Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa.

Nel corso del 2020 sono state emesse tre pronunce che hanno reso opportuna una riflessione sulle tutele prevista a fronte di licenziamenti illegittimi e sul quadro sistematico anche sovranazionale in cui queste tutele si inseriscono.
In materia di licenziamenti collettivi, come noto, si sono pronunciate la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale.
La prima con l’ordinanza del 4 giugno 2020 nella causa C-32/2020, la seconda con la sentenza n. 254 del 26 novembre 2020.
In entrambi i casi le Corti si sono pronunciate sul piano preliminare della ricevibilità/ammissibilità delle questioni poste e la Corte di Giustizia si è dichiarata manifestamente incompetente, mentre la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale.
Giudice remittente in entrambi i casi era la Corte di Appello di Napoli con ordinanza del 18 settembre 2019, in un procedimento avente ad oggetto i licenziamenti collettivi, ed in particolare (ma non solo) la violazione dei criteri di scelta.
La terza pronuncia è quella emessa l’11 febbraio 2020 dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali sul reclamo collettivo proposto nel 2017 dalla CGIL nei confronti dello Stato Italiano.
Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS) è istituito ai sensi dell’art. 25 della parte IV della Carta Sociale Europea (CSE) che è un trattato adottato in seno al Consiglio di Europa, ed è stata recepita nel nostro ordinamento da ultimo con la legge n. 30 del 1999.
Il Comitato, che non ha natura giurisdizionale, è istituito per il controllo del rispetto delle norme contenute nella Carta Sociale Europea ed invia, al Comitato dei Ministri, rapporti con le decisioni assunte nel merito di reclami collettivi.
Con la decisione in oggetto, il Comitato ha stabilito che l’Italia ha violato le disposizioni della Carta Sociale Europea, ed in particolare l’art. 24, in relazione al decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. Jobs Act) nella parte in cui prevede le tutele dei lavoratori del settore privato in caso di licenziamento illegittimo.
In particolare, la limitazione del quantum entro il limite massimo originariamente di 24 mensilità e oggi (a partire dal 14 luglio 2018) di 36 mensilità (12 per i vizi formali) per le unità produttive con più di 15 dipendenti e 6 per le piccole imprese, è tale da privare il lavoratore illegittimamente licenziato del suo diritto ad una riparazione adeguata e proporzionata e non ha sufficiente natura dissuasiva.
Pertanto, secondo il Comitato, la normativa italiana si pone in contrasto con l’art. 24 della Carta Sociale Europea.
A sua volta, la decisione della Corte Costituzionale, deve essere posta in relazione con la sentenza dell’8 novembre 2018 n. 194 della stessa Corte, che ha dichiarato l’incostituzionalità della normativa sui licenziamenti contenuta nelle c.d. “Tutele Crescenti” (D.Lgs 23/2015), nella parte in cui prevedeva un meccanismo automatico di calcolo del risarcimento del danno nella misura di due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento ai fini del TFR per ogni anno di servizio, senza possibilità di una valutazione specifica, collegata al caso concreto, da parte del giudice.
In continuità con quest’ultima decisione, con la successiva sentenza del 16 luglio 2020 n. 150, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs 23/2015 nella parte in cui fissava per i vizi formali, con un automatismo, una indennità risarcitoria pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio.
Il tema che resta sempre sullo sfondo è quello della compatibilità di un sistema di risarcimento danni alternativo alla reintegrazione con i principi fondamentali dell’ordinamento, e se la questione era stata in precedenza posta in termini di confronto tra la tutela reale e la tutela risarcitoria, nelle decisioni in esame l’attenzione si sposta sulla concrete modalità di determinazione del risarcimento danni, ma il convitato di pietra resta sempre la possibile misura alternativa della reintegrazione.
Sul tema della sanzione risarcitoria e della sua adeguatezza rispetto a parametri di riferimento costituzionali ed europei, si innestano problematiche relative al rapporto tra fonti euro unitarie e fonti nazionali e rispettive giurisdizioni.
Cercando di cogliere le linee di continuità nell’orientamento delle Alte Corti, saranno in prima battuta esaminati i provvedimenti indicati e le loro motivazioni, e quindi focalizzati i principi di riferimento e il rapporto tra le diverse fonti, con uno sguardo sintetico alle legislazioni anche di altri paesi in ordine alle conseguenze sanzionatorie collegate ai licenziamenti illegittimi, per poi proporre alcune considerazioni finali.

