Testo integrale con note e bibliografia

1. Il compito che mi viene assegnato è quello di svolgere una riflessione, che, prendendo spun-to dalla recente decisione della Corte costituzionale n. 254/2020, esamini le possibili evoluzio-ni della materia in ordine alla sanzione dissuasiva con particolare riferimento alla violazione delle procedure sindacali in tema di licenziamenti collettivi.
È appena il caso di osservare che la fondamentale opera di riscrittura del c.d. contratto a tutele crescenti che la Corte costituzionale ha messo in atto, seguendo un percorso che non sembra possa dirsi completato ( ) neanche con la più recente decisione, si connette ad uno sfondo più ampio che involge la nostra materia nel suo insieme, nel suo rappresentare un si-stema in cui la protezione giuridica del lavoratore contro il licenziamento illegittimo è rivela-trice di scelte valoriali profonde, che si proiettano in una dimensione non solo nazionale ma europea – come dimostrato anche dall’intreccio fra la già citata sentenza della Corte costitu-zionale e l’ordinanza del 4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ contro Balga srl) della Corte di giustizia dell’Unione europea – ed internazionale ma che, al tempo stesso, portano con sé i se-gni di una straordinaria stagione che appartiene al patrimonio costituzionale del diritto del la-voro italiano.

 

2. Nella disciplina italiana dei licenziamenti collettivi, ancora rappresentata, nell’ormai imminente trentennale della sua vigenza, dalla l. 23 luglio 1991 n. 223, conformemente alle in-dicazioni del diritto dell’Unione (contenute originariamente nella direttiva 75/129 CEE, modi-ficata dalla direttiva 92/56 CEE e nel testo coordinato della direttiva 98/59/CE), ha assunto una rilevante importanza l’articolata procedura di confronto tra datore di lavoro, sindacati e pubblici poteri disciplinata dall’art. 4 della citata legge.
L’intervento del legislatore è da ricondurre alle tecniche di procedimentalizzazione dei poteri del datore di lavoro ( ).
Non può neanche dirsi che il tema procedurale fosse una vera novità nel momento di entrata in vigore della legge del 1991: una procedura di consultazione sindacale per le riduzio-ni del personale era infatti prevista dall’accordo interconfederale 5 maggio 1965.
Certo, rispetto alla soluzione praticata dall’accordo interconfederale, nella l. n. 223/1991 il profilo degli obblighi di informazione e consultazione nel licenziamento collettivo riveste un significato ben diverso e una indiscutibile centralità, essendo così importante e deli-cato da assumere – insieme al tema dei criteri di scelta – una valenza assorbente sul piano del controllo giudiziale ( ) e da rappresentare “il cardine del licenziamento collettivo” ( ).
Sul punto la conclusione su cui si attesta la prevalente giurisprudenza è che il rispetto della procedura di informazione e consultazione sindacale e delle regole in tema di criteri di scelta rappresenta nel licenziamento collettivo la tecnica adottata dal legislatore per dar corso ad un efficace controllo sull’autenticità delle scelte aziendali in tema di riduzione del persona-le. Lungo questa linea si colloca l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifi-che violazioni delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5 – della l. n. 223/91 – e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle proce-dure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di «effettive» esigenze di riduzione o tra-sformazione dell’attività produttiva» ( ).
La centralità degli obblighi procedurali nella disciplina dei licenziamenti collettivi trova un fondamentale punto di riferimento nell’art. 2 della direttiva 98/59 che, invece, non si occu-pa del tema dei criteri di scelta.
A fronte di una così grande importanza degli obblighi procedurali si è messo in rilievo che “Quando il potere sostanziale del datore di lavoro sia privo del necessario presupposto le-gittimante (una corretta procedura sindacale), l’atto di recesso risulta privo di efficacia” ( ).
Una simile affermazione si riconnette alla ratio originaria della legge n. 223/1991 e alla circostanza che non si può da un lato riconoscere alla procedura di informazione e consulta-zione sindacale la funzione di controllo ex ante del legittimo esercizio del potere di licenziare e dall’altro ritenere che l’esercizio di quel potere in assenza dei presupposti che lo legittimano possa tradursi nella “risoluzione del rapporto” dichiarata dal giudice.

