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Testo della sentenza

Dopo le sentenze del Tribunale di Torino e di Milano che, nel corso del 2018, avevano negato ai riders di Foodora e di Foodinho le tutele “forti” apprestate dall’ordinamento lavoristico, la pronuncia della Corte d’Appello di Torino del 4 febbraio scorso rappresenta certamente un importante cambio di passo nell’identificazione di un adeguato corredo di protezioni a tutela dei lavoratori della gig economy, o “economia delle piattaforme digitali”. Questa sentenza sembra far propria una prospettiva che privilegia non già l’operazione qualificatoria fondata sul discrimine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (operazione che ha impegnato per decenni – e tuttora impegna - fior di giuslavoristi), ma raggiunge direttamente l’estensione delle coperture apprestate per il lavoro subordinato alle collaborazioni autonome sulla base – come vedremo - della giusta e unica lettura possibile dell’art. 2 del dlgs n. 81/2015.
Il tema di quali protezioni apprestare in favore dei lavoratori che operano in collaborazione con piattaforme digitali è certamente attualissimo e sta impegnando giuristi, politici e sindacalisti anche al di fuori dell’Italia, dove si registrano opinioni, proposte di intervento normativo e sentenze di vario tenore. Basti pensare, con specifico riguardo ai cd. “ciclofattorini”, all’importante recente sentenza della Corte di Cassazione francese del 28.11.2018 che, per i lavoratori della piattaforma Take it easy, ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto in ragione della sussistenza, in capo alla società, del potere di direzione e di controllo; al contrario, il Tribunale di Madrid ha deciso, sul caso Glovo del 3.7.2018, l’inesistenza dei caratteri di dipendenza e alienità necessari per riconoscere la subordinazione.
In Italia la discussione pubblica sui riders ha assunto rilevanza nazionale quando, fra i suoi primi atti come neo Ministro del lavoro e dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, ha convocato al Ministero alcuni riders, promettendo un intervento che definisse per loro tutele minime e denunciando – giustamente - la loro condizione di sfruttamento.
Una azione eclatante, anche per l’accusa rivolta alle organizzazioni sindacali tradizionali incapaci, a detta del Ministro, di costituire un riferimento per la battaglia di questi lavoratori.
Prima di questa convocazione ci sono state alcune manifestazioni di riders, alcuni flash mob, alcuni gravi o gravissimi infortuni, ricorsi giudiziari, tentativi (più o meno riusciti) di alcune amministrazioni, comunali o regionali, di affrontare il tema dei ciclofattorini e più in generale delle modalità di lavoro proposte dalle aziende della economia digitale.
Da quella convocazione del Ministro Di Maio sono passati ormai molti mesi.
Il promesso intervento legislativo come atto prioritario nell’azione di Governo, dopo essere stato annunciato e dopo aver trovato forti contrarietà nel sistema delle imprese, è stato sostituito da un tavolo di confronto composto dalle aziende, da rappresentanti dei riders, dalle parti sociali, sindacali e territoriali, che aveva l’obiettivo di favorire una soluzione pattizia fra le parti.
Molto si potrebbe dire del tavolo e della sua gestione, del fatto che è stato convocato per l’ultima volta a novembre con la promessa di riconvocare le parti entro Natale e che, invece, nulla si è più formalmente saputo fino alle norme che potrebbero essere introdotte nel cosiddetto “decretone” su Reddito di Cittadinanza e quota 100 (su cui torneremo più avanti).
Scegliamo allora di raccontare il tavolo, la sua oggettiva complessità, dal punto di vista del sindacato confederale, della Cgil. Scegliamo di raccontare, anche alla luce del dibattito scientifico e giuridico che su questi temi si sta sviluppando nel nostro Paese e in Europa, i tratti salienti delle posizioni che si sono confrontate, senza minimizzare le difficoltà di approccio che in questi mesi abbiamo avuto sia nei confronti di questi lavoratori (difficili da intercettare e in molti casi discontinui), sia nei confronti di imprese che rifiutano la normale prassi delle relazioni industriali e si riferiscono direttamente alla platea dei lavoratori, attuando così quelle pratiche di disintermediazione che sono molto di moda in certi ambienti.
Un primo punto di analisi consiste nel fatto che né le piattaforme nè i riders si identificano negli schemi tradizionali di rappresentanza degli interessi, in un contesto generale nel quale la frammentazione di quegli interessi ha già purtroppo prodotto una superfetazione contrattuale ben lontana da una visione unitaria degli interessi del lavoro.
Un secondo punto di analisi riguarda la distanza che fin da subito si è generata fra le proposte in campo, in particolare su due punti.
