Testo integrale con note e bibliografia

Presentazione.
Mi è stato affidato l’incarico di riferire sugli orientamenti del distretto di Catania in materia di licenziamenti. Tenuto conto della vastità del tema, abbiamo optato per le problematiche processuali derivanti dall’applicazione del c.d. rito Fornero, date le difficoltà interpretative - e di conseguenza operative - incontrate dai giudici, difficoltà che peraltro possono dirsi ormai quasi del tutto superate, soprattutto grazie all’apporto della giurisprudenza di legittimità, rispetto a quanto esposto in analogo report del 2017, curato dal Presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Catania dott.ssa Laura Renda.
AMBITO DI APPLICAZIONE.
Il “rito Fornero, com’è noto, trova ancora applicazione in relazione ai licenziamenti dei lavoratori privati assunti prima del 7.3.2015, posto che il D.lgs n. 23/15 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) ha previsto, all’art. 11, che “ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92”.
Quanto al settore del pubblico impiego, la giurisprudenza del nostro distretto è stata conforme all’orientamento di legittimità espresso nelle sentenze n. 11868/2016 e n. 25376/2017 ed altre successive, laddove si è ritenuto applicabile il rito Fornero ai licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni, ma non anche le modifiche all’art. 18 apportate dalla legge n. 92/2012.
Non risulta invece affrontato in sede distrettuale l’ulteriore problema dell’applicabilità del rito Fornero ai lavoratori pubblici assunti successivamente al 6.3.2015, questione complicata dall’incertezza sull’applicabilità al pubblico impiego della legge sulle tutele crescenti, per la mancanza di una espressa previsione tanto di inclusione quanto di esclusione dall’ambito di applicazione del D.lgs. n. 23/2015.
La questione “sostanziale” e di conseguenza anche quella “processuale” sono peraltro da ritenersi ormai superate in virtù della riforma dell’art. 63 comma 2 T.U. 165/2001, modificato dal d.lgs n. 75/17, che ha previsto una tutela “forte” in caso di licenziamento, ma al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il che porta ad escludere anche l’applicabilità del rito Fornero che, come noto, è riservato alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni (art. 1, comma 47 L. 92/12).
In definitiva, a decorrere dal 22.6.2017, data di entrata in vigore della riforma, può ritenersi che il rito speciale non possa più trovare applicazione ai licenziamenti dei pubblici impiegati, a prescindere dalla data di assunzione, dato il venire meno dell’”aggancio” all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
ORIENTAMENTI DEL DISTRETTO: Nel nostro distretto risulta un solo precedente, del Tribunale di Catania ( est. Musumeci), di segno opposto. Esistono invece numerosi precedenti di Tribunali fuori distretto nel senso dell’inapplicabilità, con conseguente conversione del rito.
Appare ora opportuno richiamare le fondamentali pronunce n. 19674/2014 della Suprema Corte e n. 7872015 della Corte Costituzionale, le quali, nel ritenere la natura “bifasica” del procedimento introdotto dall’art. 1, commi 47 e seguenti della legge n. 92/2012, hanno fornito la soluzione alle più frequenti problematiche processuali che si sono poste davanti ai Tribunali e che andiamo brevemente ad esaminare.
1)INCOMPATIBILITA’ TRA GIUDICE DELLA FASE SOMMARIA E GIUDICE DELL’OPPOSIZIONE.
Com’è noto, la Corte Costituzionale, con pronuncia n. 78 del 3 maggio 2015, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92, sollevata dal Tribunale ordinario di Milano.
Il giudice della nomofilachìa aveva già ritenuto ( vedi Corte di Cassazione a sezioni unite civili, ordinanza 18 settembre 2014, n. 19674; ordinanza sez. sesta L. 20 novembre 2014, n. 24790 e sentenze della sezione Lavoro 17 febbraio 2015, n. 3136 e 16 aprile 2015, n. 7782), che il carattere peculiare del rito impugnatorio dei licenziamenti, ridisegnato dal legislatore del 2012, sta nell'articolazione in due fasi del giudizio di primo grado, nel contesto del quale, dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata - mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale […] ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili - il procedimento si riespande, nella fase dell'opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena, con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti» (ordinanza n. 19674 del 2014).
Dal che la conclusione della Corte Costituzionale secondo cui la fase di opposizione - non costituendo una revisio prioris instantiae della fase precedente ma solo «una prosecuzione del giudizio di primo grado» - non postula l'obbligo di astensione del giudice che abbia pronunziato l'ordinanza opposta, sì come previsto dall'art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con (tassativo) riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia «in altro [e non dunque, nel medesimo] grado del processo».
