TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. L’introduzione della reintegrazione (tutela reale) da parte dell’art. 18 Stat. lav. ha rappresentato certamente il momento di massima espressione legislativa di un assetto di tutele in materia di licenziamento sicuramente volto a privilegiare, tra i due interessi in gioco, quello dei lavoratori alla stabilità del rapporto, a scapito dell’interesse dell’impresa alle temporaneità dei vincoli contrattuali e ad una marcata flessibilità in uscita .
In quel momento storico, e nel contesto socio/economico del tempo, quel risultato era stato possibile a seguito delle lotte sindacali degli anni ‘60, e, forse soprattutto, in considerazione della situazione economica favorevole.
In un contesto molto diverso, quale quello degli anni più recenti, la situazione di crisi economica ed occupazionale, le sfide imposte dalla globalizzazione dei mercati, le conseguenti nuove esigenze di competitività delle imprese e, non ultima, la spinta dell’Unione europea in questo senso, hanno posto all’attenzione del legislatore la necessità di aumentare la flessibilità in uscita e di intervenire, quindi, sul regime dei licenziamenti.
In un’ottica necessariamente semplificatoria, l’idea di fondo era che una maggiore flessibilità in uscita, consentendo alle imprese di adeguare più facilmente i propri fabbisogni di personale alle mutevoli esigenze dei mercati, avrebbe influito indirettamente sulle strategie occupazionali, incentivando nuove assunzioni.
Così la legge Fornero (n. 92/2018) prima, e il Jobs Act (d. lgs. n. 23/2015) sulla stessa scia, hanno inequivocabilmente ridotto il campo di applicazione della reintegrazione a favore di un regime generale di tutela esclusivamente risarcitoria.
Se l’obiettivo abbia dato i frutti sperati è difficile dirlo, anche perchè gli eventuali effetti imputabili al meno rigido regime sanzionatorio si sovrappongono, a partire dal 2015, a quelli ascrivibili agli sgravi fiscali associati alle nuove assunzioni a tempo indeterminato nel triennio 2015/2017.
In ogni modo, secondo alcune analisi, nel periodo di riferimento, i dati relativi al Jobs Act sembrerebbero evidenziare un aumento delle assunzioni a fronte di un non significativo corrispondente aumento dei licenziamenti .
Seppur, anche in questo caso, con qualche semplificazione, le tradizionali aree in cui opera il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo possono essere ridotte principalmente a tre: l’area della nullità (licenziamenti orali, discriminatori, altre ipotesi di nullità); l’area del licenziamento disciplinare (giusta causa, giustificato motivo soggettivo); l’area del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In questa sede ci si soffermerà sui licenziamenti ingiustificati: quelli, cioè, privi di giusta causa e di giustificato motivo, tralasciando i licenziamenti nulli.
Rispetto all’area della nullità ci si limita ad osservare, in ogni modo, che, mentre può registrarsi una sostanziale continuità tra legge Fornero e regime previgente, col Jobs Act la reintegrazione viene limitata, letteralmente ai casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge.
L’aggiunta dell’avverbio “espressamente” potrebbe far pensare, sulla base di una interpretazione letterale, che in regime di Jobs Act i licenziamenti intimati in violazione di norme imperative ai sensi dell’art. 148, comma 1, c.c. non siano più assistiti dalla reintegrazione. In altre parole, il solo avverbio “espressamente” sarebbe sufficiente a derogare la regola generale di cui all’art. 1418, comma 1, c.c.
A prescindere dalla condivisibilità o meno di una tale affermazione , l’effetto paventato non sembra essersi comunque realizzato: anche la giurisprudenza che non contraddice questa interpretazione finisce per la maggior parte dei casi per condannare comunque alla reintegrazione, allargando la nozione di fatto materiale contestato o rinvenendo nell’art. 1418, comma 2, la fonte dell’espressa previsione di nullità .

2. In ogni modo, e in linea più generale, è bene segnalare come la giurisprudenza non abbia privilegiato interpretazioni meramente letterali e formalistiche dei nuovi dati normativi volti a limitare il campo di applicazione della reintegrazione. Al contrario, sono state proposte interpretazioni più sistematiche, all’esito delle quali la reintegrazione continua ad essere riconosciuta in molti casi anche nell’ambito del nuovo testo dell’art. 18 Stat. lav..
All’esito del diritto vivente, tuttavia, nell’alternativa tra tutela reale e tutela meramente risarcitoria emergono alcune discrasie che meritano di essere, quantomeno, segnalate.