2. Le ordinanze della Corte di Appello di Napoli del 18 settembre 2019.

La Corte di Appello di Napoli, con ordinanza del 18 settembre 2019, aveva contemporaneamente sollevato questione di costituzionalità sul D.Lgs 23/2015 e rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, chiedendo che si pronunciasse su quattro questioni.
La Corte aveva ritenuto che sussistesse un’ipotesi di “doppia pregiudizialità” , dal momento che la violazione di previsioni costituzionale era integrata anche dal parametro di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, con riferimento alle norme del Trattato dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la cui violazione, secondo i giudici napoletani “…concorre con autonoma rilevanza ai fini della decisione del giudizio”; ciò in quanto il licenziamento collettivo sarebbe integralmente riconducibile all’ambito delle competenze normative dell’Unione.
Veniva quindi richiesto alla Corte di Giustizia se fosse compatibile con l’art. 30 della CDFUE un sistema sanzionatorio relativo ai licenziamenti collettivi che, in caso di violazione dei criteri di scelta, prevede per i lavoratori assunti a tempo indeterminato in data antecedente al 7 marzo 2015 la reintegrazione nel posto di lavoro, e per quelli assunti successivamente a tale data il risarcimento del danno, oggi ricompreso tra 6 e 36 mensilità.
In particolare la Corte di Appello di Napoli chiedeva alla Corte di Giustizia se l’art. 30 della CDFUE riconosca il diritto ad una tutela effettiva, efficace, adeguata e dissuasiva, anche alla luce dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, e se conseguentemente gli artt. 20, 21, 34 e 47 della CDFUE ostino ad una normativa attuativa della direttiva 98/59/CE sui licenziamenti collettivi, che preveda per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 un sistema sanzionatorio, per violazione dei criteri di scelta, che esclude la reintegra e comunque il ristoro delle conseguenze derivanti dalla perdita del reddito e della copertura previdenziale, riconoscendo esclusivamente un indennizzo parametrato prioritariamente all’anzianità lavorativa.
Nello stesso tempo sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 7 della legge 10 dicembre 2014 n. 183 (legge delega) e degli artt. 1 secondo comma, 3 e 10 del D.Lgs 2015/23 (tutele crescenti) per violazione degli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111, 10, 117 primo comma della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della CDFUE e all’art. 24 della Carta Sociale Europea.
Come rilevato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 254/2020 “Le censure si incentrano sulla complessiva inadeguatezza della tutela, esclusivamente indennitaria (per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 NDR), ora prevista nell’ipotesi di licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta”.
Veniva denunciato un contrasto con il principio di uguaglianza in relazione al regime sanzionatorio differente previsto per i lavoratori assunti dopo la data sopra indicata, rispetto a quelli assunti prima, pur in presenza di una identica violazione della normativa sui criteri di scelta, che fino ad allora dava luogo alla reintegrazione.
Veniva altresì rilevata la irragionevolezza e assenza di dissuasività della normativa, in tal senso contrastante ancora con l’art. 3 della Costituzione, la perdita della posizione contributiva in assenza di reintegrazione, in violazione dell’art. 38 Cost., la ingiustificata e irragionevole soppressione del procedimento speciale previsto dalla legge Fornero, con la violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, e la violazione, in relazione all’art. 117 Cost., dell’art. 30 della CDFUE, che stabilisce il diritto ad una tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, da interpretare alla luce dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, che garantisce il diritto a non essere licenziati senza un valido motivo e, in tal caso, un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.
Sia la Corte di Giustizia che la Corte Costituzionale non hanno accolto le prospettazioni del giudice remittente, la prima dichiarandosi manifestamente incompetente e la seconda ritenendole inammissibili sotto il profilo della rilevanza, sottolineando anche l’incertezza tra la richiesta di una pronuncia ablativa o manipolativa.
Tuttavia entrambe le decisioni contengono spunti ricostruttivi sistematici che si inseriscono coerentemente nel percorso delle Alte Corti e toccano comunque il tema del rapporto tra le diverse giurisdizioni.

