Testo integraLE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Le recenti sentenze della Corte costituzionale intervenute sull’art. 18 St.lav. hanno ridisegnato il perimetro delle tutele applicabili nel caso di licenziamento illegittimo, ampliando le ipotesi nelle quali è possibile riconoscere la tutela reintegratoria .
Tra queste si pone la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, St.lav., relativamente all’aggettivo “manifesta”.
L’intervento si pone in linea con chi già da tempo aveva manifestato l’ambiguità del termine , successivamente riempito di contenuto dalla giurisprudenza di legittimità .
La questione posta all’attenzione della Corte costringe però l’interprete a ricostruire il puzzle di tutele nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, non solo in relazione agli elementi tipici di cui all’art. 3 l. n. 604/1966, ovvero le ragioni e il nesso causale, ma anche con riferimento all’ulteriore requisito, di elaborazione giurisprudenziale, che impone al datore di lavoro di provare l’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore.

2. Il presupposto: nella nozione di “manifesta” insussistenza del fatto contestato vi rientra anche l’obbligo di repêchage

Partendo con ordine, al fine di comprendere le conseguenze della pronuncia della Corte costituzionale n. 125/2022, occorre ricostruire la nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento” nell’interpretazione della giurisprudenza costituzionale.
La sentenza n. 125 del maggio 2022 - punto 8 del considerando in diritto - specifica che “Nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso”.
L’affermazione della Corte suscita alcuni interrogativi in ordine a quali elementi della fattispecie costituiscono il “nucleo” del giustificato motivo oggettivo.
Se non può revocarsi in dubbio che vi rientrino le ragioni ed il nesso causale, meno chiara appare invece se anche la violazione dell’obbligo di repêchage sia inclusa in tale nozione.
Soccorre all’interprete, però, la precedente sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 2021 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, St.lav. con riferimento alla parola “può” .
La scelta terminologica del legislatore ha da sempre diviso gli interpreti tra i fautori dell’interpretazione fedele al dato letterale – sicché sarebbe stata rimessa alla discrezionalità del giudice la scelta della tutela – e chi, al contrario, ha sostenuto una interpretazione tesa a favorire l’obbligatorietà del riconoscimento della tutela reintegratoria, orientamento questo poi fatto proprio dalla stessa Corte costituzionale .
Accanto a tale incerta nozione, si pone(va), inoltre, l’aggettivo “manifesta” strettamente collegato all’ “insussistenza del fatto contestato” suscitando sin da subito i primi interrogativi .
Chiarito il significato del “manifesta” – inteso in termini di “evidente” violazione delle regole da parte del datore di lavoro – ci si è interrogati se dovesse essere riferito, ai fini del riconoscimento della massima tutela, soltanto agli elementi tipici della fattispecie del giustificato motivo oggettivo oppure anche al repêchage.
Ebbene, la Corte, nell’affermare l’illegittimità costituzionale della norma, al punto 5, afferma a chiare lettere che “Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso…(e questi) sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
In questa sentenza, pertanto, la Corte afferma che tutti e tre gli elementi (ragioni, nesso causale e repêchage) devono essere ricondotti nella nozione di insussistenza del fatto.
A fronte di una iniziale incertezza interpretativa, derivante dalla specificazione contenuta nell’art. 18 comma 7, secondo periodo, St.lav. ai sensi del quale il fatto è “posto alla base del licenziamento” e, dunque, si sarebbe trattato di un mero evento , l’ordinamento si è assestato nell’identificare la nozione con quella del giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, includendovi anche l’obbligo di repêchage .
Con la sentenza n. 59 del 2021, pertanto, la Corte fa proprio l’orientamento inaugurato dalla Corte di Cassazione del 2 maggio 2018 n. 10435 , e condiviso in maniera ormai unanime da quella successiva ai sensi della quale anche l’aggettivo “manifesta” deve essere riferito a tutti e tre gli elementi costitutivi del g.m.o. e, dunque, anche alla mancata ricollocazione del lavoratore.

