riequilibrio delle tutele del lavoro.
Ciò è avvenuto, dapprima, con la legge n. 91/2012 (cd. “Legge Fornero”), che operava ancora al margine delle stesse collaborazioni a progetto, facendo largo uso della tecnica dei divieti, nonché di presunzioni relative ispirate all’idea della dipendenza economica: col risultato di aumentare la confusione e l’incertezza, senza aumentare le tutele.
Infine, con il cd. Jobs Act, si è abbandonata l’idea che il “lavoro a progetto” potesse essere il centro d’imputazione di un diritto del lavoro “minore”, riservato a una fetta “sottoprotetta” di lavoratori autonomi, abbracciandosi invece l’idea che un diritto del lavoro reso flessibile non solo e non tanto sul piano tipologico, quanto sul piano funzionale (mansioni, ius variandi, controlli tecnologici, sanzioni per i licenziamenti illegittimi), avrebbe finalmente potuto accogliere senza eccessivi traumi i lavoratori autonomi “in cerca di tutela”.
Il quadro era complicato, e lo è diventato di più cammin facendo, per due essenziali ragioni.
Intanto, il disegno di flessibilizzazione funzionale del diritto del lavoro ha incontrato (e continua a incontrare) notevoli resistenze, anche nell’applicazione giudiziaria e nell’interpretazione accademica, fino a subire, nell’ultimo biennio, una parziale inversione di rotta (a partire del cd. “decreto dignità”): ciò che rende politicamente meno praticabile la riconduzione di una larga fascia di lavoratori autonomi al diritto del lavoro.
La seconda e decisiva ragione sta nel fatto che nemmeno il Jobs Act aveva sciolto il nodo centrale, consistente nella scelta del paradigma normativo cui ispirare una disciplina protettiva di stampo giuslavoristico da estendere a determinate fasce di lavoratori autonomi: se, cioè, i beneficiari di tale disciplina debbano individuarsi in virtù di uno stato di sottoprotezione giuridica inerente all’assoggettamento ex contractu a una qualche posizione di potere della controparte (potere direttivo, di coordinamento, di coordinamento qualificato, per es., l’“etero organizzazione”); o se si tratti di offrire adeguata protezione sociale (in primis, di sicurezza sociale e nel mercato del lavoro) a soggetti che lavorano in condizione di debolezza o dipendenza economica.
Non avere sciolto questa questione basilare, è, a ben vedere, alla radice anche del problema qualificatorio e disciplinare sul quale ha impattato l’arresto giurisprudenziale che occasiona queste note: essa implica infatti, sul piano interpretativo, il dilemma se la norma del Jobs Act sia - con le parole del S.C. - , una “norma di fattispecie” o “di disciplina”; se, cioè, si sia in presenza di una sostituzione della fattispecie di imputazione del diritto del lavoro (subordinazione ex art. 2094 c.c., con etero-organizzazione ex art. 2 del Jobs Act), o se una medesima disciplina (il diritto del rapporto di lavoro subordinato) trovi applicazione a due distinte fattispecie.
La risposta che la Corte d’appello aveva dato - trattarsi di due diverse fattispecie negoziali, due tipi contrattuali diversi ai quali si applica una disciplina diversa, in virtù dell’applicazione selettiva all’una (lavoro etro-organizzato) della disciplina propria dell'altra (lavoro subordinato) - era sistematicamente più plausibile, ma esegeticamente assai dubbia (per le ragioni illustrate dalla Corte di Cassazione e già divisate).
Ma la risposta della Corte di Cassazione - stessa e integrale disciplina per due fattispecie diverse - , di problemi ne solleva almeno due: (a) lascia sconcertati sul piano logico-sistematico, poiché la fattispecie è per l’effetto, e non può darsi diversità di fattispecie con identità di effetti; (b) non convince laddove pretende di giustificare l’aporia distinguendo il tipo legale (che sarebbe e resterebbe uno: quello di cui all’art. 2094 c.c.) dalla neo-fattispecie cui il legislatore si sarebbe limitato a “ricollega(re) imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione”. Infatti, che il lavoro etero-organizzato non sia un nuovo tipo legale, ma rientri nel tipo “contratto d’opera”, nulla toglie al fatto che si tratti di una fattispecie astratta alla quale il diritto ricollega i medesimi effetti del contratto di lavoro subordinato; cosicché, “contratto di lavoro subordinato” e “collaborazione autonoma etero-organizzata”, produrrebbero i medesimi effetti giuridici, e dunque sarebbero, nel mondo del diritto, la stessa cosa.
