Testo integrale con note e bibliografia

1. Il lavoro dei ristretti: una questione ancora aperta.
La Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 12 febbraio 1987 invitava gli Stati a regolare il lavoro carcerario in modo tale da assimilarlo a quello libero . Analogo tenore ha assunto la Raccomandazione dell’11 gennaio 2006, rivista nel 2020, che si sofferma sull’equa remunerazione da riconoscere ai detenuti e viene richiamata anche dalla CEDU per accomunare il lavoro carcerario non retribuito al lavoro forzato. Ciò sebbene la Corte continui a ritenere legittima la «pretesa» di attività lavorativa nei confronti dei ristretti ove risponda a «normali richieste» , in ossequio al margine di apprezzamento rimesso agli Stati basato sul principio di sussidiarietà e della c.d. better position .
La lettura che supera l’originario obbligo del lavoro , inteso come componente afflittiva della pena , si è ormai accreditata in dottrina e negli interventi di politica legislativa, confermata nella novella dell’art. 20, comma 1, l. n. 354/1975 (ordinamento penitenziario: o.p.) ad opera del d.lgs. n. 124/2018.
Vassalli, negli anni Ottanta, aveva usato parole dure per descrivere la logica correttiva/repressiva applicata al lavoro penitenziario all’inizio del Novecento, ritenuto null’altro che «la costituzione di un rapporto di potere, d’una forma economica vuota, d’uno schema di sottomissione individuale e del suo aggiustamento ad un apparato di produzione» .
La finalità risocializzante si prefigge, invece, l’adibizione del detenuto/internato ad attività lavorative e formative che possano fornire non solo un sostentamento economico durante la reclusione ma che fungano, altresì, da ponte per il reinserimento nel mercato del lavoro, abbattendo il rischio di recidiva .
L’obiettivo trattamentale spesso, però, sembra essere utilizzato come alibi per scardinare la tenuta dei principi fondamentali, acuendo le disparità tra lavoratori liberi e reclusi, per esigenze di cassa della previdenza pubblica legate alla «sostenibilità finanziaria» . Si perde, così, di vista, o si edulcora, l’attuazione dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3) e di solidarietà (art. 38), nonché quello della piena tutela della dignità della persona all’interno di sistemi totalizzanti (art. 2) .
L’inversione di rotta proclamata nella disciplina interna e sovranazionale trova, infatti, nella prassi applicativa dei punti di frizione, come nel caso della Naspi (infra § 3) o nella riduzione della retribuzione. Come noto, l’art. 22 o.p. determina la remunerazione in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi per analoghe mansioni laddove siano svolte a favore dell’Amministrazione penitenziaria. Secondo alcuni , inoltre, la remunerazione dell’attività infra-muraria a favore di soggetti terzi potrebbe subire la stessa falcidia a causa del raccordo interno tra l’art. 2 della legge Smuraglia (infra § 3), le convenzioni stipulate ad hoc e la previsione dell’art. 22 o.p.
Si tratta di profili non toccati dalla riforma del 2018 , che minano la tenuta dell’impianto lavoristico rispetto all’art. 36 Cost.; nell’art. 22 o.p. si richiama, infatti, il criterio della proporzionalità («qualità e quantità del lavoro prestato») ma non quello della sufficienza, chiave del sistema di garanzia di un’esistenza libera e dignitosa . Resta, pertanto, urgente una riflessione sull’accezione valoriale assegnata al lavoro carcerario («emblema del finalismo rieducativo») e sull’applicabilità della normativa di protezione del lavoratore, anche oltre la subordinazione.