3. La tutela applicabile dopo la sentenza della Corte cost. 125/2022.

Chiarito che anche la violazione dell’obbligo di repêchage conduce alla tutela reintegratoria, occorre verificare se la dichiarazione di incostituzionalità ad opera della sentenza n. 125/2022 possa incidere sull’approdo interpretativo raggiunto e se, pertanto, la violazione del predetto requisito debba essere ricondotta nell’alveo dell’art. 18, comma 7, terzo periodo St.lav.
In effetti, l’interpretazione ermeneutica esistente, individua l’ambito applicativo della tutela indennitaria prevista “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” alla violazione “non manifesta” del fatto contestato oppure alla violazione dei criteri di scelta nel caso di g.m.o. plurimo .
E tuttavia, venuto meno l’aggettivo “manifesta” l’area della tutela reintegratoria si espande notevolmente poiché “l’insussistenza del fatto” – seppur non debba essere più manifesta – ricomprende comunque i presupposti del giustificato motivo oggettivo, ivi inclusa la violazione dell’obbligo di repêchage .
Ne consegue che, all’esito della sentenza, lo spazio residuale di applicazione degli “altri estremi del giustificato motivo oggettivo” non può che essere configurabile soltanto dalla violazione dei criteri di scelta nel caso di licenziamento di personale omogeneo e fungibile .
In altri termini, la prova della mancata ricollocazione del lavoratore da estromettere conduce sempre alla tutela reale e il mancato rispetto dei principi di correttezza e buona fede nel caso di g.m.o. plurimo dà luogo alla tutela indennitaria di cui all’art. 18, comma 7, terzo periodo, St.lav.

3.1. Criticità

A seguito dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la tutela reintegratoria ha subito una vistosa espansione poiché per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 rappresenta la tutela normale nel caso di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo illegittimo. Al contrario, la tutela indennitaria, si applica soltanto in quella particolare ipotesi della violazione dei criteri di scelta.
L’ampliamento dell’area della tutela reale si verifica anche nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi. Sebbene l’art. 18, comma due e quattro, St.lav., non sia mai stato sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale, il riconoscimento della tutela piena viene riconosciuta grazie agli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità .
Senonché, il regime sanzionatorio risultante all’indomani delle chirurgiche sentenze della Corte costituzionale, collide con la ratio che ha animato la riforma del 2012 , nella quale il legislatore ha invece inteso prediligere la tutela indennitaria a fronte di quella reintegratoria .
A ciò si aggiunga che, nonostante la Corte costituzionale abbia più volte rimarcato la discrezionalità del legislatore nella scelta della tutela e l’adeguatezza della di quella indennitaria , sussistono, ancor più che in passato, rilevanti diversità di trattamento non solo tra i lavoratori assunti prima e dal 7 marzo 2015, ma anche per i lavoratori soggetti alla medesima disciplina .
A fronte di queste considerazioni, sarebbe auspicabile un intervento normativo, ormai non più procrastinabile, che metta ordine al sistema sanzionatorio nella sua visione “unitaria” e in omaggio al “principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto” .

4. Sugli incerti confini dell’obbligo di repêchage.

La sentenza della Corte costituzionale, consente anche di svolgere alcune riflessioni sugli attuali confini dell’obbligo di repêchage, elemento controverso quanto ritenuto indispensabili per garantire il principio immanente che vede il licenziamento come extrema ratio .
L’ambiguità che connatura tale elemento non deriva soltanto dall’assenza di una base giuridica , ma anche dalle interpretazioni mutevoli fornite dalla giurisprudenza, contrastando con l’evidente necessità di certezza del diritto, ormai più volte auspicata dalla stessa Corte costituzionale .
Se, al contrario, le ragioni e il nesso causale risultano, anche sotto il profilo probatorio, di più concreta attuazione, il datore di lavoro per assolvere all’obbligo anzidetto, deve fornire la prova – negativa - di numerosi elementi al fine di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore.

4.1. (Segue) Tra adibizione a mansioni inferiori e obbligo formativo
Tra le teoriche principali sulle quali si fonda l’obbligo del repêchage vi è quella che consiste nell’impossibilità per il datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle per le quali è stato assunto.
Nella vigenza del precedente testo dell’art. 2103 c.c. si è ammessa la possibilità di ricollocare il lavoratore anche affidando allo stesso mansioni inferiori, con il solo limite della compatibilità delle stesse con la professionalità del lavoratore.
Non si richiede, invece, al datore di lavoro di assolvere alla formazione del lavoratore . In altri termini, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare non solo l’insussistenza di una posizione di lavoro analoga, ma anche di aver offerto mansioni inferiori che rientrano nel suo bagaglio professionale .
Nella vigenza del nuovo art. 2103 c.c. la giurisprudenza di merito ha, condivisibilmente, riconosciuto che la ricollocazione del lavoratore debba avvenire nel rispetto dell’inquadramento o di quello immediatamente inferiore, ampliando ancora di più le chances di ricollocazione per il lavoratore.
Alcune sentenze si spingono, tuttavia, anche oltre richiedendo, di assolvere all’obbligo formativo .
Tale scelta non viene giustificata soltanto dalla riscrittura dell’art. 2103 c.c., comma tre, c.c. ma dal fatto che l’onere formativo si atteggia, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a compensare la flessibilità in uscita .
Tale soluzione, a ben vedere, non dovrebbe essere assoluta, ma eventualmente collegata al caso concreto e, in particolar modo, alle ragioni addotte alla base del g.m.o. cosicchè al datore di lavoro non dovrebbero essere imposti nuovi e maggiori oneri, soprattutto nel caso di licenziamento per ragioni economiche .

