Testo integrale con note e bibliografia

1. Cenni sulla giurisprudenza costituzionale in tema di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi.
La Corte costituzionale è intervenuta per diverse volte sulla questione della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi.
Dapprima, la sent. n. 63 del 1966 ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1 c.c. «limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro».
L’affermazione del dispositivo trova fondamento nel contrasto tra la disciplina della decorrenza della prescrizione e i principi stabiliti dall’art. 36 Cost., che prevede l’irrinunciabilità del diritto alle ferie e al riposo settimanale. Da questa previsione costituzionale si dedurrebbe, a fortiori, l’irrinunciabilità del diritto alla retribuzione. Tale irrinunciabilità sarebbe lesa laddove il titolare del diritto di credito (retributivo) rimanesse inerte di fronte al decorso della prescrizione a causa del timore del recesso datoriale .
La disciplina della prescrizione produceva, secondo i giudici, «proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia». Di conseguenza, una disciplina conforme alla Costituzione non potrebbe che prevedere un diverso regime di decorrenza della prescrizione, che neutralizzi il timore alla base della possibile lesione del principio di irrinunciabilità della retribuzione .
I giudici costituzionali hanno quindi stabilito che, per i rapporti di lavoro privato, privi della “resistenza” che invece caratterizza quelli di pubblico impiego, la prescrizione dovesse decorrere dal momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La sentenza generò non poco dibattito e fu seguita da altre pronunce che hanno delimitato l’ambito di applicazione dei principi ivi stabiliti . Dapprima, la sent. n. 143 del 1969 ha ribadito la “resistenza” dei rapporti di pubblico impiego , per i quali la prescrizione decorrerebbe quindi in corso di rapporto.
Un parziale revirement si è poi avuto con la sent. n. 174 del 1972. Il quadro normativo entro il quale le valutazioni della Corte avevano trovato ragione era infatti fortemente mutato per via dell’introduzione dell’obbligo di motivazione del licenziamento (art. 1 della l. n. 604 del 1966) e della disciplina sanzionatoria contro i licenziamenti illegittimi (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori).
La sentenza del 1972 ebbe ad oggetto la legittimità di una norma di contratto collettivo, recepita per il tramite del D.P.R. n. 1040 del 1960 attraverso il procedimento allora disciplinato dalla c.d. legge Vigorelli (l. n. 741 del 1959). Tale norma prevedeva un breve termine di decadenza , decorrente dal momento dell’effettuazione o omissione del pagamento, entro il quale il lavoratore poteva proporre reclami circa l’esatta corresponsione della retribuzione. La norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, ma dalla motivazione della sentenza emerge un importante distinguo. Secondo i giudici costituzionali, i rapporti cui si applicano l’art. 1 della l. n. 604 del 1996 e l’art. 18 St. lav. sarebbero infatti da considerarsi “resistenti” al pari di quelli di lavoro pubblico, in quanto le garanzie ad essi applicate sarebbero «equivalenti» . Se ne deduce che per tali rapporti la prescrizione dovrebbe decorrere dal momento della maturazione del credito . La decorrenza dal momento della cessazione del rapporto resterebbe applicabile ai rapporti esclusi dal campo di applicazione delle due norme, poiché la previsione della reintegrazione quale tutela contro il licenziamento illegittimo avrebbe la capacità di far venir meno il metus del lavoratore in costanza di rapporto .

2. Il dibattito sull’attualità della distinzione tra rapporti resistenti e non resistenti dopo le riforme del 2012 e del 2015.
La sentenza della Corte costituzionale del 1972 fa espresso riferimento all’art. 18 St. lav., che allora prevedeva la reintegrazione quale tutela generalizzata contro il licenziamento illegittimo.
Nell’ultimo decennio vi è stata una riduzione progressiva dello spazio applicativo della tutela reale, scindibile in due diversi passaggi. Dapprima la l. n. 92 del 2012 ha modificato l’art. 18 St. lav., prevedendo l’applicazione generale di una tutela indennitaria, salvo quanto diversamente disposto. Successivamente, il d.lgs. n. 23 del 2015 ha introdotto una nuova disciplina, applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, nell’ambito della quale la reintegrazione trova ancora minor spazio .