E’ peraltro probabile che l’insistenza della Corte su questo aspetto si spieghi con la necessità di prendere posizione sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente, sulla base dell’argomento che, ove la norma del Jobs Act dovesse interpretarsi “come norma di fattispecie, come norma cioè idonea a produrre effetti giuridici e a dar vita a un terzo genere di rapporto lavorativo, a metà tra la subordinazione e la collaborazione coordinata e continuativa”, allora essa avrebbe violato la delega contenuta nella legge n. 183/2014, la quale autorizzava “il legislatore delegato a riordinare le tipologie contrattuali esistenti, ma non a crearne di nuove”. E infatti la S.C. supera la censura osservando che “la questione sollevata non ha più ragione di essere, avendo questa Corte ritenuto l’art. 2, comma 1, D.Igs. n. 81 del 2015 norma di disciplina e non norma di fattispecie, dovendosi escludere che essa abbia dato vita ad un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, per cui non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante”.
Per concludere sul punto, non possiamo astenerci dall’osservare che la presunta distinzione tra “norma di fattispecie” e “norma di disciplina” ha senso, solo a condizione che la norma di disciplina sia intesa come norma che detta regole nuove e diverse per la medesima fattispecie; e che la norma di fattispecie sia intesa come norma che sostituisce una fattispecie con un’altra, quale presupposto per la produzione di effetti che possono essere invariati o diversi. Invece, la norma di cui parliamo pretende (o meglio, la Corte Suprema pretende di interpretarla come se mirasse a) ricollegare effetti integralmente identici a due fattispecie diverse.
Inoltre - ma questo non è imputabile al Giudice di legittimità, essendo questione di politica del diritto - , la S.C. offre oggettivamente una sorta di legittimazione sistematica a un’operazione che si pone in contraddizione e in controtendenza rispetto a un importante sviluppo normativo di poco successivo rispetto al Jobs Act - quale il cd. “Statuto dei lavoratori autonomi” recato dalla legge n. 81/2017 - , rispetto al quale - come più avanti diremo - sarebbe più coerente un nuovo intervento legislativo orientato verso l’applicazione selettiva e non integrale del “diritto del rapporto di lavoro subordinato” al lavoro autonomo etero-organizzato.

3. In discussione non è, ovviamente, il destino dei moto-fattorini del secondo millennio: questi hanno solo fatto da detonatore al tema del lavoro del secondo millennio, che sarà sempre più “lavoro su piattaforma digitale” , sempre più lavoro a distanza o da remoto, sempre più misurato in base al rendimento lato sensu inteso e non in base alla durata; e ciò - questo è il punto - indipendentemente dalla sua natura subordinata, autonoma, libero-professionale, perfino continuativa piuttosto che occasionale.
Non deve sorprendere, allora, che a soggetti tutto sommato marginali del mercato del lavoro, quali i riders, attualizzazione dei moto-fattorini che hanno impegnato la giurisprudenza negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, sia toccato assurgere, assieme ai taxisti di Uber, a prototipo dei lavoratori su piattaforma digitale: è alla più vasta e crescente congerie di questi ultimi, infatti, che il legislatore effettivamente guarda, quando definisce i riders come “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore, attraverso piattaforme anche digitali”; e soprattutto quando detta quella che può considerarsi la “vera” norma di fattispecie, definendo (sia pure, prudentemente, “Ai fini di cui al comma 1”) “piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzate dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”) (art. 47-bis, d.lgs. n. 81/2015, introdotto dalla legge n. 128/2019).
Si noti: la legge, dopo averli qualificati come “lavoratori autonomi” (il che ovviamente non esclude che possano non esserlo, ove ricorra l’eterodirezione), dà per scontato che siano (o meglio, ammette che possano essere) collaboratori etero-organizzati (“Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 2, comma 1”); e infine, detta per loro una disciplina speciale integrativa (in deroga) rispetto a quella del “rapporto di lavoro subordinato” applicabile in quanto, appunto, etero-organizzati.