Di conseguenza, nessun sospetto di incostituzionalità merita la norma per violazione dell'art. 3 Cost., prospettata per l'asserita irragionevole disparità di trattamento della disciplina impugnata rispetto a quella del reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all'art. 669- terdecies cod. proc. civ. dato che la disciplina processuale del reclamo cautelare è, in realtà, ben differente da quella in esame: per essere quest'ultima scandita, come visto, da una prima, necessaria, fase sommaria e informale e da una successiva, eventuale, fase a cognizione piena. Di contro, nell'ipotesi disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies cod. proc. civ., il reclamo avverso l'ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura cautelare dal giudice monocratico, integra una vera e propria impugnazione che «si propone al collegio» del quale, appunto, «non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato»
Né ha trovato fondamento la denuncia di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. «per la lesione», del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
La Corte Costituzionale ha infatti reiteratamente escluso che il suddetto principio - che rimanda anche agli artt. 3, 25, 101 e 104 Cost., - risulti violato con riguardo a varie tipologie di procedimenti bifasici.
È stata così ritenuta costituzionalmente legittima la mancata previsione dell'obbligo di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con riguardo al giudice che abbia conosciuto della causa in fase cautelare, chiamato a partecipare alla sua decisione nel merito (ordinanza n. 359 del 1998 e sentenza n. 326 del 1997); al giudice delegato al fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti da lui stesso emessi (sentenza n. 363 del 1998); al giudice che abbia trattato la fase sommaria e sia poi chiamato a decidere nel merito una causa possessoria (ordinanze n. 101 del 2004 e n. 220 del 2000); al giudice della esecuzione [che, prima della introduzione del nuovo art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., era] chiamato a conoscere della opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 e 618 cod. proc. civ. (ordinanza n. 497 del 2002); al giudice che, con l’ ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ., abbia deciso, nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova (sull'istanza della parte di pagamento di somme ovvero di consegna o rilascio di beni), a conoscere il prosieguo della causa ai fini della successiva decisione (ordinanza n. 168 del 2000).
È stato, per altro, anche precisato che sussiste, invece, l'obbligo di astensione quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice sia solo «apparentemente “bifasico”» mentre, in realtà, esso «per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi […] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”» (sentenza n. 460 del 2005).
È appunto, l'ipotesi di una seconda fase risolventesi in una «revisio prioris instantiae» che i rimettenti propendono a ritenere inverata nella opposizione di cui al denunciato comma 51 dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012.
Ma tale prospettazione, che sta alla base del sospettato vulnus agli artt. 24 e 111 Cost., non trova giustificazione ed è anzi inequivocabilmente smentita dal ruolo e dalla funzione che assolve la richiamata fase oppositoria nella struttura del giudizio di primo grado, nel complessivo contesto del nuovo rito speciale delle controversie avente ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970.
In questo caso, l'opposizione non verte, infatti, sullo stesso oggetto dell'ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti indispensabili), né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma - come già detto - può investire anche diversi profili soggettivi, determinando anche il possibile intervento di terzi, oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti, che si dia corso a prove ulteriori.
Tanto esclude che la fase oppositoria, in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, possa configurarsi come la riproduzione dell'identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all'ordinanza opposta; la quale - in esito alla fase di opposizione - è destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio: decisione, quest'ultima, che può ben condurre ad un esito differente (rispetto a quello dell'ordinanza opposta) in virtù del nuovo materiale probatorio apportato al processo e del suo ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti), anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti nell'ambito della prima fase.
La circostanza, poi, che l'art. 1, comma 50, della legge 92 in esame non preveda la possibilità che l'efficacia esecutiva dell'ordinanza che definisce la prima fase possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che conclude la successiva fase di opposizione costituisce, a sua volta, conferma ulteriore della ravvisabilità, nella specie, di un giudizio unico anche se contraddistinto da due fasi, in conformità, del resto, al diritto vivente ormai univocamente formatosi sulla questione.
Pertanto, il fatto che entrambe le fasi di detto unico grado del giudizio possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela, invece, funzionale all'attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata. E ciò a vantaggio anche, e soprattutto, del lavoratore, il quale, in virtù dell'effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad acquisire carattere definitivo) dell'ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire una immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell'ordinanza opposta, una pronuncia più pregnante e completa.
ORIENTAMENTI NEL DISTRETTO DI CATANIA: Ancora oggi sono diverse le posizioni che in materia si registrano tra i diversi Tribunali del distretto: le tabelle del Tribunale di Siracusa prevedono la diversità del giudice, così come quelle di Ragusa. La Sezione lavoro del tribunale di Catania ritiene invece che nulla osti a che vi sia coincidenza del giudice della fase sommaria e della fase della opposizione e analogamente si orienta attualmente il Tribunale di Caltagirone.
2) IN CASO DI RECIPROCA SOCCOMBENZA NELLA FASE SOMMARIA, SI FORMA IL GIUDICATO INTERNO SU QUELLA PARTE DI ORDINANZA CHE NON E’ STATA OGGETTO DI OPPOSIZIONE?