Nonostante esistano due discipline di tutela distinte, applicabili in ragione della data in cui il lavoratore è stato assunto, le riflessioni sugli effetti delle riforme in relazione al regime di decorrenza della prescrizione sono state comuni, dacché le due discipline condividono, rispetto alle norme vigenti al momento delle pronunce della Corte, i medesimi tratti differenziali .
La dottrina si è chiesta se il venir meno della reintegrazione quale unica tutela contro il licenziamento illegittimo potesse avere effetti sulla caratteristica di “resistenza” del rapporto.
Sul tema si sono confrontate due diverse tesi. Da un lato, parte della dottrina ha ritenuto che le riforme del 2012 e del 2015 abbiano fatto venir meno la “resistenza” dei rapporti di lavoro privato. Secondo questo orientamento, la stabilità di un rapporto sarebbe un «dato ordinamentale» e non potrebbe essere quindi accertata tramite un’analisi casistica.
In particolare, la stabilità sarebbe collegata, come espressamente rilevato dai giudici costituzionali nel 1972, all’obbligo di motivazione del licenziamento e alla sussistenza della tutela reintegratoria . Di conseguenza, le discipline del 2012 e del 2015, che privano la tutela reale del carattere di generalità, non garantirebbero la resistenza del rapporto di lavoro , come faceva invece l’art. 18 St. lav. prima delle modifiche intervenute . Un sistema di tutele variamente articolato a seconda delle diverse causali di licenziamento non permetterebbe infatti di prevedere la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della tutela reintegratoria e, quindi, non sarebbe idoneo a far venir meno il metus del lavoratore .
Altra parte della dottrina ha invece escluso che il mutare della disciplina delle tutele potesse avere effetti sul regime di decorrenza della prescrizione per come cristallizzatosi nel 1972. Secondo tali tesi, la valutazione circa la “resistenza” di un rapporto non può più arrestarsi di fronte alla dicotomia tra tutela obbligatoria e tutela reale . La sentenza del 1966 poneva infatti alla base della decisione il metus del lavoratore e non la stabilità reale, allora sconosciuta nel lavoro privato .
L’interprete dovrebbe quindi verificare se il lavoratore goda o meno di un apparato di tutele contro il licenziamento sufficientemente adeguato, affinché sia escluso che possa essere indotto a non esercitare il proprio diritto per timore del licenziamento. L’esito di questo accertamento, per chi segue questo iter argomentativo, è senz’altro positivo . Le tutele contro il licenziamento illegittimo sarebbero adeguate ad eliminare il metus derivante dall’instabilità del rapporto , dacché la stessa Corte costituzionale, nella sent. n. 194 del 2018, ha posto dei correttivi affinché la disciplina del 2015 potesse considerarsi adeguatamente protettiva verso i lavoratori e dissuasiva rispetto a comportamenti opportunistici del datore di lavoro. Una disciplina siffatta sarebbe quindi idonea ad escludere il timore del licenziamento .
Inoltre, per parte della dottrina, la sussistenza del metus potrebbe essere verificata anche con riferimento ad altri “dati ordinamentali”, diversi dalla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi (ad esempio, con riferimento al sistema degli ammortizzatori sociali e alle politiche attive). Si è obiettato che, considerato il contesto in cui le nuove norme in materia di occupazione si sono andate a inserire, il metus non solo persisterebbe, ma anzi risulterebbe aumentato . È inoltre opportuno rilevare che il timore a cui si è fatto riferimento nella giurisprudenza costituzionale è quello del recesso, dacché si deve ritenere che oggetto dell’indagine debbano essere solamente le tutele contro il licenziamento illegittimo.