3. La decisione del Comitato Europeo dei Diritti Sociali

Una lettura sistematica delle pronunce ricordate, richiede anche una valutazione della decisione del Comitato Europeo dei Diritti Sociali dell’11 febbraio 2020 .
Su reclamo collettivo della CGIL, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ha ritenuto che la normativa del Jobs Act sulle tutele crescenti vìola l’art. 24 della Carta Sociale Europea, nonostante l’intervento correttivo della Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018 e le modifiche apportate alla disciplina del risarcimento danni da licenziamento illegittimo dal D.L. 87/2018, convertito in legge 96/2018, nella misura in cui prevede un tetto massimo alle indennità risarcitorie accompagnata ad una restrizione delle ipotesi di reintegrazione.
Per il Comitato si è in presenza di una disciplina del risarcimento inadeguata rispetto ai parametri essenziali, che sono dati dal rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso, e dalla possibilità di reintegra o, in alternativa, di ottenere un’indennità di importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima (il precedente cui fa riferimento il Comitato è il caso Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo 106/2014, deciso l’8 settembre 2016).
Secondo il Comitato la legge italiana, in particolare la disciplina delle “Tutele Crescenti”, prevede “… un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l’importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6, 12, 24 o 36 mensilità di riferimento”.
Ed ancora “… Qualsiasi tetto massimo (plafond), che svincola le indennità scelte dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta…”.
Le indicazioni del Comitato devono essere poste a confronto con il percorso ricostruttivo della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale.

4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale. Un percorso convergente.