La Corte di Cassazione ha più volte statuito che il giudicato si forma nel solo caso di mancata opposizione (o di opposizione tardiva), atteso che “nel cd. rito Fornero, l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, salvo il caso di omessa opposizione, è priva di idoneità al giudicato, atteso che il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, e una seconda, a cognizione piena, che non è una "revisio prioris instantiae", ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria; ne consegue che non si forma il giudicato sulla parte di tale ordinanza che non abbia formato oggetto di opposizione ( Cfr. Cass. n. 21720/2018).
Di conseguenza:
a) Non occorre la formulazione dell’opposizione “incidentale” da parte della convenuta in opposizione, la quale potrà riproporre nella memoria di costituzione eccezioni e difese non esaminate o disattese dal giudice della fase sommaria ( vedi ad es. Cass. n. 30443/2018);
b) Ciascuna parte ( opponente ed opposta) potrà proporre, oltre che nuove istanze istruttorie, anche nuove eccezioni e difese, oltre che nuove domande ( es. dedurre ulteriori motivi di illegittimità del licenziamento, v. Cass. 9458/2019, Cass. 5933/2019), con il solo limite del divieto di domande fondate su fatti costitutivi diversi.
ORIENTAMENTI DI MERITO DEL DISTRETTO:
La Corte d’appello di Catania, nella sentenza n. 823/2018 del 13.9.2018, (est. Sali), ha ritenuto non necessaria l’opposizione incidentale e quindi ammissibili le difese ribadite dal datore di lavoro nella fase di opposizione e riproposte in fase di reclamo, giungendo, previo esame nel merito, al rigetto dell’impugnativa del licenziamento, in riforma della sentenza del Tribunale di Ragusa.
Il Tribunale di Siracusa è orientato in senso conforme alla Cassazione e attualmente anche il Tribunale di Ragusa.
Il Tribunale di Caltagirone ritiene invece necessaria l’opposizione “incidentale”, da proporsi entro il medesimo termine perentorio.
Quanto alle nuove domande o eccezioni, i Tribunali del distretto sono tendenzialmente favorevoli all’ammissibilità, purchè fondate sui medesimi fatti costitutivi.
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3)OBBLIGATORIETA’/ INDISPONIBILITA’ DEL RITO FORNERO – IMPLICAZIONI.
a.Il rito Fornero è obbligatorio sia per il lavoratore che per il datore di lavoro in ogni caso di cui si discuta di licenziamento soggetto alle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come novellato dalla legge n. 92/2012.
Sul punto, la Suprema Corte ha infatti precisato che “L'individuazione dei presupposti per l'applicabilità del rito di cui all'art. 1, commi 47 e ss., l. n. 92 del 2012 rientra nei poteri-doveri del giudice, in quanto detto rito integra una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi per la decisione definitiva, ogni qual volta la domanda abbia ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento rientrante nelle ipotesi di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970, non potendo il lavoratore licenziato rinunciare al rito speciale, non essendo la specialità prevista nel suo esclusivo interesse” (C. Cass. 23073/2015).
Quanto al datore di lavoro, la Suprema Corte ha ritenuto che sia assoggettata al rito Fornero anche la causa di accertamento della legittimità del licenziamento proposta dal datore di lavoro ( Cass. 30433/2018: Alle controversie aventi ad oggetto i licenziamenti che ricadono nell'ambito di tutela dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 - incluse quelle introdotte dal datore di lavoro per l'accertamento della legittimità del licenziamento - si applica il rito cd. "Fornero", in quanto, essendo il rito in questione funzionale alla certezza, in tempi ragionevolmente brevi, dei rapporti giuridici di lavoro, va riconosciuta la medesima tutela giurisdizionale ad entrambe le parti del rapporto sostanziale, in base al principio costituzionale di equivalenza nell'attribuzione dei mezzi processuali esperibili; né può ammettersi, in relazione al medesimo licenziamento, la possibilità di due giudizi, l'uno, intrapreso dalla parte datoriale, con rito ordinario di lavoro e l'altro, dal lavoratore, con il rito speciale, poiché una tale soluzione sarebbe contraria ai principi di unitarietà della giurisdizione e di economia delle risorse giudiziarie”).
Con la precisazione che, se il lavoratore propone in via riconvenzionale domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento o ne deduce la nullità, il giudice, anche se non si applica l’art. 418 c.p.c., deve differire l’udienza per consentire alla controparte di controdedurre sulla domanda riconvenzionale.
ORIENTAMENTI DEL DISTRETTO: I Tribunali del distretto, a tale ultimo proposito, sono orientati in senso conforme alla Cassazione.
b. RILIEVO D’UFFICIO DEL RITO APPLICABILE.