 

3. In una prospettiva eurounitaria, a fronte della rilevanza degli obblighi procedurali, intesi quali presupposti che legittimano l’atto di recesso, si dovrà in effetti prendere atto che le soluzioni attualmente adottate nel sistema italiano lasciano spazio a molte perplessità proprio sul piano della loro effettiva capacità dissuasiva.
Riflette una evidente incoerenza radicare il fondamento del legittimo esercizio del pote-re di recesso al rispetto di determinati obblighi procedurali per poi non trarne le necessarie conseguenze in termini di invalidità dell’atto negoziale.
Sia ben chiaro, qui non si tratta di ritenere in sé inadeguata la tutela c.d. economica quale conseguenza sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo ma di ricondurre il tema delle reazioni dell’ordinamento avverso il licenziamento illegittimo al diritto delle obbligazioni e, per questa via, alle conseguenze che l’ordinamento prevede in caso di inadempimento di un obbligo che rappresenta il presupposto necessario per l’esercizio di un potere.
Si tratta, per altro verso di valutare se, a fronte di una invalidità dell’atto di recesso che, secondo i criteri civilistici, avrebbe come conseguenza l’invalidità dell’atto stesso, si possa ri-tenere congruente una risposta sanzionatoria che “supera” una siffatta invalidità giungendo a ritenere fisiologica la presa d’atto della cessazione del rapporto di lavoro e a riconnettervi con-seguenze di natura indennitaria.
Occorre dunque interrogarsi se la c.d. tutela economica per i licenziamenti illegittimi possa ritenersi pacificamente adottabile in tutti i casi in cui il potere di licenziare viene eserci-tato in assenza di alcuni presupposti minimi.
Nel caso del licenziamento collettivo, come è stato osservato, “il rispetto della proce-dura non attiene solo alla forma, ma anche alla sostanza del provvedimento adottato” ( ).

 