2. Il lavoro «per conto proprio».
L’art. 20, comma 11, o.p. sotto la dicitura «lavoro per proprio conto» prevede la possibilità per i detenuti, e gli internati, in ragione delle loro attitudini, di esercitare attività artigianali, intellettuali o artistiche. Il regolamento di attuazione (art. 51, comma 3, d.p.r. n. 230/2000) richiede un’espressa autorizzazione qualora le attività si sovrappongano a quelle del lavoro ordinario o si richieda tout court un esonero dallo stesso. Evidentemente la norma soffre di un mancato coordinamento non solo con il nuovo testo dell’art. 20 o.p. ma con la ratio di fondo della novella del 2018 che ha superato la radicata idea della natura obbligatoria e afflittiva del lavoro – prestato in modalità inframoenia o extramoenia – valorizzando, al contrario, la natura trattamentale e l’inveramento dei principi costituzionali citati (dignità personale, diritto al lavoro, eguaglianza, rieducazione/reinserimento sociale).
L’esperienza del lavoro “in proprio” dei detenuti ha scontato pregiudizi e condizionamenti, legati ai limiti strutturali degli istituti; non a caso l’art. 51, comma 1, del regolamento del 2000 sancisce che le attività vengano svolte in appositi locali o, in casi particolari, nelle camere, se ciò non comporti l’uso di attrezzi ingombranti o pericolosi o non arrechi molestia .
Appare da subito chiaro che al di fuori delle attività intellettuali, che potrebbero richiedere poco spazio ma attrezzature peculiari (ad es. un computer per attività di scrittura, traduzione, ecc.), nei locali di molte delle nostre carceri, attanagliate dal sovraffollamento , trovare spazi disponibili e postazioni idonee (ad es. per realizzare manufatti artistici, dipinti, opere sartoriali o per qualsiasi altra attività lavorativa resa in regime di autonomia sia negoziale sia di fatto/esecutiva) appare utopistico. Non si esclude, invero, l’opportunità di esecuzione, ove possibile ai sensi dell’art. 21 o.p., di attività di lavoro autonomo all’esterno del carcere .
Per quanto concerne la qualificazione del rapporto, la lettera della norma pare ospitare nella dizione lavoro per conto proprio sia il lavoro autonomo in senso stretto (autonomia negoziale), fino al limite dei casi di auto-imprenditorialità, sia l’attività svolta in regime di subordinazione limitata a poche unità o al singolo (autonomia esecutiva), che potrebbero moltiplicarsi in ragione delle opportunità offerte dal remote working tramite risorse informatiche.
Già l’art. 19 della l. n. 56/1987 attraeva il lavoro a domicilio penitenziario nell’alveo della disciplina delle attività svolte per proprio conto, quasi fosse un filtro utile a rendere compatibile la previsione dedicata ai reclusi con la normativa generale, ponendo l’accento sull’autonomia esecutiva – come tratto distintivo dello svolgimento della prestazione – e non sulla tipologia contrattuale .
Di peculiare interesse sul punto è la recente pronuncia del Tribunale di Padova del 18 giugno 2020, n. 242, secondo cui se il lavoro a domicilio in carcere (art. 52 d.p.r. n. 230/2020) è astrattamente ammissibile «in quanto la disponibilità dei locali ex art. 1, l. n. 877/1973 , deve essere intesa in senso relativo e cioè con riguardo alle modalità di organizzazione del proprio lavoro», tuttavia il regime del cottimo è da escludere laddove si versi in un’ipotesi acclarata di subordinazione .
L’art. 49, comma 6, del d.lgs. n. 81/2015 ha, infine, riconosciuto la possibilità di avvalersi del lavoro accessorio per alcune categorie di soggetti, in peculiare condizione di fragilità sociale, con scostamenti dalla disciplina ordinaria (fissazione di un valore più alto dell’importo massimo) proprio per favorire l’occupazione della platea indicata dalla norma (oltre ai detenuti: disabili, tossicodipendenti, fruitori di ammortizzatori sociali coperti da contribuzione figurativa). L’istituto, tuttavia, non ha trovato applicazione , ancorché il venir meno dell’occasionalità in favore del solo limite del tetto orario delle prestazioni (accessorietà) avrebbe potuto rendere appetibile lo strumento per favorire l’attività dei ristretti, anche a favore della Pubblica Amministrazione .
Se la dicotomia (subordinazione versus autonomia), stanti le scarse opportunità di lavoro carcerario, forse meno interessa ai detenuti, restano ovviamente innegabili – come, del resto, nel lavoro libero – le importanti ricadute, anche sotto il profilo previdenziale e assistenziale, che fanno da corollario alla qualificazione del contratto come subordinato.