Il problema si pone sia quando il ricorrente non indica il rito prescelto, sia quanto sceglie un rito diverso da quello che sarebbe “obbligatorio” ( Fornero o ordinario, a seconda dei casi).
Nel primo caso, il Tribunale, nell’esercizio del potere di qualificazione della domanda, procede d’ufficio all’individuazione del rito applicabile; nel secondo caso, appare preferibile, a parere di chi scrive, seguire in primo luogo la scelta della parte ricorrente e poi alla prima udienza sollevare la questione nel contraddittorio delle parti, adottando una delle possibili soluzioni ( mutamento del rito o declaratoria di inammissibilità).
Un caso abbastanza frequente di domanda non assoggettabile al rito Fornero è quello dell’azione volta ad accertare l’illegittima apposizione del termine, con richiesta di conversione del rapporto e riammissione in servizio, non essendo configurabile un “licenziamento” in caso di scadenza del termine.
Altro è quello in cui il lavoratore licenziato chiede di accertare che l’impresa che è subentrata nell’appalto è tenuta ad assumerlo in base alle previsioni del CCNL di categoria.
Un altro caso di scuola è quello dell’impugnazione del licenziamento con richiesta della sola tutela obbligatoria.
Circa la pronuncia da adottare in caso di ritenuta non assoggettabilità al rito Fornero il distretto è ormai quasi unanimemente orientato nel senso della declaratoria di inammissibilità o improponibilità, in “analogia” con quanto prevede il rito sommario ex art. 702 bis c.p.c. ( v. infra), piuttosto che per la conversione.
c. L’ART. 1, COMMA 48, PREVEDE CHE SI APPLICA IL RITO FORNERO ANCHE QUANDO DEVONO ESSERE RISOLTE QUESTIONI ATTINENTI LA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO.
a. E’ il caso dell’impugnativa di licenziamento con richiesta di tutela ex art. 18, previa deduzione di un rapporto di lavoro subordinato “in nero” ovvero formalmente instaurato come autonomo o di altro tipo (associazione in partecipazione, collaborazione a progetto, appalto, ecc.), ma di fatto, secondo la prospettazione attorea, di natura subordinata.
Spiega la Corte di cassazione: “Ed invero, il tenore letterale dell'art. 1, comma 47, della l. n. 92 del 2012 - nella parte in cui estende l'applicazione del rito speciale per l'impugnativa dei licenziamenti alle ipotesi in cui debbano essere "risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro" - depone chiaramente nel senso di ricomprendere anche le controversie che presuppongono la necessità di accertamento della natura subordinata del rapporto (nella specie, quale conseguenza della nullità dei contratti a progetto ovvero dell'accertamento della reale natura del rapporto formalmente configurato come autonomo, in relazione ad allontanamento del lavoratore disposto dall'azienda dopo la scadenza dell'ultimo contratto), senza che rilevi l'eventuale mancanza di "copertura contrattuale"( Cass. 186/2019, Cass. N. 21959/2018, 30443/2018, 30433/2018, 17775/2016).
Si tratta di ipotesi in cui può ritenersi pacifico l’assoggettamento al rito Fornero anche nel distretto di Catania.
b. La Corte di Cassazione ha poi chiarito che si applica il rito speciale anche quando occorre identificare il reale datore di lavoro ossia quando il lavoratore chiede la tutela dell’art. 18 nei confronti di un soggetto diverso da quello che formalmente risulta il datore di lavoro( Cass. 17775/2016, 7586/2018, 21959/2018).
Altro caso potrebbe essere quello in cui, al fine di accedere alle tutele di cui all’art. 18, si deduce l’utilizzo promiscuo della prestazione da parte di più datori di lavoro e quindi l’esistenza di una pluralità di datori di lavoro ( c.d. codatorialità).
ORIENTAMENTI DEL DISTRETTO: Trattasi di fattispecie non frequenti e che in passato hanno dato luogo a pronunce di diverso segno anche nell’ambito della stessa sezione lavoro di Catania, Caltagirone e Siracusa. L’indirizzo attuale tende piuttosto a conformarsi all’orientamento di legittimità.
d. DOMANDE ULTERIORI RISPETTO A QUELLA ASSOGGETTATA AL RITO FORNERO PROPOSTE IN VIA CUMULATIVA, ALTERNATIVA O SUBORDINATA. LIMITE DELL’IDENTITÀ DEI FATTI COSTITUTIVI.
La Suprema Corte ha chiarito che per medesimi fatti costitutivi si intendono la sussistenza del rapporto di lavoro e la cessazione del rapporto per iniziativa del datore di lavoro ossia il licenziamento, ritenendo quindi fondata sui medesimi fatti costitutivi la domanda subordinata di condanna al pagamento del t.f.r. e dell’indennità sostituiva del preavviso e la domanda subordinata di tutela obbligatoria; ( Cass. n. 17091/2016, Cass. 12094/2016, 1957/2016).