4. L’interrogativo appena sopra enunciato presuppone una più profonda riflessione sul significato che le riforme in tema di licenziamento hanno finito per assumere nel nostro si-stema giuslavoristico, una riflessione che ha il suo epicentro nel tema dell’effettività dei diritti nel rapporto di lavoro e che deve osservare le ricadute sistematiche della disciplina dei licen-ziamenti nella trama del rapporto stesso.
Chi scrive ha la profonda convinzione che il nesso fra tutela contro i licenziamenti ille-gittimi ed effettività dei diritti del lavoratore coltivato nella dottrina giuslavoristica nella rifles-sione maturata intorno al paradigma dell’art. 18 stat. lav. non ha affrontato due fondamentali nodi critici.
In primo luogo l’effettività piena (o alta) dei diritti del lavoratore non può essere garan-tita solo nei rapporti di lavoro assistiti da stabilità reale, dovendo altrimenti assumersi un con-trasto palese con il principio di eguaglianza: un conto è infatti differenziare la tutela contro i licenziamenti avuto riguardo ai requisiti dimensionali dell’organizzazione datoriale, come è storicamente avvenuto, altro conto è sostenere che i diritti del lavoratore nel rapporto debba-no rispondere ad un variabile grado di intensità in ragione di diversi requisiti dimensionali dell’organizzazione datoriale: tale considerazione è fattuale e non giuridica, è una presa d’atto che tuttavia non indica un percorso ermeneutico soddisfacente.
In secondo luogo, considerata l’acquisizione, esplicitata dalla giurisprudenza costitu-zionale, secondo cui, la reintegrazione non è costituzionalmente imposta ( ), occorre fare i conti con l’ipotesi – tutt’altro che remota e, in verità, per molti aspetti realizzata – che, per via normativa, si realizzi il superamento, l’eliminazione o la residualità della tutela reintegratoria.
In questa ipotesi e alla luce del nesso sopra ricordato ne dovrebbe derivare la compro-missione dell’effettività dei diritti dei lavoratori: se così fosse l’intera storia del diritto del lavo-ro e la sua evoluzione futura dovrebbero essere affidate alle sorti della tutela reintegratoria contro i licenziamenti illegittimi, che, dunque, invece di essere regola confermativa della trama giuslavoristica sull’effettività dei diritti, sarebbe una sorta di anomalia sistematica che, da sola, ha retto, come una sorta di ponteggio precario, l’intero impianto di garanzie dei diritti del la-voratore (e solo per i rapporti di lavoro attratti nel campo di applicazione dell’art. 18 stat. lav.) e che, una volta rimossa dall’ordinamento, lo lascerebbe precipitare al suolo.
Occorre dunque prendere atto della debolezza e dell’ambiguità dell’assunto secondo cui l’effettività dei diritti del lavoratore trova il proprio fondamento nella stabilità del rapporto di lavoro.
Queste considerazioni non hanno certo lo scopo di sminuire il senso ultimo della tutela reintegratoria ma, al contrario: (a) di prendere atto che il processo di indebolimento del terri-bile rimedio è il frutto di una accezione debole del rapporto di lavoro che ha finito per conta-minare di sé la ratio originaria della disposizione statutaria e che non ha mai fatto i conti con il diritto delle obbligazioni, preferendo invocare la supremazia dei poteri datoriali quale sostrato irriducibile di una diversità genetica del rapporto di lavoro dal rapporto obbligatorio in senso generale; (b) di mettere in luce che l’effettività alta o piena dei diritti del lavoratore nel rappor-to di lavoro non può in alcun modo riguardare solo i rapporti assistiti da una tutela più ener-gica contro i licenziamenti illegittimi, pur essendo evidente, anche solo per ragioni intuitive, che una siffatta tutela dà maggiore forza ai diritti nel rapporto in corso di esecuzione e sol perché, parafrasando Mancini ( ), il poco è meglio del niente; tale rilievo non sembra tuttavia ido-neo a soddisfare le rationes funzionali del discorso giuslavoristico sull’effettività dei diritti.
Non v’è dubbio che il legame stabilità del rapporto – garanzie dei diritti rappresenta una sorta di delicato equilibrio che si è costruito nel corso di una faticosa elaborazione che appartiene alla storicità del diritto del lavoro.
Vi è un modello che è venuto consolidandosi nell’esperienza storica degli ultimi cin-quant’anni e che esprime, al tempo stesso, la debolezza del contratto e la forza della tutela del posto di lavoro, una forza proiettata, dunque, sull’estinzione del rapporto.
La critica che si intende muovere a questo modello può essere così rappresentata: è evidente che se della stabilità si vuole valorizzare la capacità di incidere beneficamente sulla tenuta dei diritti del lavoratore nel rapporto di lavoro, se ne deve assumere la cifra contrattua-le, essendo necessario operarne la riconduzione alla responsabilità per inadempimento delle obbligazioni: in tal senso la tutela reintegratoria è solo la conferma della pulsione del diritto delle obbligazioni verso l’adempimento degli obblighi, pulsione che non v’è ragione alcuna di negare nel rapporto di lavoro, quale che sia il sistema di tutele predisposto dal legislatore con-tro il licenziamento illegittimo.
Ben più complessa è invece la questione che attiene al mutamento del modello sopra descritto e, in particolare, all’ipotesi che la stabilità del rapporto di lavoro sia oggetto di pro-cesso regressivo, finalizzato dunque al superamento o alla eliminazione della tutela reintegra-toria, come emerge nell’attuale quadro normativo.