Il primo riguarda il riconoscimento, sempre negato dalle imprese, della natura subordinata del rapporto di lavoro dei ciclofattorini che, naturalmente, comporterebbe la conseguente applicazione automatica delle principali rivendicazioni dei riders presenti al tavolo (previdenza e assicurazione antinfortunistica pubblica, riconoscimento della tredicesima e della quattordicesima mensilità, trattamento di fine rapporto, ferie e riposi, minimo orario garantito, rifiuto del cottimo, abolizione del ranking reputazionale).
Il secondo riguarda le modalità con cui raggiungere l’obiettivo di una maggiore regolazione del settore, nel rapporto fra intervento legislativo e accordo contrattuale.
I riders presenti al tavolo, fin dall’inizio del confronto, hanno posto l’accento sulla necessità di un intervento legislativo che proponesse l’estensione dei vincoli della subordinazione e sono rimasti al tavolo di confronto con le imprese per rispettare la volontà del Governo che chiedeva loro di trovare spazi di mediazione. Nel tempo hanno smussato la loro posizione rinunciando al vincolo della subordinazione e aderendo, di fatto, allo schema di accordo proposto dal Ministro, che prevedeva il riconoscimento di alcune tutele, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, essendo questa la questione maggiormente divaricante le posizioni delle parti.
Nell’elenco dei diritti, che per tutta la durata del tavolo di confronto si è limitata per lo più ad una mera elencazione di titoli, senza entrare troppo nel dettaglio, i principali punti su cui sono state sollecitate le imprese a fare proposte sono: l’identificazione di una paga minima oraria e il divieto di cottimo, coperture assicurative e norme per la sicurezza sul lavoro, un numero massimo di consegne, il diritto alla disconnessione, regole per la manutenzione dei mezzi.
Le aziende presenti al tavolo di confronto erano numerose e nel corso dei mesi hanno prodotto avanzamenti rispetto ad un loro processo associativo che di fatto, alla fine del tavolo, ha visto produrre posizioni in parte diverse, in particolare fra l’associazione che rappresenta le imprese multinazionali (Assodelivery, che rappresenta oltre l’80% del mercato) e le imprese italiane, di certo le più propense a cercare mediazioni.
Con l’unica eccezione di una impresa che già oggi qualifica gran parte dei suoi lavoratori come subordinati (Domino’s Pizza), la pregiudiziale posta al tavolo dalle imprese è sempre stata quella del riconoscimento della natura autonoma del rapporto di lavoro. Tema che è stato più volte richiamato anche come necessità dei ragazzi riders stessi, che le imprese sostengono di rappresentare più di quanto non facciano le parti presenti al tavolo, sindacati o Union rider che siano .
In realtà, quello che è apparso abbastanza evidente è che non ci sia mai stata la reale volontà di fare dei passi in avanti, pur dichiarandosi disponibili a ragionare di assicurazione integrativa, diritti di informazione, principi di non discriminazione e sistemi di paga trasparenti, ma sempre legati ad una parte variabile e legata alla prestazione.
Rimangono quindi, da parte delle imprese, sia una pretesa fortissima di flessibilità legata alle ragioni di mercato, sia una denuncia esplicita secondo cui l’eccessiva regolazione e il riconoscimento di troppi diritti porterebbe queste imprese fuori mercato.
Queste posizioni datoriali hanno nei fatti impedito si potesse addivenire a un punto di mediazione credibile e sostenibile, che non scaricasse solo sulle condizioni di lavoro le tante - troppe - contraddizioni di un modello di consumo che merita, probabilmente, qualche riflessione in più.
Il sindacato confederale, la Cgil nel caso di chi scrive, ha fin dall’inizio del confronto proposto alla attenzione dei participanti al tavolo alcune questioni di merito e di metodo e ha più volte denunciato sia l’atteggiamento dilatorio delle imprese sia l’atteggiamento del Governo che, con il richiamo continuo ad un intervento legislativo qualora non si fossero trovati punti di mediazione accettabili, di fatto si è per molti mesi limitato a ricevere le posizioni dei partecipanti al tavolo senza svolgere un ruolo attivo nella definizione dei punti di mediazione possibile.
E’ indubbio che l’ingresso delle nuove tecnologie, combinato allo sviluppo della economia delle piattaforme ha fatto emergere nel mondo del lavoro modalità innovative di svolgimento della prestazione lavorativa. E’ altrettanto indubbio che questo tipo di lavoro , solo in parte inquadrabile nella definizione di Gig economy e solo in parte riconducibile a caratteristiche univoche è il lavoro che sta crescendo di più, nel mondo e anche nel nostro Paese.