Il Tribunale di Siracusa si è più volte espresso in questi termini quanto alla domanda subordinata di tutela obbligatoria, salvo il limite delle prospettazioni pretestuose e artificiose finalizzate ad operare una scelta non consentita del rito e del giudice, secondo quanto ritenuto dalla Cassazione ( Cass. 4662/97, Cass. 11415/2007, Cass. 8189/2012, Cass. 7182/2014).
Diversamente erano orientati in passato il Tribunale di Catania e di Caltagirone che optavano per l’inammissibilità.
La Corte d’appello di Catania, con la sentenza n. 350/2018 del 29.3.2018 (est. Maiore) ha, da un lato, confermato la sentenza del Tribunale di Caltagirone nella parte in cui ha rigettato la domanda volta ad accertare la natura ritorsiva del licenziamento; dall’altro, in riforma della sentenza impugnata, ha ritenuto ammissibile e indi esaminato nel merito la domanda subordinata di annullamento del recesso per difetto di giusta causa con richiesta di tutela obbligatoria.
Non si ritengono invece fondate sui medesimi fatti costitutivi, le domande con le quali si chiede, oltre alla tutela di cui all’art. 18, anche l’accertamento della costituzione del rapporto di lavoro con un terzo soggetto ( es. nei casi di cambio appalto per i quali la contrattazione collettiva prevede il passaggio del personale all’impresa subentrante) ovvero quando si chiedano differenze retributive ( mensilità pregresse, straordinario, mansioni superiori, ecc.).
ORIENTAMENTI DEL DISTRETTO: Circa la pronuncia da adottare in caso di ritenuta non assoggettabilità al rito Fornero, il distretto è ormai tendenzialmente orientato, tranne il Tribunale di Caltagirone, nel senso della declaratoria di inammissibilità, in “analogia” con quanto prevede il rito sommario ex art. 702 bis c.p.c., piuttosto che per il mutamento del rito/separazione delle domande non proponibili.
La maggior parte dei Tribunali ritiene infatti che la pronuncia d’inammissibilità delle domande diverse proposte nel contesto dell’impugnazione del licenziamento sottoposta a rito c.d. “Fornero” si giustifichi in considerazione dell’espressione utilizzata dal legislatore (“non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo), da interpretarsi alla luce della ratio legis della novella legislativa, finalizzata ad impedire che l’impugnazione stessa sia rallentata dall’esigenza di trattare altre domande.
Tale soluzione interpretativa, oltre che in armonia con le esigenze di celerità caratterizzanti il nuovo rito e con il dettato normativo della L. n. 92/2012, trova conforto anche nei principi affermati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nell’ordinanza n. 19674/2014, in cui è stata evidenziata l’analogia tra il rito speciale previsto per le controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 L. n. 300/1970 – come previsto dai commi 47 ss. dell'art. 1 l. 92/2012 – e il procedimento sommario di cognizione, con riguardo al quale è prevista la pronuncia di inammissibilità delle domande non rientranti tra quelle indicate nell’art. 702 bis c.p.c.
A tal proposito, la Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 272/2019, est. Rao, ha confermato la sentenza del Tribunale di Ragusa nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la domanda di accertamento della costituzione del rapporto di lavoro con l’impresa subentrata nell’appalto per la gestione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di un comune.
Militano in senso contrario - ossia per la separazione/conversione - ragioni di economia processuale, dal momento che l’improponibilità non impedisce la riproposizione delle domande con ricorso ex art. 401 c.p.c..
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4.NOTIFICHE, COMUNICAZIONI E COSTITUZIONE DELLE PARTI.
a. Uno dei problemi più frequenti è quello dell’omessa notifica del ricorso introduttivo della fase sommaria: la Cassazione si è espressa nel senso della concessione del termine, in quanto in primo grado non è prevista la comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza: “Nel rito di cui all'art. 1, commi 48 e segg., della l. n. 92 del 2012, così come in quello del lavoro, ove risulti omessa o inesistente la notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza, è ammessa l'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, ex art. 291, comma 1, c.p.c., per il rinnovo della stessa, non ostandovi le esigenze di celerità che lo ispirano né il principio della ragionevole durata del processo, atteso che l'eventuale inammissibilità o improcedibilità del ricorso non ne precludono la riproposizione, con una ulteriore dilatazione del tempo necessario ad ottenere una pronuncia di merito”( Cass. n. 2621/2017, n. 5188/19) .