La stabilità del rapporto di lavoro, come si è messo in luce, proprio nell’ambito del modello descritto, ha operato, con i grandi e profondi limiti sopra indicati, come presupposto dell’effettività dei diritti del lavoratore nell’attuazione del rapporto, un’effettività dimidiata, che evoca una sorta di specialità del diritto del lavoro alla cui base si colloca il compromesso sistematico fra debolezza contrattuale del lavoratore e tutela forte del posto di lavoro.
Ciò premesso, ove la stabilità del rapporto di lavoro fosse in varie guise superata e dunque eliminata o oggetto di un disegno normativo regressivo senza un complessivo ripen-samento del sistema delle tutele giuslavoristiche o, come direbbe Mancini, “senza nulla sostituir-vi” ( ), dovrebbe giungersi alla paradossale conclusione – proprio in ragione del modello giu-slavoristico inveratosi nel diritto vivente – che i diritti del lavoratore siano destinati a perdere la propria effettività, percorrendo il piano inclinato del dissolvimento e della degradazione ver-so mere concessioni unilaterali del titolare dei poteri di supremazia.
Orbene laddove la stabilità, proprio perché costituzionalmente non necessitata, scom-parisse dall’orizzonte normativo aprendo le porte ad una sorta di ritorno alla libera recedibili-tà, si determinerebbe una profonda frattura sistematica nel diritto del lavoro che riguardereb-be proprio il modello sopra descritto di cui sarebbe messa in chiaro risalto la parabola involu-tiva.
La ricomposizione di tale frattura presupporrebbe una radicale revisione del modello originario.
È pur vero, come afferma la giurisprudenza costituzionale, che la tutela reintegratoria non rappresenta l’unico possibile paradigma attuativo dei principi fissati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione ( ) ma è innegabile che il superamento della tutela reintegratoria non può avve-nire senza soluzioni sistematiche dirette a riequilibrare una scelta così radicale, soluzioni che si collocano ben oltre gli interventi di manutenzione della disciplina del rapporto di lavoro in senso stretto.
La stabilità del rapporto di lavoro ha rappresentato, sotto molteplici profili, la matrice valoriale irrinunciabile della dottrina giuslavoristica, ponendosi alle fondamenta dell’edificio del diritto del lavoro.
Tale connotazione della stabilità può essere rappresentata non solo come valore ma anche come problema ( ), assumendo questa prospettiva il senso di una criticità immanente al sistema giuslavoristico nel suo difficile rapporto con il dinamismo inarrestabile e dominante dei mercati e con le opzioni del legislatore più recente, spesso finalizzate ad assecondare le pulsioni irresistibili verso l’affievolimento di vincoli che sono stati storicamente ricondotti, con un eccesso di semplificazione, ad una certa idea di rigidità regolativa del rapporto di lavoro.
Invero la rappresentazione di una stabilità problematica si rivela tale al di là delle scelte contingenti della legislazione e del pur mutato contesto del tessuto economico giacché, se os-serviamo la stabilità dentro il vincolo contrattuale, non v’è dubbio che, una volta acclarato il riconoscimento del diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro, tale diritto dovrà comunque trovare il momento della valutazione comparativa, secondo il necessario ricorso al bilanciamento valoriale, con le libertà costituzionalmente riconosciute al datore di lavoro e, in particolare, con le libertà enucleabili dall’art. 41 Cost.
La stabilità si rivela e tende ad identificarsi nella letteratura giuslavoristica con la sua accezione forte di stabilità reale di origine legale, intesa come “continuità del rapporto di lavo-ro (fino a che non intervenga licenziamento legittimo)” ( ) e, per questa via, può affermarsi, nel solco delle acquisite raffigurazioni giurisprudenziali, che è stabile “ogni rapporto che, indi-pendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul pia-no processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo” ( ).
Risultano dunque individuati due fondamentali profili della stabilità reale che, mediante una semplificazione, possiamo così indicare: a) il controllo sul fondamento giustificativo del recesso; b) il quadro rimediale che opera nella direzione della “ricostituzione” del rapporto di lavoro illegittimamente risolto ( ).
La stabilità obbligatoria è, invece, una “espressione indebitamente ellittica”, che signifi-ca solo “surrogato obbligatorio della stabilità” e che rischia di essere fuorviante perché “l’aggettivo non qualifica, come sembra, ma nega in realtà il sostantivo” e, in questa luce, la stabilità obbligatoria è un “modo di essere della libera recedibilità” ( ).
Vi è infatti fra le due sanzioni una “distanza incolmabile”, una differenza qualitativa non sempre avvertita in tutto il suo rilievo, giacché solo la stabilità reale può essere intesa sen-za aggettivi: essa comporta la sopravvivenza del rapporto ad un licenziamento rimuovibile ex tunc ( ).
La stabilità reale del rapporto di lavoro è valore che nell’attuale fase storica è oggetto di critiche radicali e profonde ( ), critiche che muovono da “una serie di punti di vista esterni al sistema giuslavoristico italiano” ( ) e che hanno raggiunto elevati punti di tensione nell’ambito del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro del 2012, intesa come la risposta italiana alle sollecitazioni provenienti dalla Banca Centrale Europea per una profonda revisio-ne della disciplina delle assunzioni e dei licenziamenti ( ).