Per questo la costruzione di un sistema di tutele salariali e normative che sostenga tutti i lavoratori, a prescindere dalla qualificazione giuridica del loro rapporto di lavoro è l’assunto alla base della proposta di legge di iniziativa popolare che nel corso del 2015 e del 2016 ci ha portato a raccogliere oltre 1,5 milioni di forme a sostegno della Carta Universale dei Diritti del Lavoro.
Da sempre pensiamo che i contratti nazionali di lavoro siano il perimetro dentro cui regolare, anche con soluzioni specifiche che rispondano alle particolarità organizzative di questo lavoro i diritti e le tutele di questi lavoratori.
Con questo spirito, sostenuto anche dalla capacità innovativa del sindacato di introdurre nei contratti collettivi nazionali (come quello della logistica) queste figure di lavoratori, nel tavolo abbiamo sempre sostenuto che per noi era chiaro il carattere di dipendenza che caratterizza queste prestazioni, in cui una applicazione (e l’algoritmo che ne costituisce il cuore) determina luogo, tempo e modalità di esecuzione della prestazione. Il riferimento ai CCNL può garantire a questi lavoratori, oltre al trattamento economico complessivo, tutte le tutele normative, previdenziali e assistenziali necessarie. Allo stesso tempo la CGIL ha sostenuto che comunque, per i lavoratori a cui non fosse applicato il contratto di lavoro subordinato, andavano garantite tutele assimilabili ad esso, in particolare rimandando al CCNL per la definizione del trattamento economico, la definzione di un orario massimo giornaliero, i riposi, le ferie le coperture assistenziali e assicurative.
In definitiva, sia la contrattazione che la regolazione legislativa devono saper affrontare anche temi e bisogni apparentemente “nuovi” di questo lavoro, in particolare in riferimento al ruolo ed al governo degli algoritmi, al sistema di ranking, al tema del diritto alla disconnessione e alla privacy.
Il tavolo di confronto con le parti sociali, dopo una ultima convocazione a novembre, non è più stato convocato, evidentemente in ragione del fatto che le differenti posizioni espresse dalle diverse parti non sono state ritenute dal Ministero utili alla definizione di una proposta di accordo da parte dello stesso .
Il tempo non è una variabile indipendente ed è necessario proporre con forza tutte le strade utili alla definzione di diritti e tutele non più rinviabili.
In questo quadro la sentenza della Corte d’Appello di Torino è arrivata nel momento giusto, non solo per il suo valore interpretativo intrinseco, ma anche perché sembra, da un lato, aver agevolato la strada per un intervento normativo adeguato e, dall’altro, offre alla contrattazione collettiva ampi spazi per una regolazione autonoma dei rapporti di lavoro dei riders (e in generale per i lavoratori delle piattaforme digitali).
Dal primo punto di vista, la sentenza d’appello di Torino, come già sottolineato, si pone in una prospettiva nuova di “tutela del lavoro in tutte le sue forme”. Come infatti recita l’articolo 35 della nostra Costituzione, ciò che è importante non è l’operazione ermeneutica che origina dal dilemma qualificatorio subordinato/autonomo, bensì la concreta risposta che l’ordinamento appresta al lavoro nelle sue multiformi manifestazioni. In definitiva occorre partire dall’obiettivo che si vuole raggiungere, ossia la protezione del lavoratore, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro.
A questo proposito, occorre infatti dire che l’articolo 2 del decreto legislativo n. 81/2015, pur in una prospettiva antifraudolenta tendente a sanzionare l’utilizzo delle collaborazioni false autonome per eludere i costi della tutela lavoristica “piena”, attraverso l’allargamento delle tutele al lavoro autonomo “etero organizzato” si è posto in quella prospettiva di protezione di cui al precetto costituzionale.
L’interpretazione che dell’articolo 2 ha fornito la Corte d’Appello di Torino rimette le cose al loro giusto posto, smentendo quindi la sentenza di primo grado con cui il Tribunale torinese aveva escluso che i lavoratori di Foodora potessero vantare alcun diritto derivante dalla loro dipendenza dall’organizzazione datoriale.
Di fronte alla netta alternativa subordinazione-autonomia e adottando schemi in verità un po' vetusti che risalgono ai tempi della giurisprudenza sui pony express (in verità assimilare le radioline dei p.e. alle potenzialità delle attuali applicazioni digitali non sembra centrare il segno), il Tribunale di Torino finiva per negare tutele escludendo la subordinazione dei riders Foodora e ponendo nel nulla la disposizione contenuta nell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015, a norma del quale “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
La lettura del Tribunale di Torino appariva quindi sorpassata e per certi aspetti disattenta rispetto all’evoluzione delle forme di lavoro governate dagli algoritmi, sembrando addirittura inconcepibile qualificare l’articolo 2 del decreto 81 come una norma apparente, destinata a non avere alcun effetto pratico perché sostanzialmente riproducente la definizione di subordinazione di cui all’articolo 2094 del codice civile.