I Tribunali del distretto concedono termine perentorio per provvedere alla notifica omessa.
b. Nel caso di omessa notifica del ricorso in opposizione, invece, i Tribunali del distretto di Catania, tranne quello di Ragusa, si orientano in senso opposto, richiamandosi a Cass. 17325/2016, secondo cui “in caso di mancata notifica dell'opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012, trova applicazione, per identità di "ratio", il principio proprio del rito del lavoro secondo il quale l'appello (o il ricorso), pur tempestivamente depositato, è improcedibile ove ne sia stata omessa la notificazione unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, senza che il giudice possa concedere la rimessione in termini, trattandosi di fase di natura eventuale, volta a confermare o modificare un precedente provvedimento giudiziario, idoneo al giudicato anche se emesso all'esito di una fase a cognizione semplificata, cui corrisponde l'interesse delle parti ad ottenere la stabilizzazione entro tempi prefissati, certi e ragionevolmente brevi, in coerenza con l'interesse dell'ordinamento alla certezza dei rapporti giuridici. ( conforme Cass. n. 19243/18).
Tuttavia, in caso di mancata comparizione delle parti, la Suprema Corte ha recentemente precisato ( sentenza n. 9142/2018) che “il giudice non può sanzionare in rito con l'improcedibilità l'omessa notifica del ricorso, sul mero rilievo della mancata comparizione delle parti all'udienza prefissata, senza aver prima verificato d'ufficio che l'opponente abbia avuto effettiva conoscenza del decreto di fissazione dell'udienza, da notificarsi, unitamente all'opposizione, nei termini di cui al comma 52 del citato art. 1., in quanto, in forza di un'interpretazione adeguatrice ai valori costituzionali e convenzionali, fondata sul generale criterio per il quale ove sia prescritto un termine per il compimento di una certa attività processuale, la cui omissione si risolva in un pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata la conoscibilità dell'atto che funge da presupposto condizionante l'onere notificatorio, sebbene la suddetta norma non preveda esplicitamente la comunicazione, va evitato che la sua omissione si traduca in una preclusione alla prosecuzione del giudizio, con pregiudizio irreversibile dell'opponente”, precisando che tale conclusione non è in contrato con quella di cui si era giunti nella sentenza n. 17325 del 2016, sopra citata, atteso che “in tale pronuncia si ha ben cura di evidenziare che, nel caso in quell'occasione all'attenzione della Corte, "nessuna questione è posta con riferimento alla comunicazione al ricorrente del decreto di fissazione di udienza, né all'(eventuale) ristrettezza del termine assegnato per la notifica, che neppure viene indicato, pacifico essendo invece che la notifica del ricorso e del pedissequo decreto non sia avvenuta, e che all'udienza fissata per la discussione della causa la difesa di parte opponente abbia chiesto di essere rimesso in termini per procedervi, senza fornire alcuna motivazione in merito alla mancata notifica".
Il problema non si pone nella fase del reclamo, ove, applicandosi le norme sull’appello, è prevista la comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza e la Corte può verificare per tabulas che lo stesso sia stato comunicato alla parte reclamante.
c. Modalità di costituzione delle parti nella fase dell’opposizione: trattandosi di due fasi autonome e distinte, è possibile la costituzione in formato cartaceo anche se nella fase sommaria sia avvenuta con modalità telematiche, perché “ nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado, pur unitario, si articola in due fasi procedimentali e l'introduzione della fase di opposizione richiede un'autonoma costituzione delle parti, come è dimostrato dal fatto che l'art. 1, commi 51 e 53, della l. n. 92 del 2012 preveda a loro carico gli stessi incombenti che caratterizzano l'introduzione del giudizio nel rito del lavoro; ne consegue che il ricorso in opposizione può essere depositato in forma cartacea, non ricorrendo i presupposti per l'applicazione dell'art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012 (conv., con modif., in l. n. 221 del 2012), secondo cui il deposito degli atti processuali delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche. ( Sez.. L - , Sentenza n. 2930 del 31/01/2019, Massime precedenti Vedi: N. 22479 del 2016 Rv. 641629 - 01, N. 25086 del 2018 Rv. 650729 - 01, N. 30443 del 2018.
L’orientamento dei Tribunali del distretto è conforme a quello di legittimità.
d. La comunicazione della sentenza che decide sull’opposizione: essa avviene via pec all’indirizzo previsto da pubblici elenchi o registri (UNIPEC, REGIND) ed è irrilevante l’indicazione di una pec diversa da parte del difensore negli atti di causa, giacchè, secondo la Suprema Corte, “Nel rito cd. Fornero, il termine breve per proporre reclamo contro la sentenza che decide il ricorso in opposizione decorre dalla comunicazione di cancelleria della sentenza a mezzo PEC, comunicazione che, dopo le modifiche apportate al comma 1 dell'art. 125 c.p.c. dalla l. n. 114 del 2014, di conversione del d.l. n. 90 del 2014 (applicabile "ratione temporis"), deve avvenire all'indirizzo PEC del difensore risultante da pubblici elenchi o da registri accessibili alla pubblica amministrazione, restando irrilevante l'eventuale indicazione nell'atto di un diverso indirizzo PEC. (Sez. L - , Sentenza n. 83 del 04/01/2019.Massime precedenti Vedi: N. 6059 del 2018 Rv. 647388 - 02, N. 25948 del 2018 Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 23620 del 2018).