2.1. Nell’area del licenziamento disciplinare, come è stato icasticamente affermato, la legge Fornero mira a ridurre la reintegrazione alle ipotesi di “torto marcio” del datore di lavoro: quando, cioè, il fatto contestato non sussiste e quando lo stesso fatto è preso in considerazione dai contratti collettivi come punibile con una sanzione conservativa.
Chiarito che per fatto contestato debba intendersi necessariamente un inadempimento contrattuale, la giurisprudenza ha da ultimo precisato che resta impregiudicata la possibilità per il giudice di sussumere il fatto contestato anche in una previsione generale del codice disciplinare .
In altri termini, non occorre, ai fini della reintegrazione, che il fatto contestato sia tassativamente descritto tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, ma è sufficiente che possa essere inquadrato, in via interpretativa, nelle clausole che prendono in considerazione tali condotte mediante previsioni generali ed elastiche.
Basta scorrere i codici disciplinari contenuti nei principali contratti collettivi per rendersi conto di quanto spesso le condotte punibili con sanzioni conservative siano descritte in termini assolutamente generali.
L’esperienza processuale insegna che le controversie in materia di licenziamento sproporzionato sono le più frequenti: è raro, infatti, che un lavoratore sia licenziato per un fatto inesistente o che non ha rilevanza disciplinare.
Molto più spesso l’inadempimento c’è stato, ma si discute se sia o meno (almeno) “notevole”, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966.
Bene, in queste ipotesi, che sono, lo si ribadisce, le più frequenti, il giudice potrà continuare ad ordinare la reintegrazione inquadrando il fatto contestato in una previsione generale ed elastica del contratto collettivo.
All’esito di questo arresto giurisprudenziale, pertanto, la sanzione della reintegrazione continua a mantenere una sua centralità nel licenziamento disciplinare ingiustificato per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Il problema non si pone, invece, per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act: la vera restrizione del campo di applicazione della reintegrazione nell’area del licenziamento disciplinare non sta nell’aggiunta, invero maldestra, dell’aggettivo “materiale” al fatto contestato.
La giurisprudenza, giustamente, ha ritenuto tale aggettivo non idoneo a negare la necessaria rilevanza disciplinare del fatto contestato e, dunque, la qualificazione dello stesso in termini di inadempimento contrattuale .
Il Jobs Act, piuttosto, ha radicalmente escluso la reintegrazione in caso di licenziamento sproporzionato, relegando tale ipotesi nell’ambito della tutela meramente risarcitoria.
Vale la pena comunque segnalare che, sotto questo versante, assumono grande rilevanza le pronunce della Corte costituzionale che hanno “smantellato” il sistema delle tutele crescenti originariamente previsto dal d. lgs. n. 23/2015 e riconsegnato al giudice il potere di “personalizzare” l’entità del risarcimento, tra l’altro da un minimo ad un massimo i cui valori soglia sono stati aumentati dal c.d. Decreto dignità .

2.2. Un discorso analogo può essere svolto per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La legge Fornero intendeva limitare al massimo le ipotesi di reintegrazione, relegandole a casi eccezionalissimi.
Così, l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento doveva essere “manifesta” e anche in quel caso il giudice, letteralmente, “poteva” disporre la reintegrazione.
Tutti i problemi interpretativi che il dato letterale aveva posto in relazione alla nozione di “manifesta” insussistenza e al “può” che sembrava legittimare il giudice a scegliere tra reintegrazione e risarcimento sono stati superati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale sopravvenuta.
La Cassazione, inoltre, ha chiarito che l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento attiene a tutti gli elementi del giustificato motivo oggettivo, compresa la violazione dell’obbligo di repechage . Emerge ancora, anche sotto questo punto di vista, il rifiuto di una interpretazione meramente letterale dell’art. 18 comma 7, che potrebbe anche portare a ritenere la questione del repechage estranea alla nozione di “fatto posto alla base del licenziamento” e, conseguentemente, limitare il campo di applicazione della reintegrazione .
All’esito del diritto vivente, dunque, la reintegrazione continua ad assumere una assoluta centralità in ipotesi di insussistenza del giustificato motivo oggettivo per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, tanto che, all’esito degli interventi giurisprudenziali già menzionati, risulta difficile individuare il campo di residua applicazione della tutela risarcitoria.
Come già evidenziato, supra, per il licenziamento disciplinare, il problema non si pone, invece, per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act: per questi ultimi l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo non è sanzionata con la reintegrazione, ma solo con la tutela risarcitoria.