Ciò non può interpretarsi in altro modo, se non nel senso che il lavorare venendo coordinati da una piattaforma digitale (o, come oggi si dice, “da un algoritmo”), non costituisce assoggettamento a potere direttivo ex art. 2094 c.c., bensì a etero-organizzazione ex art. 2, comma 1, del Jobs Act; donde la conferma che quella di cui al Jobs Act non è norma modificativa della nozione di subordinazione e del correlato tipo negoziale, bensì norma che riconduce a una fattispecie di lavoro autonomo, prevalentemente personale ed etero-organizzata, effetti propri del tipo negoziale di cui all’art. 2094 c.c. .
Di qui ancora, la conferma che la portata normativa della neo-fattispecie dell’etero-organizzazione non consiste nella modificazione del tipo legale ex art. 2094, ma semmai nel superamento del tipo sociale del lavoro subordinato, fino a ieri caratterizzato dal coordinamento spazio-temporale della prestazione, e quindi dall’integrazione funzionale nell’organizzazione datoriale; e oggi invece possibile, per espressa previsione del legislatore, anche nella modalità “agile”, senza coordinamento spazio-temporale.
Si delinea allora con chiarezza che l’etero-organizzazione (tipo negoziale o presupposto di applicazione di una disciplina legale, che sia) né si identifica con la subordinazione (come sostiene la teoria della “norma apparente), né è una subordinazione attenuata (come si diceva fino a ieri del “coordinamento”). Piuttosto, è il modo in cui il coordinamento del committente si esplica nelle organizzazioni, laddove queste siano così sofisticate da sostituire il coordinamento tramite atti di esercizio di un potere, con condotte conformate dall’organizzazione medesima.
In altre parole, l’etero-organizzazione, lungi dall’essere un sottoprodotto della subordinazione (o addirittura dall’identificarsi con essa), è una derivazione del coordinamento: come dimostra il fatto che la stessa nozione di “coordinamento” è stata riformulata in termini radicalmente consensualistici, prevedendosi che esso sussiste “quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento” (sic !) “stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa”.
Ciò è ben compreso dalla Corte di Cassazione, laddove afferma che “se l’elemento del coordinamento dell’attività del collaboratore con l’organizzazione dell’impresa è comune a tutte le collaborazioni coordinate e continuative, secondo la dizione dell’art. 409, comma 3, cod. proc. civ., nel testo risultante dalla modifica di cui all’art. 15, comma 1, lett. a) della legge n. 81 del 2017, nelle collaborazioni non attratte nella disciplina dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015 le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione tali modalità sono imposte dal committente, il che integra per l’appunto la etero-organizzazione che dà luogo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato”.
Il disegno è chiaro: per un verso le collaborazioni (continuative) coordinate consensualmente sono definitivamente sottratte alla sfera d’influenza del lavoro subordinato; per l’altro, le collaborazioni (continuative) coordinate da un’organizzazione esterna (e tendenzialmente impersonale), sono attratte disciplinarmente nell’area della subordinazione.
Il prototipo normativo di tale disegno è costituito dalla disciplina dei riders: una disciplina che, se per un verso, ex art. 2 del Jobs Act, è ricondotta a quella “dei rapporti di lavoro subordinato”, per l’altro è sottratta, e per non insignificanti tratti, a questa disciplina, in virtù di una normativa speciale che deroga, o consente alla contrattazione collettiva di derogare, alla disciplina lavoristica, su punti importanti quali la determinazione dell’ammontare e delle modalità della retribuzione, ispirandosi, comunque, all’obiettivo di stabilire “livelli minimi di tutela per” tale categoria di “lavoratori autonomi”.
Inoltre, ai predetti lavoratori deve sicuramente ritenersi applicabile il 2° comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, che, com’è noto, esclude dall’ambito di applicazione del 1° comma, e quindi tout court dall’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, le collaborazioni etero-organizzate cui siano applicabili i trattamenti economici e normativi stabiliti dai qualificati “accordi collettivi nazionali” di cui alla lettera a) del predetto comma.

4. Quello di “etero-organizzazione” è dunque un concetto veritiero, ma da utilizzare in termini di indirizzamento selettivo di una parte dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa verso la disciplina del lavoro subordinato (quella che la S.C. definisce in termini di “norma di disciplina”), e non di ridefinizione della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro.
Il Supremo Collegio, per la verità, ipotizza pure che l’art. 2 del Jobs Act possa leggersi in una logica “rimediale”: essa, cioè, rinverrebbe “in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela rafforzata nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati deboli) cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati”.