Infine, secondo diversi Autori, la “resistenza” del rapporto andrebbe verificata solo con riferimento alle tutele disposte contro il licenziamento ritrosivo, dacché il metus sarebbe necessariamente collegato all’esercizio di un diritto, punito illegittimamente proprio con il licenziamento . E poiché il licenziamento ritorsivo è soggetto in ogni caso alla tutela reintegratoria, nulla sarebbe cambiato all’esito delle riforme e, conseguentemente, i rapporti di lavoro in esame dovrebbero considerarsi ancora resistenti.

3. Le sanzioni contro il licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo dopo i recenti interventi della Corte costituzionale.
Il quadro delle sanzioni contro il licenziamento illegittimo è ancora una volta cambiato per effetto di due recenti sentenze della Corte costituzionale. Entrambe le sentenze sono intervenute su una norma contenuta nell’art. 18, comma 7 St. lav., che disciplina le conseguenze sanzionatorie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo. In particolare, la parte della disposizione interessata dalle pronunce è stata quella che prevede che il giudice «può altresì applicare» la disciplina delle reintegrazione c.d. attenuata «nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
La sent. n. 59 del 2021 ha sancito l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede che il giudice «può altresì applicare» (invece che «applica altresì») la disciplina della reintegrazione attenuata. La discrezionalità riservata al giudice nello scegliere la tipologia di tutela applicabile contrasterebbe con i principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
La violazione deriverebbe dalla disarmonia creatasi con la disciplina delle tutele per i licenziamenti disciplinari illegittimi. In quel caso, infatti, se è rilevata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, non c’è alternativa all’applicazione della tutela reintegratoria. A essere irragionevole sarebbe inoltre (l’assenza del) «criterio distintivo» adottato dalla norma, dacché la scelta circa l’applicazione della tutela è rimessa alla mera discrezionalità del giudice .
La sent. n. 125 del 2022 ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale della stessa norma limitatamente alla parola «manifesta». L’aggettivo è riferito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento: tale insussistenza deve essere «manifesta» affinché si possa applicare la tutela reintegratoria. Per la Corte questo requisito sarebbe indeterminato e porterebbe a incertezze interpretative. Il giudice sarebbe infatti costretto a valutazioni poco rigorose, in assenza di un chiaro «criterio direttivo». Inoltre, il requisito della manifesta insussistenza non sarebbe legato al disvalore del licenziamento intimato e non giustificherebbe una differenziazione di tutele. Per questi motivi tale previsione sarebbe irragionevole e quindi in contrasto con l’art. 3 Cost.
All’esito di questi interventi, per quanto riguarda la disciplina applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, lo spazio della reintegrazione quale tutela contro il licenziamento illegittimo si è nuovamente espanso.
Difatti, la tutela reintegratoria sarebbe applicabile a buona parte se non a tutta l’area delle ipotesi di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo . Per paradosso, l’applicazione della tutela reintegratoria sarebbe diventata ipotesi quantomeno prevalente per i licenziamenti “economici” illegittimi, mentre resta invece ipotesi residuale per i licenziamenti disciplinari .
È quindi necessario comprendere se la disciplina dell’art. 18 St. lav. per come riformato nel 2012, alla luce degli interventi della Corte costituzionale, sia in grado di far venir meno il metus del lavoratore.

4. La decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi e la disciplina dell’art. 18 St. lav. a seguito degli interventi della Corte costituzionale.
La risposta a questo interrogativo varia a seconda della tesi accolta circa la funzione della stabilità reale ai fini della decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro.
Se si accoglie l’orientamento per il quale la disciplina sanzionatoria dell’art. 18 St. lav., per come modificato nel 2012, sarebbe idonea a far venir meno il metus del lavoratore, dovrebbe escludersi che gli interventi della Corte costituzionale, che rendono il rapporto di lavoro ancora più “resistente”, possano avere effetti. La disciplina sarebbe infatti già idonea a fungere da deterrente a comportamenti opportunistici del datore di lavoro.