In realtà la norma ha lo specifico scopo di allargare l’ombrello delle tutele per il lavoro subordinato a forme di collaborazioni autonome aventi un forte grado di coordinamento con l’organizzazione del datore di lavoro (in questo caso, la piattaforma digitale governata dall’algoritmo).
Ad una prima lettura della sentenza d’appello, alcuni commentatori hanno molto enfatizzato il fatto che il giudice torinese abbia inquadrato il lavoro dei ciclofattorini di Foodora in un “tertium genus” tra lavoro subordinato (eterodiretto) e le collaborazioni autonome di cui all’articolo 409, n. 3, c.p.c.
In realtà siamo di fronte a un rapporto che strutturalmente sta nel lavoro autonomo, ma al quale si applica la disciplina del lavoro dipendente per effetto della legge del 2015. In altri termini, come ha già sottolineato la migliore dottrina (v. F. Scarpelli, https://www.linkedin.com/pulse/lappello-torinese-su-foodora-si-apre-la-discussione-sulle-scarpelli/), l'art. 2 del decreto 81 non disegna un nuovo tipo contrattuale, ma una c.d. "fattispecie di applicazione".
Insomma, l’applicazione dell’articolo 2, c.1, del d.lgs 81/2015, grazie anche alla sentenza d’appello di Torino, consente di sottoporre i rapporti di collaborazione per i quali sia accertata la cd. etero-organizzazione alle tutele del lavoro subordinato senza dover procedere ad una loro riqualificazione come rapporti di lavoro subordinato.
Ciò detto da un punto di vista interpretativo del quadro normativo esistente, la sentenza di Torino ci offre uno spunto molto utile anche in termini di valorizzazione della contrattazione collettiva, nella misura in cui questa, capace di intercettare e rappresentare le multiformi manifestazioni del lavoro (anche su piattaforme digitali), può offrire un ombrello protettivo di tutela attraverso le previsioni dei CCNL, opportunamente calibrate sulle caratteristiche dei “nuovi lavori”.
In definitiva, quando si legge che “il giudice dichiara il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato (…) sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello CCNL logistica trasporto merci” siamo di fronte ad un evidente “passaggio smarcante” a favore della contrattazione collettiva che, in futuro, potrà svolgere un ruolo determinante a tutela dei lavoratori della gig-economy.
In queste ultime settimane, come già accennato in precedenza, sta circolando un’ipotesi di intervento normativo in tema di tutela dei lavoratori sulle piattaforme. Si tratta della bozza di “emendamento riders” al decreto legge n. 4/2019 recante “disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensione” in corso di conversione in Parlamento.
Dal testo che abbiamo avuto modo di esaminare emergono considerazioni contraddittorie.
Se da una parte, infatti, va salutata con soddisfazione la conferma e l’ampliamento dell’ombrello protettivo dell’articolo 2 del decreto 81 alle prestazioni di lavoro “prevalentemente” (non più esclusivamente) personali, continuative e la cui organizzazione è predisposta dal committente “anche attraverso il ricorso a piattaforme digitali come definite dall’art. 47-bis”, dall’altra è proprio l’articolo 47-bis, che definisce lo “scopo, oggetto e ambito di applicazione”, che restringe il campo di operatività della nuova “Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali” di cui al nuovo Capo V-bis del decreto lgs. 81/2015, alle sole “attività di consegna di pasti a domicilio in ambito urbano per conto altrui, attraverso piattaforme digitali”, come se il lavoro su tali piattaforme si esaurisse solo nella consegna dei pasti a domicilio.
Purtroppo, stesso discorso vale anche per la apprezzabile estensione ai riders dell’assicurazione INAIL che, per le identiche ragioni di cui abbiamo già detto, non sarà applicabile a migliaia di altri lavoratori che svolgono attività, coordinate da piattaforme digitali, che esulano dalla consegna dei pasti a domicilio.
Ci auguriamo che si tratti di un semplice “lapsus calami”: contrariamente, la norma dovrà fare i conti con probabili criticità costituzionali, oltre a risultare obiettivamente riduttiva rispetto alle sfide che le tecnologie digitali hanno già da tempo lanciato al mondo dell’economia e del lavoro.

 

 

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