e. La notifica del ricorso in opposizione si effettua al procuratore costituito nella fase sommaria, in quanto, secondo la Suprema Corte, “ Nel rito cd. Fornero, è valida la notifica del ricorso in opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012, al procuratore domiciliatario, inserendosi la stessa in un procedimento unitario, sebbene a struttura bifasica, articolato in una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una, oppositiva a cognizione piena, la quale, per quanto autonoma ed eventuale, interviene in un contesto in cui è già instaurato il contraddittorio tra le parti, che legittimamente sono rappresentate dai procuratori costituiti. ( cfr. Cass. n. 25086/2018).
I Tribunali del distretto ritengono nulla la notifica effettuata alla parte personalmente anziché al procuratore costituito nella fase sommaria ed assegnano termine perentorio per rinnovarla).
f. Decorrenza del termine per proporre opposizione: Secondo la Suprema corte, “ Il termine di trenta giorni previsto dall'art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012, per l'opposizione avverso l'ordinanza, di accoglimento o di rigetto, di cui al comma 49 dello stesso articolo, decorre dalla comunicazione del provvedimento o dalla notificazione dello stesso senza che rilevi che all'esito dell'udienza ne sia stata data lettura, dovendosi escludere la possibilità di una decorrenza da un momento diverso da quello previsto dalla legge, in quanto la norma, che lo fissa a pena di decadenza, deve essere interpretata restrittivamente. ( Sez. L, Sentenza n. 18403 del 20/09/2016)
I Tribunali del distretto sono di orientamento conforme a quello di legittimità.
g. Decorrenza del termine per proporre reclamo: Secondo la Suprema corte, “ Il termine breve di trenta giorni, previsto dall'art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, per la proposizione del reclamo alla corte di appello avverso la sentenza del tribunale sulla impugnativa di licenziamento di cui all'art. 18 st. lav., decorre solo dalla comunicazione della sentenza o dalla notificazione della stessa se anteriore, senza che rilevi la lettura del provvedimento in esito all'udienza ai sensi dell'art. 429 c.p.c., attesa la specialità del rito rispetto alla disciplina ordinaria e la necessità di interpretare restrittivamente la norma in tema di decadenza dall'impugnazione, escludendosi pertanto la possibilità di individuare un momento di decorrenza della stessa diverso da quello indicato dalla legge ( cfr. Cass. n. 19862/2018).
La Corte d’appello di Catania si è pronunciata nello stesso senso con la sentenza N. 630/2018 ( EST. MAIORE), rigettando l’eccezione di tardività del reclamo, fondata sulla circostanza che la sentenza era stata pronunciata in udienza.
La Corte di Cassazione ha tuttavia precisato che “il termine per la proposizione del reclamo di cui all’art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012 decorre anche dall’estrazione di copia autentica della sentenza, vertendosi in un’ipotesi in cui la conoscenza è ottenuta in via formale, per essere stata acquisita all’esito di un’attività istituzionale, regolata dalla legge, che impone l’individuazione del soggetto richiedente e di quello che ritira la copia, nonché dell’annotazione della data di rilascio di essa, e costituendo, quindi, una forma equipollente della comunicazione di cancelleria, caratterizzata dagli stessi requisiti di certezza. ( Cass. 13858/2017).
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5)AMMISSIBILITA’ DEL RICORSO CAUTELARE EX ART. 700 C.P.C. E IDONEITA’ DEL RICORSO CAUTELARE ANTE CAUSAM AD IMPERDIRE LA DECADENZA EX ART. 6 DELLA LEGGE N. 604/66:
a. Il distretto di Catania è concorde nel ritenere ammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., il cui campo di applicazione è tuttavia da ritenersi del tutto residuale ed eccezionale ovvero limitato ai caso in cui venga in rilievo un pregiudizio imminente ed irreparabile a diritti inviolabili della persona ( es. cure mediche, istruzione dei figli, ecc.);
b. Quanto invece all’idoneità ad impedire la decadenza, va premesso che l’art. 6, comma 2, della legge n. 604/66, come modificato dall’art. 32 della legge n. 183/2010 e, limitatamente al termine per depositare il ricorso giudiziale, dall’art. 1, comma 38 della legge 92/2012, dispone che “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilita' di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.
