Testo integrale con note e bibliografia

Questo scritto è destinato agli Scritti in onore di Oronzo Mazzotta, in corso di pubblicazione.

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Se alla fine il Covid-19 avrà avuto l’effetto di allargare la sperimentazione del lavoro agile, o smart work, e farne conoscere i possibili vantaggi, questo sarà un pur piccolo contrappeso positivo ai molti e gravissimi danni prodotti dall’epidemia.

Alla vigilia della pandemia questa forma di organizzazione del lavoro dipendente era ancora molto meno diffusa di quel che avrebbe potuto essere, anche perché era conosciuta poco o in modo troppo impreciso: erano poco comprese le enormi sue potenzialità sul terreno del risparmio dei tempi di spostamento delle persone e dei costi logistici aziendali, ma anche sul terreno della riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento. A quasi un anno di distanza questo dato è mutato in maniera impressionante.

1. Che cosa si intende col termine “lavoro agile” e la sua differenza dal “tele-lavoro”

Lo smart work o lavoro agile, è la prestazione lavorativa che, pur svolta in regime di subordinazione, si caratterizza tuttavia per il fatto di essere svincolata per alcuni periodi della settimana, del mese o dell’anno dall’obbligo di svolgersi in un determinato luogo piuttosto che in un altro; e, nella versione più spinta, dall’obbligo di svolgersi secondo un determinato orario. Il coordinamento spazio-temporale, che caratterizza da sempre il lavoro subordinato tradizionale, è sostituito dal coordinamento informatico e telematico, il quale consente alla persona interessata di compiere il proprio lavoro mediante pc e Internet dal luogo liberamente scelto, purché sia possibile l’interconnessione stabile, o almeno la comunicazione e lo scambio di dati in tempo reale con l’azienda.

L’antecedente storico del lavoro agile è il tele-lavoro, che ha avuto qualche diffusione già negli anni ’80 ed è stato oggetto di accordi aziendali in alcune grandi imprese. Ma si tratta di una cosa molto diversa: il telelavoro era una forma di organizzazione tutt’altro che agile. Comportava infatti l’istallazione presso l’abitazione del lavoratore o in altro luogo concordato di una postazione attrezzata fissa assai ingombrante, con una consolle e un monitor, collegata con l’azienda via cavo o via radio, mediante la quale la persona interessata svolgeva a distanza, esattamente come la avrebbe svolta recandosi in azienda, un’attività di contenuto professionale per lo più modesto: mansioni di centralino, di call centre, e simili. Il tele-lavoro, dunque, non consentiva affatto la libera scelta e variabilità del luogo e del tempo di svolgimento dell’attività. Implicava un ingente investimento da parte dell’impresa ed era compatibile soltanto con un novero assai ristretto di mansioni.

Il lavoro agile, invece, non richiede un investimento rilevante, è praticabile in una gamma amplissima di mansioni, ed è particolarmente congeniale a quelle di contenuto professionale più elevato. Dalla metà degli anni ’90 accade sempre più diffusamente che un lavoratore dipendente, d’accordo con l’imprenditore, in determinati periodi nella giornata, nella settimana, nel mese o nell’anno, svolga la prestazione da un luogo qualsiasi, liberamente scelto di volta in volta, diverso dalla sua postazione situata nei locali dell’azienda. E in alcuni casi non sono dei singoli segmenti, ma è l’intera prestazione di lavoro a essere svolta secondo questa modalità: il lavoratore in azienda ci va solo ogni tanto, o in alcune occasioni particolari, ma per il resto del tempo è contattabile solo via telefono, email o altre forme di comunicazione telematica.

2. Il rischio della iper-giuridificazione

Oggi l’“agilità” dello smart work rischia di perdersi, almeno in parte, se essa viene facogitata dal business della burocrazia giuslavoristica, incominciando così a essere appesantita da regole, verbalizzazioni, scartoffie e ricorsi.