Al contrario, se si ritiene che le modifiche del 2012 abbiano riportato il lavoratore in uno stato di timore nel corso del rapporto, è necessario chiedersi se la riespansione dell’area della reintegrazione possa avere invece l’effetto di “ripristinare” la resistenza del rapporto.
Invero, si deve rilevare che un sistema di tutele differenziate in base alle circostanze e alla causale del licenziamento non consente al lavoratore di valutare ex ante il grado di stabilità del rapporto di lavoro. Da ciò deriva che il timore del licenziamento, per come identificato dalla giurisprudenza costituzionale, persiste necessariamente anche con riferimento alla disciplina applicabile a seguito degli interventi della Corte .
Questa tesi non sarebbe contradetta dal fatto che al licenziamento ritorsivo possa conseguire la sola tutela reintegratoria. Il motivo ritorsivo, per causare la nullità dell’atto ex artt. 1324 e 1345 c.c., deve essere infatti unico e determinante. La sussistenza di altri motivi, ulteriori rispetto a quello ritorsivo, potrebbe far venir meno l’applicabilità della tutela reintegratoria. Il lavoratore avrebbe quindi ragione di temere che gli effetti del licenziamento illegittimo possano non essere rimossi (v. infra par. 5) . Del resto, la giurisprudenza costituzionale non ha mai considerato la tutela reintegratoria contro il licenziamento ritorsivo come ragione in grado, da sola, di permettere la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto. E infatti ha considerato non resistenti i rapporti di lavoro nelle piccole imprese, a cui comunque si applicherebbe la reintegrazione nel caso di licenziamento ritorsivo.
In conclusione, pur essendosi ampliata l’area della reintegrazione, nella disciplina dell’art. 18 St. lav. ora applicabile resta comunque spazio per la tutela indennitaria. Di conseguenza, il timore del licenziamento persisterebbe poiché il lavoratore non ha certezza di poter vedere rimossi gli effetti dell’atto illegittimo. Per la giurisprudenza costituzionale il timore può venir meno solo laddove il lavoratore possa prospettare con certezza che ad un licenziamento illegittimo consegua la tutela reale. In assenza di questa certezza, considerato il quadro di assoluta differenziazione delle tutele che continua a persistere anche dopo i recenti interventi della Corte costituzionale, si deve ritenere che tale timore persista. La prescrizione dovrebbe quindi decorrere dalla cessazione del rapporto anche per i rapporti cui si applica la disciplina dell’art. 18 St. lav. ora in vigore, per come mutata a seguito delle recenti sentenze richiamate nel precedente paragrafo.

5. L’intervento nomofilattico della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, con sent. n. 26246 del 6 settembre 2022, si è espressa circa il regime di decorrenza della prescrizione all’esito degli interventi di riforma in materia di sanzioni contro il licenziamento illegittimo.
Richiamata la giurisprudenza costituzionale e i precedenti di legittimità che hanno legato la nozione di stabilità alla sussistenza della «possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo» , i giudici hanno rilevato che entrambi i nuovi regimi sanzionatori sono caratterizzati da un’applicazione selettiva delle tutele, a cui si collega necessariamente una valutazione giudiziale più articolata circa la scelta della tutela da applicare. All’interno del nuovo sistema delle tutele, la tutela reintegratoria avrebbe un carattere «recessivo» (punto 7.2).
La Corte ha poi sottolineato come il quadro delle tutele e la predetta valutazione circa il ruolo della tutela reintegratoria non siano stati modificati dai recenti interventi della Corte costituzionale, dacché le sentt. n. 59 del 2021 e 125 del 2022 «hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela contro ogni forma illegittima di risoluzione».
Non sarebbe inoltre rilevante, ai fini della valutazione circa il dies a quo della decorrenza della prescrizione, il fatto che la Corte costituzionale abbia ritenuto la tecnica di tutela indennitaria adeguata in ragione dei parametri di legittimità costituzionale (punto 7.3) . I giudici di legittimità si sono però limitati a porre l’affermazione della Corte nel contesto più ampio della sent. n. 194 del 2018, senza argomentare adeguatamente sui motivi della affermata irrilevanza.