La Suprema Corte ( cfr. Cass 14390/2016, Cass. 26309/2017, Cass. 31647/2018, ord. 27066/2018, sent. 31647/2018 ) ha reiteratamente ritenuto “…..l’eloquenza della formula dell'art. 6 comma 2 della legge 604 del 1966, là dove equipara - in termini di idoneità ad escludere la decadenza - al ricorso depositato presso la cancelleria del giudice del lavoro la comunicazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato e poi laddove reitera la previsione dell'atto dovuto a pena di decadenza, indicandolo nel deposito del ricorso al giudice del lavoro entro sessanta giorni dalla chiusura infruttuosa di quel tentativo, in tal modo rendendo palese che quell'atto ultimo da depositare, che non può essere che il ricorso ordinario, è quello stesso atto previsto ab initio come modalità alternativa per escludere la decadenza”.
Medesimo iter argomentativo e identica ratio sono quelli posti a base di decisioni in tema di individuazione del “dies a quo” del termine per proporre ricorso giurisdizionale” ai sensi dell'art. 32, comma 1, l. n. 183 del 2010, laddove è stato ritenuto che “le esigenze di certezza dei rapporti giuridici depongono per l'inefficacia della impugnazione stragiudiziale del licenziamento qualora il ricorso giudiziale non sia depositato nel rispetto del termine decorrente dalla data di spedizione dell’impugnazione stragiudiziale” (Cass. n. 5717 del 20/03/2015, richiamata da Corte App. Catania n. 249/2017).
ORIENTAMENTI DEL DISTRETTO:
I Tribunali del distretto si sono orientati in questo senso, così come la Corte d’appello di Catania ( cfr. sentenza n. 249/2017, est. DI STEFANO, confermata dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 27066/2018).
Senonchè, nel mese di maggio corrente anno, il Tribunale di Catania ( est. Fiorentino) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge n.604/1966 per violazione degli articoli 3, 24, 111 e 117, comma 1, in relazione all’art. 6 della CEDU, nella parte in cui non annovera il ricorso d’urgenza tra gli atti idonei ad impedire la decadenza.
In estrema sintesi, il Tribunale rimettente ritiene che la norma, così come risultante dal diritto vivente, renda praticamente inutile il ricorso all’art. 700 c.p.c., dal momento che la maturazione del termine potrebbe verificarsi anche nel corso del procedimento d’urgenza, con conseguente inammissibilità sopravvenuta della domanda cautelare oppure potrebbe rende inutiliter datum il provvedimento eventualmente favorevole al lavoratore, incoraggiando condotte speculative del datore di lavoro e privando di fatto l’istituto cautelare della sua capacità di anticipare gli effetti della sentenza di merito.
Quindi, la norma introduce una sanzione di inammissibilità per questioni meramente formali, che ha come conseguenza non solo l’inutilità della tutela d’urgenza, ma anche la preclusione definitiva del diritto di difesa avverso un atto che incide in modo grave ed irrimediabile sulla vita del lavoratore che ha “sbagliato” nella scelta dello strumento processuale.
Essa apparirebbe pertanto lesiva dell’art. 6 della C.E.D.U., per il tramite dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, il quale prescrive che le misure che limitano l’accesso alla tutela giurisdizionale debbano essere ragionevoli, chiare, prive di ambiguità, prevedibili e soprattutto proporzionate.
Ed infatti, nonostante il lavoratore si sia attivato tempestivamente con la proposizione di un mezzo idoneo ad anticipare gli effetti del giudizio di merito, l’inefficacia del mezzo ad impedire la decadenza appare del tutto sproporzionata, laddove lo scopo di garantire la certezza dei rapporti potrebbe ugualmente essere perseguito, atteso che le parti possono instaurare il giudizio di merito subito dopo l’emissione del provvedimento ovvero nel corso del medesimo procedimento d’urgenza.
La norma apparirebbe pertanto lesiva dei principi di certezza del diritto e dell’affidamento generato dal sistema processuale vigente e quindi il diritto di difesa, in quanto, non escludendo espressamente il ricorso cautelare dagli atti idonei a impedire la decadenza, induce in errore il lavoratore sull’utilità del mezzo cautelare.
Sarebbe inoltre irragionevole, in quanto il legislatore dà rilievo ad istituti extraprocessuali, quali il tentativo di conciliazione e l’arbitrato, che per loro natura potrebbero anche concludersi senza la definitiva regolazione dei rapporti ( rifiuto o mancato accordo) ovvero con esiti a loro volta impugnabili ( per il lodo, vedi art. 412 co. 4, 808 ter c.p.c.) e non anche ad un rimedio di natura processuale, la cui funzione tipica è anticipatoria degli effetti di una sentenza e ciò senza neppure prevedere quanto meno la sospensione del termine di decadenza fino alla conclusione del procedimento cautelare.
Nel rimandarvi al testo integrale dell’ordinanza, che si allega alla presente relazione, non ci resta che attendere l’esito dello scrutinio di costituzionalità.

 

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