A ben vedere, questo processo è già cominciato con la legge n. 81 del 2017, che ha avuto, sì, il merito di riconoscere il diritto di cittadinanza del lavoro agile nell’ordinamento, ma ha avuto anche il demerito di introdurre qualche primo elemento di burocrazia che sarebbe stato meglio evitare. Passi l’obbligo della pattuizione originaria in forma scritta (anche se prima del 2017 se ne è fatto a meno senza che se ne sentisse la mancanza); oggi al requisito della forma scritta potrebbe utilmente agganciarsi una regola di default, che preveda l’accollo al datore degli eventuali costi aggiuntivi – in particolare quello per il collegamento alla rete – derivanti dal lavoro da remoto, salva espressa pattuizione contraria. Ma se si impone che la scrittura definisca anche “le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro” (articolo 16 della legge n. 81/2017), si obbliga l’imprenditore ad avvalersi di un consulente. E si allarga la materia del possibile contenzioso giudiziale. L’articolo 19 prevede, poi, l’obbligo per l’imprenditore di consegnare “al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale siano individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”: altre scartoffie, altro lavoro per consulenti, avvocati, ispettori e giudici. Costi di transazione inutili, perché il lavoro agile non presenta di per sé alcun rischio aggiuntivo rispetto al lavoro svolto in azienda (come risulta inequivocabilmente dal modello di informativa per lo smart worker diffuso dall’Inail. A meno che non ci si voglia riferire alla difficoltà di controllo della quantità di lavoro svolto e allo stress che può derivarne; ma questo non è un “rischio”: è una caratteristica intrinsecamente propria del lavoro liberato da qualsiasi vincolo di coordinamento spazio-temporale con il resto dell’organizzazione aziendale.

La realtà è che non perdiamo occasione per promettere agli operatori economici semplificazione normativa e abolizione degli adempimenti inutili, ma – se si eccettua la maggior parte dei decreti legislativi del 2015 – ogni volta che il legislatore si occupa di lavoro scattano come un riflesso condizionato i tradizionali eccessi di giuridificazione e burocratizzazione del rapporto.

Il vero rischio è che il processo di giuridificazione prosegua con il consolidarsi per legge di un “diritto al lavoro agile” che è già stato introdotto per decreto in riferimento all’emergenza sanitaria, sia per il settore pubblico sia per quello privato. Questa disposizione, se da emergenziale diventasse stabile, comporterebbe l’onere permanente per il management aziendale di verbalizzare i motivi del rifiuto opposto alla richiesta di qualsiasi dipendente di poter lavorare da casa. Anche il titolare di mansioni che non possono svolgersi in alcun modo “da remoto”, come quelle di un addetto alla reception, di un bidello, di un custode di museo, di un magazziniere, potrebbe rivendicare lo spostamento a mansioni compatibili. E i motivi dell’eventuale rifiuto diventerebbero a quel punto un possibile oggetto di impugnazione e quindi verifica in sede giudiziale, col risultato di sostituire il giudice del Lavoro all’imprenditore in questo aspetto della gestione aziendale.

Il contenzioso giudiziale ha già incominciato a fiorire sulla base dei decreti emergenziali, e già si hanno le prime sentenze che condannano aziende pubbliche e private a consentire il lavoro da casa su prescrizione del medico. Uno smart work promosso in questo modo non ha evidentemente più niente di smart: nasce con un imprinting contenzioso, quindi senza alcun rapporto di fiducia tra le parti, come una sorta di esonero parziale per persone che hanno dei problemi personali o familiari, invece che come evoluzione organizzativa guidata dalle persone più motivate e professionalmente attrezzate.

Se lo vogliamo promuovere davvero, non dobbiamo puntare sulle carte bollate, ma sugli incentivi ai servizi necessari per la sua diffusione, tra i quali in primo luogo la proliferazione capillare di luoghi adatti al lavoro agile, a disposizione di tutti coloro – e sono la maggioranza – che non hanno nella propria abitazione un locale adatto per svolgervi la propria attività professionale, ma sarebbero fortemente interessati ad averne uno a disposizione nei pressi, il cui costo sia a carico dell’azienda.

3. I quattro presupposti fattuali del lavoro agile

A ben vedere, quello che oggi chiamiamo smart working non può essere praticato con pieno vantaggio di entrambe le parti del rapporto se non si verificano in concreto queste quattro condizioni:

- la possibilità che la prestazione sia svolta da remoto mediante un personal computer (sono dunque evidentemente escluse tutte le attività di natura direttamente manifatturiera, quelle di servizio alla persona, quelle di ricevimento e di sorveglianza);

- la disponibilità per la persona interessata della necessaria attrezzatura informatica e di un collegamento alla rete adeguato;

- l’accessibilità da remoto del software gestionale dell’azienda e dei suoi data-base;

- la disponibilità per la persona interessata di un locale adatto per lo svolgimento della prestazione, nella propria abitazione o nelle vicinanze.