Orbene, la lettura rimediale così prospettata, non interessa tanto per la sua idoneità a sfuggire dalla strettoia tra “norma di fattispecie” e “norma di disciplina” - ché anzi, sotto questo profilo, essa ci sembra una variante semantica della teoria della “norma di disciplina”, con tutte le sue già illustrate debolezze - , quanto perché evoca un approccio “sanzionatorio” al problema della disapplicazione delle tutele giuslavoristiche: un approccio, cioè, anti-elusivo, basato su tecniche diversamente denominate quali la ”conversione”, la “trasformazione” automatica o ex lege della fattispecie elusiva in quella “subordinata”, o ancora sul “considerare” detta fattispecie come “subordinata” ai fini dell’applicazione del diritto del lavoro, o infine sulla presunzione assoluta del ricorrere di tale fattispecie. Letta in questi termini, la norma del Jobs Act potrebbe leggersi come norma che sanziona il ricorso a finti rapporti di lavoro autonomo (le collaborazioni non semplicemente coordinate, ma “etero-organizzate”) con l’applicazione del diritto dei rapporti di lavoro subordinato.
Sarebbe, però, una soluzione controtendenza e antistorica.
Ci aveva già provato la riforma Biagi con le collaborazioni coordinate e continuative, riqualificate ex lege come subordinate se prive del famigerato “progetto”; e sappiamo com’è andata a finire.
Perseverando in quell’approccio, oggi si tratterebbe prendere atto che il coordinamento è compatibile con il lavoro autonomo, solo se basato su un accordo (principio consacrato dall’ art. 409 c.p.c., come novellato dalla legge n. 81/2017), e che quindi le collaborazioni coordinate unilateralmente, in assenza di un accordo, sarebbero equiparabili alle “collaborazioni senza progetto” della riforma Biagi.
Ma il precedente più illustre della tecnica “sanzionatoria” è quello della legge sul divieto di interposizione (legge n. 1369/1960): all’utilizzatore del lavoro altrui erano imputati ex lege rapporti di lavoro intercorsi con un intermediario, per il sol fatto che questi fosse tale, essendosi limitato ad assumere e retribuire la manodopera, senza effettivamente gestirla; o addirittura per il solo fatto che impiegasse capitali, macchine e attrezzature fornite dall'appaltante: sicché non rilevava la sussistenza del vincolo di subordinazione tra lo pseudo-appaltante e i lavoratori, ma il mero fatto della mancanza di autonomia imprenditoriale dell’appaltatore.
Analogamente, oggi la norma sull’etero-organizzazione sancirebbe l’applicazione del diritto del lavoro subordinato, per il solo fatto che la prestazione sia conformata da un’organizzazione, a nulla rilevando l’assenza del vincolo della subordinazione.
Senonché, l’impostazione della legge repressiva dell’interposizione di manodopera è stata superata dall’art. 29 della riforma Biagi, che ha ricondotto la fattispecie alla logica qualificatoria che fà capo all’art. 2094 c.c., stabilendo essere dipendente del committente chi sia assoggettato al suo potere organizzativo e direttivo.
La legge del 1960 era una norma che, per scopi repressivi, sovrapponeva e aggiungeva alla “regola di fattispecie” - per cui è datore di lavoro chi, in quanto titolare di un’organizzazione, esercita il potere direttivo - , una regola sanzionatoria, non a caso basata su presunzioni assolute, e corredata penalmente.
Con la “riforma Biagi” si supera la disciplina anti-interpositoria e si torna all’approccio sistematico o “della fattispecie”: la distinzione tra appalto e somministrazione (irregolare), infatti, torma a essere posta in termini di fattispecie (è datore di lavoro che esercita a giusto titolo il potere direttivo), abbandonandosi (sul piano sistematico, non su quello degli effetti) l’impostazione sanzionatoria; torna sul proscenio il potere direttivo, mentre cade la presunzione assoluta legata alla carente autonomia dell’impresa appaltatrice; svanisce il momento sanzionatorio (che si concentra, semmai, sul piano pubblicistico) e prevale il momento qualificatorio (art. 2094 c.c.).