Inutile dire che il livello di esasperazione sul tema della tutela reintegratoria ha poi rag-giunto la sua intensità massima con le più recenti riforme, ricondotte alla formula del Jobs Act, e, in particolare, con la disciplina del c.d. contratto a tutele crescenti.
Invero l’idea che la tutela reintegratoria rappresenti una sorta di anomalia si è fatta strada da tempo in dottrina ( ), nonostante gli avvertimenti lanciati, forse fuori tempo mas-simo, dalla giurisprudenza di legittimità ( ).
E’ invece da condividere l’opinione che la stabilità reale non si contrappone alla stabili-tà obbligatoria ma alla libera recedibilità: la stabilità è infatti antitesi della libera recedibilità ed esprime il principio di conservazione del rapporto di lavoro fino a quando il vincolo contrattuale non sia compromesso dall’inadempimento notevole degli obblighi, secondo lo schema tipico di tutti i contratti di scambio sul mercato ( ).
Questa affermazione merita di essere chiarita alla luce del principio di conservazione del contratto di lavoro che riguarda fenomeni di varia natura, accomunati dal favore del legi-slatore storico per il “mantenimento in vita del rapporto il più a lungo possibile”: ciò sia nel senso della durata, sia in quello dell’eliminazione delle cause capaci comunque di interromper-lo ( ).
Non è privo di significato rilevare che la conservazione opera come regola ermeneutica e che nell’ambito della teoria della conservazione del contratto vengono ad innestarsi, fra le altre, le fattispecie che attengono alle cause di invalidità del contratto di lavoro a tempo de-terminato e quelle relative alla disciplina dell’interposizione illecita di manodopera ( ).
Non a caso, secondo una ricostruzione dottrinaria, la stabilità del “posto” di lavoro viene ricollegata non soltanto alla disciplina del licenziamento ma anche alle vicende del rap-porto ed agli effetti della nullità giacché l’orientamento dell’ordinamento verso la stabilità (come durata e continuità del rapporto di lavoro) traduce la tutela contrattuale dell’impiego in tutela del posto di lavoro ( ).
Pur non potendosi operare una vera e propria identificazione tra stabilità del rapporto di lavoro e principio di conservazione del contratto di lavoro, proprio sul tema della stabilità del rapporto di lavoro si perviene a conclusioni non dissimili rispetto a quelle raggiunte per individuare l’elemento unificante delle teorie della conservazione nel diritto del lavoro: la ten-denza alla stabilità e alla conservazione del posto di lavoro.
Ecco perché, nonostante la diversa impostazione, anche “la teoria della regola della stabilità del rapporto accomuna la conservazione del posto ottenuta mediante le limitazioni le-gali alla libertà di recesso, alla conservazione che deriva dalla particolare disciplina dell’impossibilità sopravvenuta, delle vicende oggettive e soggettive dell’impresa, dalla disci-plina degli effetti dell’invalidità e da quella del termine del rapporto” ( ) ed in questa prospet-tiva “la difformità dei mezzi giuridici attraverso i quali la regola viene raggiunta non rilevereb-be sull’unità concettuale della stessa” ( ).
Ed è decisivo mettere in luce che la regola della stabilità del rapporto di lavoro si è af-fermata quale stabilità dell’impiego intesa “come reazione alla deroga, caratteristica dei con-tratti di durata, all’esclusione del recesso ordinario ove manchi il mutuo consenso; la quale rendendo omaggio al principio della parità formale delle parti del contratto, approdava nel rapporto di lavoro a durata indeterminata, alla libertà di recesso, ponendo così una pesante remora particolarmente a quella sostanziale tutela della libertà individuale che si intendeva raggiungere” ( ).
La stabilità del rapporto di lavoro è dunque la reazione a quella “prima grande scelta di campo” che ha alle spalle quasi un secolo e mezzo di elaborazione giuridica: a buona parte dei giuristi che riflettevano sul nuovo schema negoziale, sorto nel cuore dei rapporti di produzio-ne (il contratto di lavoro subordinato) lo strumento della risoluzione – legato com’era al con-trollo sull’inadempimento dell’altra parte – non sembrò adatto a garantire l’avvento della nuo-va era e preferirono lo strumento del recesso ( ).
Imboccata la strada del recesso si è negato al rapporto di lavoro ciò che invece si garantisce ad ogni al-tro rapporto destinato ad inserirsi nel mercato ed è prevalsa la tecnica del controllo dei motivi, logica conseguenza del divieto di perpetuità dei vincoli obbligatori sancito dall’art. 1628 del codice civile del 1865 ( ).
Tale divieto postulava, come è ben noto, la recedibilità ad nutum del lavoratore, non del datore di lavoro: indicava cioè che il lavoratore non poteva impegnarsi in via perpetua; avere ritenuto che il recesso ad nutum trovasse un fondamento giuridico e culturale in tale divieto è una clamorosa mistificazione che si pone alle origini del diritto del lavoro ( ).
Per questa ragione la dottrina giuslavoristica post-costituzionale sul tema della stabilità del rapporto di lavoro rappresenta il tentativo giuridico-culturale di ricucire lo strappo fra di-ritto del lavoro e diritto privato in senso generale messo in atto dalla suddetta mistificazione ( ).
E tale tentativo non è certo rimasto immune da forti contrapposizioni ideologiche che hanno segnato la storia della dottrina giuslavoristica lungo l’alternativa fra limitazione o sop-pressione del potere risolutivo del datore di lavoro, un’alternativa non sempre colta con lucidi-tà e chiarezza ( ).