A questi presupposti fattuali se ne aggiunge uno di ordine giuridico-contrattuale, del quale ci occupiamo nel paragrafo che segue: una modifica della struttura del rapporto di lavoro, per effetto della quale la persona interessata, almeno in riferimento al segmento di prestazione lavorativa svolta in forma di lavoro agile, non è più responsabile dell’estensione temporale della prestazione stessa, ma del conseguimento di determinati risultati concordati con il datore di lavoro.

Nelle aziende che hanno sperimentato lo smart working “emergenziale” durante le fasi acute della pandemia, e che devono decidere se per il futuro puntare a consolidare questa esperienza, e come procedere su questo terreno, ci si interroga su ciascuno di questi punti. Non altrettanto accade, invece, nel settore pubblico. Quando, nella primavera 2020, durante il primo lockdown, la ministra della Funzione Pubblica affermò che nove dipendenti pubblici su dieci erano impegnati in smart working, essa avrebbe dovuto spiegare in quanti casi e in quale misura i presupposti qui indicati potessero considerarsi verificati. Ma anche nell’autunno successivo, quando sono stati collocati di nuovo in smart working tre quarti dei dipendenti pubblici, il ministero non era ancora in grado di fornire le informazioni indispensabili in proposito: che cosa è stato fatto dopo l’emergenza di primavera affinché lo smart working nelle amministrazioni pubbliche non fosse più “emergenziale”, cioè diventasse una cosa un po’ più seria? Quale e quanta parte del lavoro delle amministrazioni, settore per settore, si presta effettivamente a essere svolta da remoto? Quali amministrazioni hanno fatto qualche passo avanti, e come, sul piano della responsabilizzazione dei capi-ufficio e dei singoli dipendenti per gli obiettivi da raggiungere? Quali dati il ministero della Funzione Pubblica ha potuto rilevare circa l’effettiva disponibilità da parte dei singoli dipendenti impegnati in smart working di un pc adatto, di una connessione adeguata, di un cellulare di servizio, e anche dello spazio necessario presso la propria abitazione?

Sta di fatto, comunque, che secondo una valutazione ben argomentata (Luigi Olivieri su Phastidio.net, 23 giugno 2020) in realtà non più del dieci per cento delle funzioni svolte dai 3,2 milioni di dipendenti delle amministrazioni pubbliche è suscettibile di essere svolta “da remoto”: percentuale, questa, che costituisce una media tra valori assai disuguali di amministrazioni con caratteristiche molto diverse tra loro. E anche quel dieci percento richiederebbe un livello di modernizzazione, sul piano delle attrezzature e della cultura, dal quale le nostre amministrazioni pubbliche sono per lo più ancora molto lontane.

4. Un mutamento profondo nella struttura del rapporto di lavoro e nel ruolo del sindacato

Come ho già accennato, il vero problema per la diffusione del lavoro agile sta nel fatto che esso comporta un mutamento profondo nella struttura del rapporto contrattuale. Viene meno, infatti, la possibilità di misurare la quantità del lavoro sulla base della sua estensione temporale: il creditore della prestazione può osservarne solo il risultato immediato, e di questo tenere responsabile il lavoratore. Donde una piccola rivoluzione nei sistemi di gestione del personale, per la quale molte imprese non sono preparate.

Quanto più la persona che lavora è responsabilizzata sul risultato, tanto più il rischio che il risultato non venga raggiunto, anche per cause esterne, ricade su di lei. Insomma, il lavoro dipendente finisce coll’assomigliare molto al lavoro autonomo. Non è un caso che il lavoro agile – quando veramente di questo si tratta e non di una sua caricatura, come sta diffusamente accadendo in questo periodo di emergenza sanitaria nel settore pubblico – piaccia di più alla parte più motivata e più produttiva della forza-lavoro. Conseguentemente, allo stesso tempo si allentano i legami di solidarietà tra gli appartenenti a una stessa categoria professionale in seno all’azienda.