Di ciò si trovano tracce evidenti in quella giurisprudenza che ricostruisce il meccanismo dell’art. 1, comma 5° della legge n. 1369/1960 (oggi sostanzialmente riprodotto nell’ art. 29, c. 3-bis del d.lgs. n. 276/2003, che continua a descriverlo in termini di sanzione a fronte di un “appalto illecito”) a partire dall’art. 2094 c.c., cioè affermando che “… ai fini dell’imputazione dei rapporti di lavoro de quibus, … non è indispensabile l’applicazione della L. n. 1369 del 1960. … la L. n. 1369 del 1960, art. 1 è meramente ricognitivo di principi già noti in dottrina e giurisprudenza civilistiche, con l’aggiunta della scorciatoia probatoria costituita dalla presunzione assoluta di interposizione in caso di proprietà, in capo all’appaltatore, dei mezzi di produzione utilizzati dai lavoratori formalmente inquadrati alle dipendenze del soggetto appaltante… al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge (od elaborate in via giurisprudenziale, come nel caso di distacco all’interno del rapporto di lavoro privato) e anche a prescindere dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1 già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore” (Cass. n. 22894/2011).
Che è poi quanto ab origine sostenuto da Oronzo Mazzotta, quando osservava che la subordinazione resta l’unico criterio per distinguere il vero datore da quello fittizio, poiché la grammatica concettuale spesa per l’individuazione dei tratti del lavorare in modo subordinato è la stessa utilizzata per le fattispecie interpositorie.

5. Sarà pure in controtendenza affermarlo, ma esigenze sistematiche, di chiarezza e certezza del diritto, e non da ultimo, di normalizzazione regolativa (il diritto non può essere perennemente a caccia di condotte da sanzionare), ci paiono invocare un ritorno alla “logica della fattispecie”, contro quella “degli effetti”.
La conversione sanzionatoria è contro il principio di realtà: si considera subordinato chi non è tale, per sanzionare una collaborazione etero-organizzata (o un appalto simulato).
Se ne accorgerà la giurisprudenza, quando inizierà a trovarsi di fronte a casi in cui il committente opporrà, al collaboratore etero-organizzato che invoca la tutela lavoristica contro il demansionamento, l’inapplicabilità dell’art. 2103 cod. civ. a un rapporto di lavoro autonomo, che per definizione (non contemplando il potere direttivo) non contempla (nemmeno) il ius variandi; e il collaboratore etero-organizzato opporrà al committente che allora, a fortiori, non poteva essergli mutata la mansione senza il suo consenso, e via discorrendo sul terreno del paradosso; oppure quando scoprirà l’esistenza di miriadi di “etero-organizzati” che vengono pagati a provvigione e non a tempo, ai quali sarà poco meno che un rompicapo applicare tabelle retributive dettate da contratti collettivi che regolano rapporti di lavoro subordinato.
Del resto, la Corte di Cassazione questo problema l’ha avvertito, quando ha onestamente ammesso che “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.”; solo che, saggiamente, quel problema non da poco lo ha rimesso al legislatore.
Fatto sta, che l’assetto risultante del sia pur autorevole arresto giurisprudenziale sul caso dei riders non crediamo abbia messo la parola fine, né sul caso specifico, né tanto meno sull’applicazione giurisprudenziale della figura del lavoro etero-organizzato. E c’è da credere che non abbia messo fine nemmeno al secolare dibattito sulla definizione e sulla imputazione delle tutele lavoristiche.

6. Ciò a cui che queste brevi note mirano è l’indicazione di una traccia, nel contempo, esegetica e di politica legislativa, idonea a dare compattezza sistematica al quadro normativo vigente, ponendosi nella logica della continuità col passato, sotto il profilo della permanente centralità della nozione di subordinazione consacrata dall’art. 2094 c.c..
Iniziamo allora col ricordare che il coordinamento della prestazione lavorativa nello spazio e nel tempo non è mai stato considerato elemento della fattispecie descritta dall’art. 2094 c.c., ma come un mero indice sussidiario al quale ricorrere nei cdd. “casi dubbi”, in cui l’assoggettamento al potere direttivo è meno facilmente riscontrabile in considerazione della peculiarità delle opere prestate.
Il neonato “lavoro agile” sta a dimostrarlo: si tratta, all’evidenza, di lavoro etero-diretto, ma non etero- organizzato.
Se infatti, dopo la novella introdotta con la legge n. n. 128/2019, non può dubitarsi che il lavoro etero-organizzato resti tale anche se manca il coordinamento spazio-temporale della prestazione, è altrettanto certo che il lavoro agile esclude addirittura detto coordinamento, posto che “la prestazione lavorativa viene eseguita … senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
E allora, se il lavoro agile non è subordinato in quanto etero-organizzato nello spazio e nel tempo, perché è subordinato ? La risposta non può essere che è subordinato perché è etero-diretto.