3. L’evoluzione del diritto vivente, da un lato, ha delineato un campo di applicazione della reintegrazione, ai sensi dell’art. 18 Stat, lav., forse più esteso rispetto a quello originariamente prefigurato nell’intenzione del legislatore , volta a ridisegnare la disciplina vigente in tema di flessibilità in uscita e “ad adeguare tale regime alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento” .
In definitiva, infatti, la reintegrazione continua ad assumere una rilevante centralità tanto nel licenziamento disciplinare sproporzionato, quanto in caso di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Dall’altro lato, però, lo stesso diritto vivente ha accentuato moltissimo la differenza di regime rispetto ai licenziamenti ingiustificati per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act.
Per questi ultimi, infatti, la reintegrazione è radicalmente esclusa tanto per il licenziamento disciplinare sproporzionato, quanto per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ingiustificato .
La stessa accentuata diversità di regime si registra passando dalla dimensione individuale a quella collettiva, con riguardo alla violazione dei criteri di scelta. Anche su questo versante la tutela dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 contempla ancora la reintegrazione mentre quella per i lavoratori assunti in regime di Jobs Act la esclude radicalmente. E anche in questo frangente si tratta delle controversie in materia di licenziamenti collettivi più frequenti.
C’è da chiedersi, allora, se questa marcata dicotomia sia ragionevole o se non crei qualche problema di coerenza del sistema.
Sotto questo punto di vista deve essere ricordato che, in un passaggio della sentenza n. 194 del 2018, La Corte costituzionale ha affrontato la questione della data di assunzione quale elemento discretivo nell’applicazione del nuovo regime.
Secondo quanto affermato dalla Corte, “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”. Inoltre, “La modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 (...) non contrasta con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice (...) costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).
Lo scopo dell’intervento, così esplicitato, mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita.
Pertanto, l’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza”.
C’è da chiedersi se queste argomentazioni taglino la testa al toro e consentano di ritenere ancora ragionevole una dicotomia di regimi così marcata.
La Corte aggiunge, forse non a caso, che “non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito”.

4. Ciò non impedisce, però, di chiedersi se il contesto socio/economico del 2018 sia lo stesso del 2022, dopo una situazione di crisi economica accentuata dalla pandemia e rispetto alla quale è stato necessario disporre addirittura un blocco dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo.
Sebbene l’art. 4 della Costituzione esprima l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro, le modalità di riconoscimento di detta tutela restano affidate alla discrezionalità del legislatore, anche in rapporto alla situazione economica generale. Il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario, nei limiti del principio di ragionevolezza.
Se, dunque, si dovesse rilevare una diversità di contesto socio economico, il problema della ragionevolezza dei sistemi di tutela avverso il licenziamento ingiustificato potrebbe ritenersi ancora aperto.
L’alternativa tra tutela reintegratoria e tutela meramente risarcitoria presuppone, infatti, che entrambe le tutele risultino comunque adeguate e dissuasive.
E’ lecito domandarsi, allora, quale ruolo possano eventualmente giocare i principi di adeguatezza e dissuasività della tutela, anche alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea , già riconosciuta dalla Corte costituzionale fonte idonea ad integrare il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost..
E il sentore di un mutamento di contesto potrebbe forse ricavarsi sia dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 183 del 2022, sulla tutela risarcitoria apprestata ai lavoratori delle piccole imprese, ai sensi dell’art, 9 del d. lgs. n. 23 del 2015, sia dalla recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di prescrizione dei crediti di lavoro.