 

5. Alla luce delle considerazioni svolte ritengo che, allo stato, l’evoluzione della materia sul versante della capacità dissuasiva della disciplina dei licenziamenti segni un percorso re-gressivo che trascura la natura contrattuale del rapporto e, lungo questa via, marginalizza la tutela reintegratoria e rende decisamente più debole la posizione del lavoratore nel rapporto di lavoro.
Una simile tendenza interessa ovviamente anche lo specifico tema delle violazioni degli obblighi procedurali in tema di licenziamenti collettivi, rispetto ai quali, come si è già messo in luce, viene in considerazione la specifica previsione dell’art. 2 della direttiva 98/59 che si inne-sta in una trentennale elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale secondo cui l’assolvimento degli obblighi procedurali può essere inteso come presupposto che legittima l’esercizio del po-tere datoriale di recesso.
Se la tutela reintegratoria è solo la conferma della pulsione del diritto delle obbligazioni verso l’adempimento degli obblighi, pulsione che non v’è ragione alcuna di negare nel rappor-to di lavoro, sembra di poter sostenere che la violazione degli obblighi procedurali in tema di licenziamento collettivo dovrebbe indurre a ritenere che la reazione dell’ordinamento in ter-mini di mera tutela indennitaria sia debole e dotata di ineffettività.
Vi è dunque una esigenza di effettività, una effettività alta, forte e non compromissoria, che viene reclamata dal diritto del lavoro.
Una così importante esigenza non necessariamente si realizza attraverso la tutela rein-tegratoria: occorre tuttavia chiarezza nelle scelte legislative e, se si intende ridisegnare un mo-dello normativo, occorre introdurre i necessari contrappesi, valutare attentamente le soluzioni praticabili.
Se si ritiene di adottare un modello nel quale la protezione del lavoratore sia rafforzata nel mercato e non solo nel rapporto bisogna dare un significato a tali parole, evitando che queste rappresentino solo formule vuote dietro cui si nasconde un processo di regressione so-ciale.
Nel contesto attuale il licenziamento si traduce spesso in un “momento transattivo” con uno scambio al ribasso che vive dei rapporti di forza fra le parti nel concreto rapporto e che intende sfuggire al controllo dell’ordinamento.
In un modello nel quale viene a materializzarsi la marginalità del terribile rimedio oc-correrebbe, sul piano normativo, intervenire con strumenti di riequilibrio e di ridefinizione dei meccanismi protettivi dei lavoratori; con riferimento ai licenziamenti collettivi, in particolare, sarebbe necessario rafforzare notevolmente gli strumenti per rendere possibili “misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati” (art. 2, comma 2, direttiva 98/59).
A ben vedere l’attuale disciplina dei licenziamenti sembra invece riflettere scelte nor-mative incoerenti e contraddittorie e uno scenario nel quale la discrezionalità del legislatore, che risulta debordante anche per effetto di una stratificazione che non aiuta a trovare un prin-cipio ordinatore di sistema, rischia, da un lato, di creare una sorta di “zona franca” che si svi-luppa fuori dalle aule giustizia e, dall’altro, di creare gravi incertezze in sede giudiziale, consi-derando che l’interpretazione è costretta a muoversi entro parametri ambigui ed incerti: si tratta di due facce della stessa medaglia.
L’assetto qui sommariamente descritto, nonostante gli sforzi ricostruttivi messi in atto dalla giurisprudenza, anche costituzionale, e dalla dottrina è eccessivamente frammentato e merita un profondo ripensamento.

 

 

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