Il sindacato, se vuole stare al passo con questa trasformazione e non rimanerne escluso, deve cambiare pelle. Da organizzatore e difensore dell’operaio-massa deve diventare l’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione, quindi nella negoziazione di forme di retribuzione più legate all’aumento della produttività, se non addirittura della redditività dell’azienda. Il che porta dritto dritto a un aumento del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa.

Nell’idea del lavoro agile, del resto, c’è già in embrione l’idea della partecipazione del lavoratore alla gestione e al rischio dell’impresa.

5. L’inadeguatezza della summa divisio tradizionale fra subordinazione e autonomia per il governo delle nuove forme di organizzazione del lavoro

Il “lavoro agile” – che vede il lavoratore subordinato libero di decidere dove e quando svolgere la propria prestazione lavorativa, non più misurata dalla durata temporale ma dall’adempimento dei compiti assegnati – non è la sola forma di organizzazione del lavoro, resa possibile dalle nuove tecnologie, che ha alcuni caratteri tradizionalmente propri del lavoro subordinato e altri caratteri tradizionalmente propri del lavoro autonomo. La stessa cosa può dirsi del cosiddetto platform work, ovvero del lavoro organizzato mediante una piattaforma digitale che mette direttamente in comunicazione la domanda e l’offerta di servizi, come quelli di food delivery, quelli di manutenzione elettrica o idraulica, di falegnameria, di istallazione di antenne, e simili. Nella sua versione “pura”, anche il lavoro organizzato mediante piattaforma digitale, al pari del lavoro agile, insieme ad alcuni aspetti tradizionalmente propri del lavoro dipendente (utilizzazione di alcuni strumenti di lavoro e insegne proprie dell’organizzazione titolare della piattaforma) presenta un carattere essenzialmente tipico del lavoro autonomo: la libertà di presentarsi o no ogni giorno al lavoro, collegandosi con la centrale, e poi di rispondere o no alle chiamate.

Questi e altri nuovi modelli di organizzazione resi possibili dagli strumenti informatici e telematici si collocano in una specie di “zona grigia”, nella quale la summa divisio novecentesca tra lavoro subordinato e lavoro autonomo si applica con crescente difficoltà e comunque appare in larga misura inadeguata alla nuova realtà. Prova ne sia che, nel caso del lavoro agile, il legislatore del 2017 si è limitato a certificarne la compatibilità con il contratto di lavoro subordinato, senza però affrontare la maggior parte dei problemi che la sussunzione in questo tipo legale comporta. Per esempio, resta irrisolta la questione circa l’applicabilità o no, alla prestazione svolta in forma “agile”, della normativa relativa all’estensione e alla collocazione temporale del lavoro, nonché al riposo quotidiano, settimanale e annuale. In riferimento al platform work, e in particolare a quello dei ciclofattorini che recapitano a domicilio pasti e pizze, dopo l’entrata in vigore della sua disciplina speciale dettata dal d.-l. n. 101 del 2019 resta in gran parte irrisolta la questione (appena sfiorata nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 1663/2020) della compatibilità con l’impianto complessivo della disciplina del lavoro subordinato di un assetto contrattuale che attribuisce al prestatore la piena libertà di presentarsi o no al lavoro giorno per giorno, nonché, una volta presentatosi al lavoro, di rispondere o no alle chiamate.

In riferimento a queste nuove forme di organizzazione del lavoro rese possibili dall’evoluzione tecnologica è probabilmente necessario che il diritto del lavoro elabori una nuova definizione articolata della propria fattispecie di riferimento, dunque nuovi criteri di delimitazione e compartimentazione delle aree in cui si applicano le proprie discipline protettive, e adotti nuove tecniche di tutela adatte a ciascuna di esse. La mia convinzione, non da oggi, è che, in questa profonda ridefinizione dei confini e dei contenuti del diritto del lavoro, alla nozione tradizionale di subordinazione debba affiancarsi quella di “dipendenza economica”, individuata dai tratti essenziali della monocommittenza, della durata nel tempo della collaborazione e della fascia di professionalità e di reddito medio-bassa. Nozione, questa, che ha assunto rilievo nel nostro ordinamento giuslavoristico per effetto della legge n. 92 del 2012 (la c.d. legge Fornero), per essere poi accantonata tre anni dopo, con il d. lgs. n. 81/2015. Una scelta, quest’ultima, che sul piano dello ius condendum merita di essere approfonditamente riconsiderata.

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