5. La sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022 sembra porsi in aperta discontinuità con la precedente n. 194 del 2018.
In quest’ultima sentenza, la Corte costituzionale si pronuncia sulla inadeguatezza della tutela risarcitoria con esclusivo riferimento al meccanismo automatico di quantificazione della stessa, non anche con riguardo ai limiti minimo e massimo dell’ammontare. Ma, in ogni modo, non contesta l’adeguatezza del limite di ventiquattro (poi trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento .
Detto limite inoltre, e forse non a caso, era stato innalzato dal c.d. decreto dignità, sulla scia di una decisione del Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) che aveva paventato l’inadeguatezza, ai sensi dell’art. 24 della Carta sociale europea, proprio del tetto massimo di 24 mensilità della disciplina finlandese .
Da ultimo, il CEDS” ha accolto un reclamo presentato dalla CGIL proprio contro la disciplina del Jobs Act, affermando testualmente che “La via legale non presenta, pertanto, un vero carattere dissuasivo del licenziamento illegittimo nella misura in cui, da un lato, l'importo netto dell'indennizzo per i danni materiali non è significativamente superiore a quello previsto in sede di conciliazione e, d'altra parte, la durata della procedura avvantaggia il datore di lavoro, dato che l'indennizzo in questione non può superare gli importi prestabiliti (limitatati da un plafond di 12, 24 o 36 mensilità, a seconda dei casi, di 6 mensilità per le piccole imprese) e il risarcimento diventa nel tempo inadeguato rispetto al danno subito” .
La sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022, chiamata a valutare la dissuasività e l’adeguatezza del regime sanzionatorio previsto per le piccole imprese dall’art. 9 del d. lgs. n. 23 del 2015 conclude per l’inamissibilità della questione, ma la motivazione è altamente significativa di quella che appare, nel merito, la posizione della Corte.
Il diverso esito rispetto alla precedente sentenza n. 194 del 2018 viene motivato sulla base del fatto che “Nel caso di specie, il rimettente non chiede a questa Corte di caducare un meccanismo di determinazione, parte integrante di un sistema che comunque si ricompone secondo linee coerenti. La richiesta concerne piuttosto la ridefinizione – in melius per il lavoratore illegittimamente licenziato – della stessa soglia massima dell’indennità, in difetto di soluzioni predefinite che possano circoscrivere il carattere manipolativo dell’intervento auspicato, ridefinizione che spazia in un intervallo di plurime soluzioni possibili, anche in ragione delle diverse caratteristiche dei datori di lavoro di piccole dimensioni” .
Ma l’insoddisfazione della Corta in ordine all’adeguatezza e alla dissuasività del regime sanzionatorio previsto per le piccole imprese (e, forse, non solo) appare piuttosto evidente nella parte in cui il giudice delle leggi esprime una sorta di “monito” al legislatore, nel rilevare che “la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie” .
In questa ultima affermazione sembra serpeggiare un giudizio di inadeguatezza del regime di tutela più generale e non solo limitato a quanto previsto per le piccole imprese.
Tanto più che la stessa Corte arriva ad affermare che “Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano”, sottoponendo a critica l’attuale ragionevolezza dell’intero sistema.
Una discrasia che travalicherebbe, dunque, l’alternativa reintegrazione/tutela meramente risarcitoria nelle grandi imprese, ma si estenderebbe alla base della tradizionale tecnica di distribuzione delle tutele fondata sul numero dei dipendenti alla luce, guarda caso, anche dei “contesti economici diversificati”.

6. Nella stessa direzione sembra muoversi anche recente la sentenza della Corte di Cassazione n. n. 26246 del 2022 .
In questa occasione la Corte, pur ponendosi formalmente in una posizione di dialogo con la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, trae una conclusione che appare distonica e molto più in linea con quanto adombrato dalla pronuncia n. 183 del 2022.
La Cassazione, da un lato, sembra condividere una valutazione di “adeguatezza dell'indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo "contro ogni forma illegittima di risoluzione" .
Dall’altro lato, però, conclude nel senso che "Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità”.
E da questo, per gli effetti, fa discendere la decorrenza del termine di prescrizione in ogni caso a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro, superando la distinzione tra rapporti resistenti e non resistenti elaborata in precedenza dalla Corte costituzionale .
Il ragionamento, tuttavia, non appare del tutto lineare: se, infatti, la tutela risarcitoria può ugualmente considerarsi adeguata e dissuasiva (prospettiva che sembra fatta propria dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018), la stessa dovrebbe essere ritenuta sufficiente a far venir meno il metus del lavoratore ad esercitare i propri diritti anche in costanza di rapporto.
Al contrario, se tale metus non viene meno ed è necessaria la tutela reale per evitare che il lavoratore possa esercitare i propri diritti in costanza di rapporto, si deve coerentemente ritenere che la tutela meramente risarcitoria non è adeguata e dissuasiva (prospettiva che sembra sposata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022).
A questo punto si assiste ad una ulteriore e singolare discrasia.
Da una parte, secondo il tradizionale insegnamento della Corte costituzionale, formalmente ribadito anche dalla sentenza n. 183 del 2022, la reintegrazione non è misura costituzionalmente obbligata e, anzi, spetta alla discrezionalità del legislatore graduare i regimi di tutela anche meramente risarcitori, nei limiti della ragionevolezza, dell’adeguatezza e della dissuasività dal procedere a licenziamenti ingiustificati.
Dall’altra parte, secondo la Cassazione, la reintegrazione diventa l’unica forma di tutela idonea a eliminare il metus del lavoratore nel far valere i propri diritti, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione per i crediti di lavoro.

