Testo integrale con note e bibliografia

1. La dichiarazione di illegittimità dell’art. 18, comma 7 ad opera della Corte costituzionale. – Il contributo ha una duplice anima: la prima che guarda al passato e la seconda invece proiettata al futuro, in quanto si propone di ripercorrere a grandi linee le principali motivazioni articolate nelle pronunce giurisprudenziali – tanto di merito quanto di legittimità – che si sono soffermate sul criterio della «manifesta» insussistenza del fatto al fine di meglio comprendere la portata della sentenza della Corte Cost. 25 maggio 2022, n. 125. Il giudice delle leggi è infatti intervenuto in materia dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 7, l. 20 maggio 1970, n. 300 nella parte in cui, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra richiedeva un «quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della manifesta insussistenza del fatto stesso» , posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In questa sede la Corte costituzionale, rifacendosi a quanto dedotto dal Tribunale di Ravenna, quale giudice rimettente, qualifica la manifesta insussistenza del fatto quale «assenza – evidente e facilmente verificabile – dei presupposti che legittimano il recesso e come elemento rivelatore del carattere pretestuoso del licenziamento intimato» . Aggiungendo che «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi» . Per tale ragione, secondo la recente pronuncia della Corte costituzionale due sono le alternative, tra di loro esclusive ed escludenti: il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sussiste/ il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sussiste.
Si tratta di una questione di non poco conto dal momento la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo rappresenta(ava) l’unica ipotesi di reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato per motivo economico, ricorrendo i due ulteriori criteri dimensionale e temporale .
Prima di passare al merito dell’analisi è bene ripercorrere a grandi linee l’iter logico seguito dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 125 del 2022 così come articolato nell’ordinanza del 6 maggio 2021, iscritta al n. 97 del registro ordinanze 2021, del Tribunale ordinario di Ravenna.
Anzitutto motivando a partire dalla sentenza n. 59/2021 con cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 nella parte in cui prevedeva che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, potesse applicare in luogo di «applica» la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4, il rimettente evidenzia le incertezze applicative conseguenti al criterio del «manifesta». Per tale ragione il Tribunale di Ravenna deduce il contrasto con gli artt. 1, 3, 24, 35 della Costituzione.
In merito alla violazione del menzionato art. 3, questa viene prospettata in relazione a tre differenti profili: il primo attinente all’arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento per giusta causa/giustificato motivo soggettivo e ai licenziamenti collettivi ; il secondo relativo all’illogica e irragionevole attuazione in chiave sostanziale di un criterio di stampo meramente processuale quale la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del g.m.o. ; il terzo riguardante l’aggravio dell’onere probatorio posto in capo al lavoratore circa un fatto negativo rientrante nella sfera di disponibilità anche del datore di lavoro .
Strettamente collegata all’ultimo profilo è la violazione dell’art. 24 Cost. in quanto l’introduzione un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi, relativo oltretutto a fatti estranei alla sfera di conoscenza del lavoratore, avrebbe reso eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto di agire in giudizio avverso il provvedimento espulsivo del datore di lavoro .
Infine la violazione degli artt. 1, 3, 4, 35 Cost. è stata prospettata in relazione alla attuazione di un illegittimo bilanciamento dei valori in gioco – quali la libertà di iniziativa economica privata e il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente licenziato – penalizzante esclusivamente per il prestatore di lavoro .

2. Il campo di indagine. – Il quesito a cui si è tentato di fornire una risposta riguarda la prevalente – o meno – applicazione del criterio del «manifesta» in chiave processuale ad opera della giurisprudenza in quanto la preponderanza dell’uno o dell’altro aspetto impatta diversamente sulle future prospettive interpretative ed applicative del nuovo art. 18, comma 7, l. n. 300/1970.
Al fine di meglio comprender l’iter seguito sono doverose alcune premesse di stampo metodologico.
Anzitutto, data l’alluvionale giurisprudenza intervenuta in materia, sono oggetto di analisi le sole pronunce rese in giudizi vertenti sull’art. 18, comma 7 poiché, sebbene ai fini di una completa ricostruzione sarebbe stato utile affrontare una disamina dell’intero regime, complessivamente risultante dalla combinazione con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, i due (quello introdotto con la modifica dell’art. 18 ad opera della l. 28 giugno 2012, n. 92 e le cd. tutele crescenti) si caratterizzano per una diversa ratio, obiettivi e finalità.
In secondo luogo, l’analisi verte tanto sulla giurisprudenza di merito quanto su quella di legittimità intervenute in materia, tenuto in considerazione lo spartiacque rappresentato dalla sentenza della Cass. 2 maggio 2018, n. 10435 .
Infine, il criterio del «manifesta» è stato analizzato da una duplice prospettiva: la prima vertente sul concreto significato attribuito al termine; la seconda, invece, riguardante gli elementi del fatto/fattispecie (quali la ragione, il nesso causale tra il posto soppresso e il provvedimento espulsivo e il repêchage) investiti della verifica del «manifesta».
Andiamo, però, per gradi dal momento che prima del 2018, in assenza di alcuna uniforme interpretazione ad opera della giurisprudenza di legittimità del criterio della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, varie sono state le relative applicazioni per quel che concerne ambedue i profili di analisi.