E dunque l’art. 2094 c.c., con il suo assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro, resta il riferimento obbligato ed esclusivo della nozione di subordinazione; e ciò, nonostante la obsolescenza del cd. “tipo sociale”, imperniato sul lavoro scandito da luogo e tempo, in quanto “inserito funzionalmente” nella cd. “fabbrica fordista”.
La verità è che ad essere invecchiato, contro tutte le previsioni, è stato il tipo sociale, con il connesso “metodo tipologico”; non il “tipo legale” col correlato”metodo sussuntivo”.
Simmetricamente, le collaborazioni coordinate e continuative non diventano “subordinate” solo perché scandite nel luogo e nel tempo, o comunque inserite funzionalmente nell’impresa: come il lavoro agile è lavoro etero-diretto ma non etero organizzato, così il lavoro etero-organizzato è lavoro non etero-diretto (autonomo), ma coordinato attraverso l’organizzazione.
Che la nozione di subordinazione non sia mutata, e che la volontà del riformatore del 2015 non fosse quella dell’applicazione sic et simpliciter del “diritto del rapporto di lavoro”, lo attestano, oltre alla stessa disciplina speciale dettata per i riders, le “esclusioni” previste dal comma 2° dell’art. 2 del d.lgs. n.81/2015, soprattutto quella imperniata sul rinvio all’autonomia collettiva, alla quale non è dato un potere (ri)qualificatorio, ma regolativo: in presenza della regolazione collettiva delle condizioni economiche e normative del rapporto dei rapporti di collaborazione etero-organizzati, è la legge (non l’accordo collettivo) a sancire la disapplicazione del diritto del lavoro subordinato (anche nelle parti non disciplinate dall’accordo collettivo).
Ma c’è dell’altro.
Che la nozione di subordinazione non sia mutata, e che la volontà del legislatore non sia quella dell’applicazione sic et simpliciter del “diritto del rapporto di lavoro”, lo conferma anche lo “statuto dei lavoratori autonomi” varato nel 2017, la cui ratio è, con tutta evidenza, quella di dare avvio a una politica del diritto ispirata all’idea di una tutela lavoristico-previdenziale graduata e mirata per liberi professionisti, prestatori d’opera continuativi, collaboratori coordinati e continuativi.
Si noti, a tale proposito (pochi l’hanno fatto) che lo “statuto dei lavoratori autonomi” contempla una categoria di nuovo conio, quale quella dei collaboratori autonomi (semplicemente) continuativi, distinti da quelli “coordinati e continuativi”: come laddove considera “abusive e prive di effetto le clausole che attribuiscono al committente la facoltà … , nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso” (art. 3, comma 1°, della legge n. 81/2017); ovvero laddove detta norme di tutela a fronte della ”gravidanza, la malattia e l'infortunio dei lavoratori autonomi che prestano la loro attività in via continuativa per il committente” (art. 14, comma 1°).
Ciò conferma che i “collaboratori etero-organizzati” sono da intendersi come un genus dei collaboratori continuativi, i quali, se coordinati tramite patto, sono “coordinati e continuativi”; e se coordinati tramite la stessa organizzazione, sono “etero-organizzati”.
Si tratta di una politica del diritto che adotta come criterio regolativo, proprio quella dipendenza economica che fino a qualche anno fà si candidava a fare da nuovo paradigma regolativo del lavoro subordinato: sicché la dipendenza economica trasmigra definitivamente dal lavoro subordinato al lavoro autonomo.

7. La verità è che si prefigura una nuova centralità del lavoro autonomo, provocata non già dall’esplosione quantitativa del fenomeno, bensì dall’acquisita consapevolezza, da parte del legislatore, della diversa ratio della protezione legale, laddove essa faccia prevalentemente capo, rispettivamente, alla situazione di debolezza economica e nel mercato del lavoro (“dipendenza economica”) di lavoratori autonomi, piuttosto che alla soggezione all’altrui potere direttivo: ciò non può che condurre a un nuovo complessivo assetto delle tutele, ispirato, ancora una volta, ai principi di adeguatezza e proporzionalità, e segnato da una distinzione tra le protezioni afferenti al rapporto intersoggettivo (lavoro subordinato) e quelle afferenti alla previdenza sociale (pubblica e privata).