4.2. (Segue) Sull’ambito applicativo del repêchage.

Anche l’ambito applicativo del repêchage è stato oggetto di una interpretazione estensiva.
La giurisprudenza prevalente è incline nel ritenere che il datore di lavoro deve dimostrare l’impossibilità di ricollocare diversamente il lavoratore non solo in relazione alla sede nel quale presta la sua attività, ma con riferimento a tutte le sedi, le unità produttive e comunque le articolazioni dell'impresa .
Più controversa è invece la questione in ordine al gruppo d’impresa.
In questo caso, qualora sia configurabile un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici – e non nel caso in cui sussista un mero collegamento economico – l’obbligo di repêchage riguarda tutte le imprese del gruppo e non solo l’impresa dalla quale il lavoratore formalmente dipende .
Tale interpretazione comporta un significativo ampliamento dei margini di tutela per il lavoratore licenziato a fronte di un evidente aggravio probatorio in capo al datore di lavoro.
Sicchè, anche in questo caso, sarebbe opportuno un ridimensionamento di tale teoria e, dunque, far rivivere la tesi già sostenuta in passato incline a ritenere irrilevante giuridicamente il gruppo ai fini del repêchage, in favore della rilevanza del rapporto contrattuale istaurato .

4.3. (Segue) Sul divieto di procedere a nuove assunzioni.
Infine, la giurisprudenza ritiene che, affinché possa dirsi rispettato l’obbligo di repêchage, per un “congruo periodo” successivo al licenziamento, non devono essere state effettuate assunzioni in relazione alla qualifica posseduta dal lavoratore.
L’ambito temporale nel quale vige il “divieto” di procedere con nuove assunzioni è stato, tuttavia, variamente inteso, ritenendo idoneo alcune volte il periodo di tre mesi, altre volte quello di 6 mesi, finanche ad arrivare a 8 mesi/un anno .
Su tale aspetto, che costituisce il profilo di maggiore incertezza applicativa, inoltre, a fini di verificare l'esistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento ciò che conta non è il formale inquadramento contrattuale praticato dal datore di lavoro, ma la sostanziale identità di mansioni fra dipendente licenziato e nuovo assunto, cosicché non può dirsi esclusa tout court l’assunzione di nuovo personale, ma soltanto di chi sarà chiamato a ricoprire il posto del lavoratore licenziato.

5. I limiti all’esercizio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e prospettive de iure condendo

Le considerazioni che precedono hanno messo in luce l’interpretazione evolutiva della giurisprudenza, riflettendosi sulla legittimità o meno di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.
Ad ogni modo, nel cercare di delineare i possibili limiti che il datore di lavoro potrebbe far valere a fronte dell’ampliamento delle ipotesi di ricollocazione legittima del lavoratore, devono essere invocati quelli di tipo economico-organizzativo , da ritenersi strettamente collegati con la ragione addotta alla base del licenziamento.
In effetti, ancorché si voglia imporre, ad esempio, l’obbligo formativo, questo non potrà essere eccessivamente oneroso per il datore di lavoro; e così la presenza di posti vacanti in azienda non condurrà in automatico alla ricollocazione di quel lavoratore oggetto del provvedimento di licenziamento se lo stesso poi dovrà essere formato con costi sproporzionati o se l’assetto organizzativo dell’impresa, sia incompatibile con la scelta imprenditoriale insindacabile.
Uno spiraglio in tal senso sembra emergere dalla stessa giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto incompatibile la ricollocazione del lavoratore in azienda per la copertura di posti vacanti per i quali l’imprenditore aveva deciso di coprire con l’assunzione di lavoratori stagionali, oppure qualora la ragione addotta alla base del licenziamento si giustifichi in una riduzione dei costi, o nell’accorpamento delle mansioni .
Si è consapevoli che anche tale soluzione si connota di margini di discrezionalità e valutazioni rimesse caso per caso che in assenza di uno specifico intervento normativo non sembrano facilmente superabili.
Del resto, fintanto che i tempi non saranno maturi per superare la tesi che riconduce l’obbligo di repêchage nella fattispecie , se non altro per la chiara affermazione contenuta nell’art. 3 della legge n. 604/1966 , l’interprete sembra destinato a farsi carico pro futuro di identificare il suo contenuto e le tutele nel caso di violazione.

 

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