7. Il c.d. diritto vivente delinea un sistema di tutele avverso i licenziamenti ingiustificati che sembra obiettivamente porre dubbi di ragionevolezza e di coerenza interna in ordine ad aspetti centrali: l’equilibrata differenziazione del campo di applicazione della reintegrazione e della tutela meramente risarcitoria nelle grandi imprese in ragione della data di assunzione; l’adeguatezza della tutele risarcitoria, con particolare riferimento alle piccole imprese; la perdurante ragionevolezza della dimensione aziendale quale fondamento di una tutela differenziata.
A fronte di questo quadro non sembra possa essere ignorato il richiamo, operato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022, all’opportunità (leggasi quasi “doverosità”) di un intervento legislativo volto a rimodernare il sistema di articolazione delle tutele per adeguarlo ai nuovi contesti economici ed organizzativi.
Oggi, in effetti, il criterio della dimensione aziendale, riferita al numero degli occupati, mostra i segni del tempo e non appare necessariamente idoneo a testimoniare l’effettiva capacità economica dell’impresa.
La data di assunzione, inoltre, può non essere un criterio di differenziazione delle tutele ottimale con riferimento a rapporti di durata, come quelli di lavoro, suscettibili di protrarsi anche per molti anni.
E’ davvero ragionevole, ad esempio, un sistema che, con riferimento al licenziamento collettivo e alla violazione dei criteri di scelta, in presenza di identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee, intervenute simultaneamente nella medesima procedura, prevede due regimi sanzionatori del tutto disomogenei per livelli di tutela?
E’ opportuno ricordare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 254 del 2020, non ha affrontato nel merito questa censura, ma ha dichiarato inammissibile la questione per un motivo formale, legato al difetto di motivazione da parte del giudice a quo in ordine alla rilevanza della stessa ai fini della risoluzione del caso di specie.
In conclusione, un intervento del legislatore, per altro sollecitato dalla Corte costituzionale, potrebbe rivelarsi opportuno quantomeno per rivalutare coerenze o incoerenze delle scelte operate precedentemente.
Se, infatti, la disciplina dei licenziamenti non può che risentire dei contesti economici ed organizzativi, è innegabile che dal 2012, passando per il 2015, fino ad arrivare al 2022, in periodi di grave crisi aggravata una pandemia senza precedenti in epoca moderna, detti contesti possano essere mutati .
Del resto, come è stato chiaramente affermato da una indimenticata dottrina, ”la Costituzione apprende dai processi storici, siano essi compresi nell’ordinamento giuridico, siano essi estesi alla sfera sociale, soprattutto laddove (...) non contiene solo norme di dettaglio ma principi, in quanto tali aperti ai valori e dunque alle dinamiche di inveramento dei valori che si sviluppano in ambiti diversi” .
E, certamente, l’adeguatezza, a tutto tondo, delle tutele in caso di licenziamento ingiustificato deve essere considerato un principio immanente della Costituzione e della normativa sovranazionale.
Soluzioni diverse da un intervento legislativo, rimesse sostanzialmente alla capacità interpretativa e all’equilibrio della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, pure astrattamente proponibili, rischiano di essere troppo condizionate dalla necessità di risolvere un problema contingente o potrebbero non riuscire a delineare una soluzione organica, che investa tutto il sistema e non solo le norme utilizzate per risolvere la controversia .

 

 

 

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