In ogni caso, è opportuno distinguere tra la legittimità costituzionale (e quindi l’adeguatezza) di una tecnica di tutela e la sua idoneità a far venir meno uno stato psicologico soggettivo, quale è il timore del licenziamento. La tutela indennitaria ben potrebbe infatti, dal punto di vista oggettivo, essere adeguata - rispetto ai parametri di costituzionalità - a ristorare il pregiudizio subito dal lavoratore ma, allo stesso tempo, non essere idonea a rimuovere il fatto presupposto (lo stato di timore) da cui discende l’incostituzionalità delle norme in materia di decorrenza della prescrizione per determinati rapporti . La “resistenza” di un rapporto non è quindi legata all’adeguatezza delle tutele, ma all’applicabilità della tutela reale, almeno con riferimento alla nozione di resistenza identificata dalla giurisprudenza costituzionale in materia di prescrizione.
E infatti non sembra corretto affermare, come fanno gli stessi giudici di legittimità enunciando il principio di diritto, che i rapporti di lavoro a tempo indeterminato mancano di «tutela adeguata» (almeno secondo i principi costituzionali).
La Corte afferma inoltre che non costituirebbe garanzia sufficiente l’applicazione della tutela reintegratoria al licenziamento accertato come ritorsivo. Ciò era stato invece sostenuto nella sentenza d’appello, che ha accolto una tesi già emersa in dottrina . La qualificazione di un licenziamento quale ritorsivo, poiché consegue ad un accertamento giudiziale, avviene necessariamente ex post. Al contrario, la rinuncia (in senso atecnico) che le pronunce costituzionali in materia di prescrizione mirano ad evitare si verifica ben prima e in ragione di un metus che non potrebbe venir meno per via dell’astratta presupposizione, da parte del lavoratore, che ad un suo eventuale licenziamento (ritorsivo) potrebbe conseguire la reintegrazione .
La Corte rileva quindi, in modo forse eccessivamente sbrigativo, che riservare la conoscenza del regime prescrizionale ad un accertamento caso per caso sarebbe lesivo del principio di certezza del diritto . L’obiezione non sembra centrata, in quanto il lavoratore potrebbe ben essere certo che un suo eventuale licenziamento (illegittimo perché ritorsivo) conseguente a rivendicazioni retributive sia sanzionato con la reintegrazione.
Eppure, come si è avuto modo di osservare (v. supra al par. 4), il motivo ritorsivo del licenziamento deve essere valutato quale unico e determinante. Ciò non escluderebbe che un licenziamento conseguente a una legittima richiesta del lavoratore possa essere tutelato con la sola tutela indennitaria . Di conseguenza, il metus del lavoratore non viene meno per via delle tutele contro il licenziamento ritorsivo, poiché il nesso fattuale che può sussistere tra la rivendicazione e il licenziamento non è assorbito del tutto dall’area applicativa della fattispecie del licenziamento ritorsivo.
La Corte di Cassazione afferma quindi che il quadro normativo attuale non assicura un’«adeguata stabilità del rapporto di lavoro». La prescrizione dovrebbe conseguentemente decorrere in corso di rapporto «quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso». Ciò poiché l’assenza del metus del licenziamento potrebbe discendere solo e soltanto dall’«oggettiva precognizione» relativa alla disciplina sanzionatoria applicabile ad un eventuale recesso illegittimo del datore di lavoro .
La soluzione data dalla Corte di Cassazione, pur considerate le criticità appena rilevate, appare coerente con le considerazioni emerse nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che ha sempre legato il venir meno del timore del lavoratore alla sussistenza di tutele in grado di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.
Non sembra tuttavia possibile esimersi da una banale e comune considerazione, che però appare necessario reiterare. È indubbio che solo un intervento del legislatore possa coniugare in modo coerente l'esigenza della certezza del diritto con la necessaria tutela della posizione creditoria dei lavoratori.

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