Dobbiamo in effetti constatare come il problema della tutela (e promozione) giuridica del lavoro autonomo abbia potuto porsi solo nel momento in cui, a seguito di una lunga parabola normativa, è stato faticosamente avviato a soluzione, col Jobs Act, quello del lavoro “parasubordinato”; quando, cioè, con un finale “a sorpresa”, la disciplina giuridica delle “collaborazioni coordinate e continuative” ha finito per imboccare un doppio binario: da un lato, quello del lavoro “etero-organizzato”, quale nuova fattispecie di imputazione di tutele giuslavoristiche; dall’altro, quella del lavoro personale continuativo e coordinato - ossia, nient’altro che la “vecchia” fattispecie di cui all’art. 409 c.p.c., come autenticamente interpretata dall’art. 16 della legge n. 81/2018 - .
Certo, non è chiaro - ed è questione di non poco conto - se l’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, abbia inteso estendere ai collaboratori “etero-organizzati” l’intera disciplina del lavoro subordinato, comprensiva delle norme di tutela che presuppongono l’assoggettamento al potere datoriale di etero-direzione della prestazione lavorativa, nonché di quella previdenziale; o se invece miri a disegnare una sottocategoria di lavoratori autonomi ai quali il diritto del lavoro si applica cum grano salis - in ipotesi, essenzialmente con riferimento ai minimi retributivi e alle norme di garanzia in materia di indisponibilità dei diritti e rito processuale - , mentre il diritto previdenziale continuerebbe ad applicarsi secondo i propri e specifici criteri di imputazione (sarebbe - sia detto per inciso - paradossale che a una species del genus “collaborazione continuativa” non si applicasse la “gestione separata”).
Quel che è certo, è che il lavoro coordinato e continuativo non etero-organizzato è stato definitivamente sottratto al magnetismo del lavoro subordinato, finendo per confluire nel più vasto ambito regolativo di uno “Statuto dei lavori autonomi” di nuova concezione, ad amplissimo e variabile perimetro soggettivo, a vocazione non solo protettiva ma anche promozionale e di sostegno, a metà tra il diritto del lavoro e quello commerciale: uno “Statuto” da considerarsi come un cantiere aperto e in via di costruzione.
Si tratta del nuovo contesto regolativo inaugurato dalla legge n. 81/2018 recante “misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale”, nel cui ambito confluiscono sottocategorie di lavoratori autonomi destinatari di tutele differenziate in funzione del bisogno effettivo di tutela.

8. E’ dunque in atto un processo di diversificazione normativa che colpisce sia l’area del lavoro subordinato che quella del lavoro autonomo, tale per cui, mentre nella prima area si registra, soprattutto con la disciplina del “lavoro agile”, una intensa flessibilizzazione delle modalità spazio-temporali della prestazione, che risponde a irreversibili mutamenti tecnologici e socio-economici, ma che non postula il distacco dal contratto di lavoro subordinato; nella seconda area si registra una simmetrica tendenza a disegnare, per i lavoratori autonomi, tutele proporzionate al loro grado di debolezza e dipendenza economica: a seconda, cioè, che si tratti di liberi professionisti, di collaboratori coordinati e continuativi, o di collaboratori etero-organizzati.
E’ questa la prospettiva adottata dalla legge n. 81/2017: non quella di un lavoro subordinato e di un diritto del lavoro in declino, ma quella di un diritto del lavoro che allarga i suoi spazi, senza pretese di annessione, verso il mondo variegato del lavoro autonomo.
In questo nuovo scenario, la vecchia categoria del lavoro “parasubordinato” conquista una nuova centralità, non tanto nella regolazione del rapporto col committente (che resta adesso assorbita nella più ampia prospettiva della promozione del lavoro autonomo tout court, e quindi dello “statuto dei lavoratori autonomi”), quanto nella prospettiva della tutela previdenziale; una prospettiva in cui la continuatività della prestazione assurge a profilo selettivo di fattispecie e di disciplina, anche indipendentemente dal “coordinamento” del committente, così disegnandosi una nuova e più vasta area di “protezione del lavoro autonomo”, estesa oltre i confini della “parasubordinazione”.
In un siffatto scenario, la corretta collocazione del lavoro etero-organizzato non pare essere quella del lavoro subordinato, ma semmai quella della applicazione selettiva e non integrale di tutele proprie del lavoro subordinato: come accade nel Regno Unito per i workers, distinti dagli employees; o, e da più lungo tempo, in Germania per le “arbeitnehmerähnliche Personen” (persone simili ai lavoratori subordinati).

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