2.1. La nozione di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. – Venendo al primo punto, quello relativo alla concreta applicazione del criterio va ribadito come, sino al 2018, la giurisprudenza di legittimità ha adottato un atteggiamento piuttosto prudenziale nell’applicazione del criterio del «manifesta» in quanto anche senza individuarne i precisi connotati e confini lo ha impiegato, ai sensi della normativa di legge, quale mero elemento di discrimine nella individuazione della sanzione, reintegrazione/indennità , da applicare alle ipotesi di licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo e motivando a partire dalla ratio del legislatore di «riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici» .
Parzialmente diverso è stato, invece, l’atteggiamento della giurisprudenza di merito che ha ritenuto integrata la «manifesta insussistenza» quando l’inadeguatezza dei motivi fosse così evidente e palese da non abbisognare dell’espletamento di alcuna attività istruttoria processuale nonché nell’ipotesi di chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non potesse essere equiparata una prova meramente insufficiente. Si tratta di definizioni parzialmente coincidenti, ambedue orientate a relegare la manifesta insussistenza, da un lato, nell’ambito del solo mancato o parziale assolvimento dell’onere probatorio , dall’altro, alle ipotesi di evidente illegittimità del licenziamento in conseguenza dell’assenza dei presupposti di legge, tale da non richiedere alcuna ulteriore attività istruttoria.

2.2. La verifica della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. – Venendo al secondo elemento, relativo all’ambito di applicazione del criterio della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per motivo economico , anche sul punto va evidenziata una certa uniformità della giurisprudenza di legittimità nel ritenere che la verifica del requisito dovesse concernere tutti e tre i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia il nesso causale tra il posto soppresso e il provvedimento espulsivo sia, infine, l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore .
Di contro, almeno sino al 2018, i giudici di merito hanno adottato decisioni parzialmente differenti tanto da ritenere che l'adempimento dell'obbligo di repêchage non fosse sussumibile nell'alveo della verifica della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. .
Ebbene, come anticipato, solo con la nota pronuncia della Cassazione del 2 maggio 2018, n. 10435 si è registrata una vera e propria rivoluzione in materia. Anzitutto, la Cassazione ha riferito la manifesta insussistenza del fatto ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consentisse di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso ed in secondo luogo ha confermato il suo collegamento a tutti i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: 1) ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa; 2) nesso di causalità; 3) ripescaggio . Sul punto va precisato che, sebbene la giurisprudenza intervenuta successivamente al 2018 si sia uniformata sull’interpretazione del concetto di manifesta, non sono mancate pronunce di merito, che hanno escluso dall’analisi della manifesta insussistenza del fatto il solo repêchage .
3. Le possibili future prospettive applicative dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970. – Una simile ricostruzione, data la dichiarazione di illegittimità dell’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 limitatamente al criterio del «manifesta» potrebbe apparire ormai del tutto superata. Ci si potrebbe infatti domandare perché ancora oggi ci si interroghi sulla portata del sintagma «manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» . Ciò è funzionale a comprendere – o quantomeno a cercare di comprendere – le future prospettive applicative del nuovo art. 18, comma 7, l. n. 300/1970. In effetti, data la prevalente (o quasi esclusiva) utilizzazione del criterio del «manifesta» sul piano probatorio vien da chiedersi se ci sarà realmente una “riduzione” del relativo onere e, in particolare, che cosa non dovrà più dedurre o produrre in giudizio il lavoratore al fine di ritener assolto l’onere circa l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento . Del resto come sostiene la stessa Corte Costituzionale l’alternativa è – ed è sempre stata – soltanto duplice: o il fatto posto a base del giustificato motivo di licenziamento sussiste o non sussiste, non essendo possibile rintracciare differenti e ulteriori possibilità.

 

 

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