2.1. Il lavoro finalizzato all’autoconsumo.
Tra le novità della riforma del 2018 possiamo annoverare anche l’art. 20, comma 12, o.p. rivolto alle attività di produzione di beni di autoconsumo, mediante l’uso di beni e servizi dell’Amministrazione penitenziaria quali, ad esempio, terreni agricoli. La norma, volta a coniugare lavoro e soddisfazione di bisogni primari (cibo, vestiario, ecc.), favorisce esperienze di economia circolare , in una prospettiva di ricollocazione futura o di auto-imprenditorialità, a cui si potrebbe unire una forma di partenariato e condivisione con la cittadinanza (penso alle esperienze di orto collettivo).
Se, da un lato, l’obiettivo primario resta quello di non generare circuiti di sfruttamento e di non alimentare forme di lavoro di serie b, al contempo, dall’altro, è palpabile l’esigenza di incrementare le opportunità di impiego dei detenuti, ai fini del trattamento, dell’impatto sulla recidiva, del reinserimento nel mercato del lavoro una volta terminata l’esecuzione penale – anche in ragione di competenze acquisite proprio durante la reclusione – nonché del sostentamento del ristretto stesso e, in molti casi, della famiglia che lo attende fuori dal carcere.
L’ordinamento individua a tal fine alcuni strumenti volti a incentivare la collocazione o a garantire il sostegno economico dei detenuti, sebbene di recente sia emersa una schizofrenia tra interventi che tradiscono il patto costituzionale e la promessa di considerare il lavoro dei detenuti di pare valore a quello dei soggetti liberi (supra § 1).

3. Gli incentivi all’occupazione dei detenuti e le frizioni del sistema.
L’economia del presente contributo non consente una puntuale disamina degli istituti di promozione dell’occupazione ma ciò che si vuole mettere in evidenza sono alcune contraddizioni che sottendono una logica punitiva nei confronti dei reclusi e, spesso, persino di stigmatizzazione del loro lavoro.
Tra gli incentivi all’assunzione da parte di datori di lavori esterni, i più noti sono i benefici della c.d. legge Smuraglia con riguardo alle attività inframoenia , a cui si aggiungono quelli legati all’assunzione di percettori di Naspi e di reddito di cittadinanza; sul versante del lavoratore, si ricorda l’assegno di ricollocazione per gli ex detenuti disoccupati ai sensi dell’art. 46 o.p. come modificato nel 2018 .
La logica punitiva, figlia di un crescente populismo penale che sta attraversando l’Europa, emerge nelle misure sul reddito di cittadinanza che stabiliscono, per alcune tipologie di detenuti, l’esclusione dall’assegnazione, la revoca e la sospensione dell’erogazione disposta dal giudice già in sede di applicazione di misura cautelare personale , su cui si è espressa la Corte Costituzionale nel giugno 2021 ritenendo non fondata la questione . In caso di revoca della sospensione, come sottolinea l’ordinanza di rinvio alla Consulta, il beneficiario non può più ottenere gli arretrati il che determina non solo un vulnus irreparabile, un trattamento irragionevole e discriminatorio – rispetto all’ipotesi in cui per condotte identiche non si faccia ricorso alla misura cautelare – ma «un palese ribaltamento della presunzione di innocenza».
La stigmatizzazione del lavoro dei detenuti è, invece, il filo conduttore del Messaggio Inps n. 909 del marzo 2019 che esclude l’erogazione della Naspi nei casi in cui l’ultima attività, cessata (requisito della perdita involontaria del lavoro), sia resa nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria, anche in ragione di una supposta rotazione (in molti casi assente) sulle mansioni che riflette le specificità dell’organizzazione interna, connotata da una redistribuzione delle scarse opportunità di lavoro. Il Messaggio richiama a piene mani la sentenza della Cassazione n. 18505/2006 , in cui la Corte sottolineava che «l’attività lavorativa svolta all’interno dell’Istituto penitenziario e assegnata dalla Direzione non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario in quanto assume carattere del tutto peculiare per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale».
La pronuncia della Suprema Corte è l’emblema di un atteggiamento di deminutio del lavoro interno a favore dell’Amministrazione ritenuto «non equiparabile» a quello svolto per datori di lavoro esterni , anche quando le mansioni trovano collocazione nelle declaratorie della contrattazione collettiva, utilizzate dai Tribunali per il conteggio dei differenziali retributivi riconosciuti al detenuto ricorrente a fronte di scostamento o, mancata rivalutazione, degli importi indicati nelle clausole negoziali dei Ccnl che fungono da parametri di riferimento .
Ciò determina una inaccettabile discriminazione tra lavoratori liberi e lavoratori detenuti, e tra gli stessi lavoratori reclusi a seconda della natura del datore di lavoro – privandoli di una fondamentale forma di sostegno economico frutto dell’attività svolta e dei contributi versati – e vanifica, ancora una volta, la realizzazione della piena dignità della persona attraverso il lavoro.

 

 

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