Nel motivare la manifesta incompetenza a decidere, la Corte di Giustizia precisa come la materia dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, e quindi l’interpretazione dell’art. 30 della CDFUE non aveva, nel caso di specie, alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale. In particolare, le disposizioni della CDFUE si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, come stabilito dall’art. 51, paragrafo 1, CDFUE.
Così, qualora la situazione giuridica non rientri nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione, “la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare di per sé tale competenza”.
La Corte di Giustizia richiama la sua costante recente giurisprudenza in merito .
In motivazione rileva altresì come la direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi disciplina soltanto la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e l’informazione all’autorità pubblica competente. Si tratta quindi di obblighi procedimentali, mentre non vi è alcun riferimento ai criteri di scelta.
Nel paragrafo 26 della motivazione si precisa altresì come la nozione di attuazione del diritto dell’Unione richieda un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la disposizione nazionale “… che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra”.
Conseguentemente “… il solo fatto che una misura nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente, non può collocarla nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione e, quindi, comportare l’applicabilità della Carta” .
Pertanto i criteri di scelta nei licenziamenti collettivi, non disciplinati dalla direttiva 98/59, costituiscono materia di competenza degli Stati membri, e come tale non rientrante in quella della Corte.
A sua volta la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibili le questioni poste, in quanto il remittente non aveva indicato le ragioni che avrebbero potuto, ad una prima valutazione, portare a ritenere illegittimo il licenziamento per violazione dei criteri di scelta, e ciò implica l’impossibilità di effettuare la valutazione di rilevanza.
Tuttavia la Corte Costituzionale in motivazione, richiamando il contemporaneo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sottolinea come “l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali, nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata” .
Concordando con l’impostazione della Corte di Giustizia, anche la Corte Costituzionale ribadisce come la CDFUE possa essere invocata quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale “soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo” .
Nel merito della questione i giudici costituzionali richiamano le argomentazioni svolte dalla Corte di Giustizia in ordine al campo di applicazione della Direttiva 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, che ha disciplinato soltanto obblighi informativi e procedimentali, con conseguente armonizzazione parziale a livello di singoli Stati, e la violazione dei criteri di scelta non rientra pertanto nella disciplina della Direttiva 98/59/CE.
La Corte riporta in questi ultimi passaggi il pensiero della Corte di Giustizia e non prende una espressa posizione, in ragione della inammissibilità delle questioni poste, ma il richiamo alle motivazioni dell’ordinanza, nonché alcuni passaggi diretti che confermano la piena convergenza di metodo, lasciano trasparire una ricostruzione condivisa, come confermato dalle sentenze 150/2020 e 194/2018.
Con la sentenza n. 150/2020 la Corte completa il percorso avviato con la decisione n. 194/2018, ritenendo in contrasto con gli artt. 3, 4 primo comma, e 35 primo comma, la disposizione dell’art. 4 del D.Lgs 4 marzo 2015 n. 23, nella misura in cui collegava il risarcimento danni per vizi formali ad un importo fisso pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio .
Con la precedente sentenza n. 194/2018, come noto, era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della disciplina del risarcimento danni conseguente a licenziamento illegittimo, quantificato automaticamente nella misura predeterminata di due mensilità per ogni anno di servizio nell’ambito dei minimi e dei massimi previsti dalla legge .
Peraltro la Corte aveva precisato che “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale”(punto 12.1 secondo capoverso) .
È tuttavia necessario che la normativa realizzi “un adeguato contemperamento di interessi” (punto 12.1 terzo capoverso) .
Il limite di 24 mensilità (oggi 36) “non contrasta con la nozione di adeguatezza” (punto 12.1 quarto capoverso) .
Entrambe le sentenze contengono importanti puntualizzazioni sul rapporto tra disciplina sovranazionale e nazionale e sulla stessa adeguatezza della sanzione conseguente al licenziamento illegittimo.
Si può ritenere che sia consolidato l’orientamento secondo cui:
- dalla Costituzione non può derivarsi l’imposizione di un determinato regime di tutela (in particolare reintegratoria) , restando affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta delle tutele, tenendo presente anche la situazione economica generale , purché il meccanismo, ed in particolare quello risarcitorio, si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza ;
- nonostante la qualificazione come indennità, le sanzioni monetarie conseguenti al licenziamento illegittimo hanno natura risarcitoria, collegata ad un atto illecito di licenziamento ;
- la natura risarcitoria non impedisce di valorizzare la discrezionalità del legislatore nello stabilire i limiti del risarcimento danno, pur, come già evidenziato, nel rispetto del principio di ragionevolezza (24 mensilità massime appaiono una misura adeguata) ;
- la materia dei licenziamenti individuali, in relazione agli artt. 4 e 35 Cost., è regolata sulla base del principio della necessaria giustificazione del recesso , qualificandosi il diritto al lavoro come diritto fondamentale che necessita di specifiche tutele . La necessaria giustificazione del licenziamento deriva anche dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, che prevede per gli Stati aderenti (tra cui l’Italia) l’obbligo di riconoscere il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione.
La Carta Sociale Europea integra il parametro dell’art. 117 primo comma della Costituzione , e una disciplina inadeguata costituirebbe comunque violazione dell’art. 76 della Costituzione.
- Viceversa, la disciplina dei licenziamenti individuali non è regolata da alcuna direttiva dell’Unione e pertanto non vi sono in merito specifici obblighi per gli stati membri in attuazione dello stesso diritto dell’Unione. Conseguentemente l’art. 30 della CDFUE non può essere invocato quale parametro interposto nella decisione di questioni di Costituzionalità relative ai licenziamenti individuali .
- Pur non essendosi pronunciata espressamente sul punto, è da ritenere che sia per la Corte condivisibile l’orientamento della Corte di Giustizia UE che nega che la disciplina della Direttiva 98/59/CE, relativa agli obblighi di informazione e consultazione nell’ambito dei licenziamenti collettivi, possa essere invocata in un giudizio relativo alla violazione dei criteri di scelta, in quanto la normativa dell’Unione non disciplina questo specifico profilo.
- Il solo fatto che una disciplina legislativa nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d, del TFUE, non è sufficiente a far rientrare la disciplina nell’ambito di quella regolata dall’Unione, fino a quando l’Unione stessa non abbia esercitato in concreto la competenza ;
- non contrasta di per sé con il principio di uguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido motivo di diversificazione delle situazioni giuridiche , in quanto spetta alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme .

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La Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018 ha ritenuto che, al di là del profilo di incostituzionalità rilevato, il canone della ragionevolezza non fosse violato dal Decreto Legislativo 23/2015 in ragione dello scopo che il legislatore ha dichiarato di voler perseguire nell’introdurre la disciplina delle tutele crescenti, e cioè “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” .
La conclusione della Corte Costituzionale ha suscitato critiche in una parte della dottrina, che ha parlato di un bilanciamento inadeguato sotto il profilo della razionalità argomentativa. In sostanza la Corte avrebbe effettuato una valutazione di carattere meramente logico formale, con un “nuovo bilanciamento” che mette in relazione la riduzione delle tutele con lo scopo dell’incremento occupazionale, senza una adeguata valutazione di proporzionalità tra riduzione delle tutele e la affermata finalità di promozione dell’occupazione, trascurando altresì il contenuto essenziale del diritto a non essere arbitrariamente licenziato .
In realtà sembra che il bilanciamento sia immutato e resti quello tra interesse dell’impresa e interesse del lavoratore subordinato.
L’obiettivo occupazionale, che il legislatore ha dichiarato nel D.Lgs 23/2015, non costituisce un termine di bilanciamento, ma una finalità che condiziona il bilanciamento tra interesse datoriale e interesse del lavoratore.
La sentenza ha natura manipolativa o additiva , come risulta da una lettura necessariamente integrata di dispositivo e motivazione.
Il complessivo equilibrio della sentenza è stato valutato positivamente da altra parte della dottrina , che ha apprezzato il self restraint della Corte.
Nella successiva sentenza n. 150/2020 la Corte affronta il tema del difficile rapporto tra predeterminazione legislativa del risarcimento, sia pur entro una forbice, e ristoro del pregiudizio effettivamente subito, precisando che “la prudente discrezionalità del legislatore, pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, non può trascurare la valutazione della specificità del caso concreto” , non potendo pertanto discostarsene in misura eccessiva.
Considerando le molteplici funzioni dell’indennità, da quella centrale di ristoro del pregiudizio derivante da licenziamento illegittimo a quella sanzionatoria e dissuasiva , l’equilibrio ed il bilanciamento appaiono tutt’altro che agevoli e, in assenza di un adeguato self restraint, le scelte del legislatore potrebbero essere facilmente poste in discussione.
Proprio per le incertezze oggettive che un quadro così complesso crea, nella sentenza n. 150/2020 la Corte ha precisato che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari” .

5. Il difficile bilanciamento di interessi nella determinazione della misura del risarcimento.

Il difficile bilanciamento di interessi cui sono state chiamate le Corti Superiori investe i limiti del potere legislativo in ordine alle tutele sanzionatorie a fronte di un licenziamento illegittimo.
Una strada, quella percorsa dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali, porta inevitabilmente a delegittimare qualsiasi intervento legislativo che predetermini la misura del risarcimento, sia pure all’interno di una forbice.
Affermare che la limitazione all’importo massimo del risarcimento si traduce in un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, significa ritenere che solo il giudice, in ogni singolo caso, può disporre, con la sua decisione, un risarcimento integrale del danno.
L’intervento legislativo in questa prospettiva potrebbe essere legittimato solo ove stabilisse un limite massimo così alto da perdere in concreto la valenza di limite.
Il ragionamento del Comitato è suggestivo, perché rimanda all’integrale risarcimento del danno, che è obiettivo più volte indicato dalla stessa giurisprudenza , collegato alla personalizzazione della misura del risarcimento .
Il che equivale a ritenere che solo effetti equivalenti alla reintegrazione possano realizzare un risarcimento giusto, adeguato e dissuasivo.
Anzi, forse si va oltre la reintegrazione, perché questa implica il ritorno al lavoro e l’attuazione delle reciproche obbligazioni, nell’ambito del sinallagma contrattuale.
Viceversa una concezione estrema del risarcimento, porta ad una reintegrazione patrimoniale che prescinde dalla prestazione effettivamente resa.
Questo approccio non tiene conto del fatto che il legislatore, indicando una forbice tra un minimo ed un massimo, ipotizza anche una misura minima del risarcimento che prescinde dal danno subito, che potrebbe anche non sussistere in quella misura perché il rapporto è stato ricostituito in tempi brevissimi, o il lavoratore ha trovato altra equivalente occupazione in un tempo inferiore alle mensilità minime, comunque riconosciute.
In questi casi il minimo assume valenza di danno punitivo .
Le Sezioni Unite hanno riconosciuto la possibile funzione sanzionatoria del risarcimento del danno, considerata non più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, al cui interno sono state introdotte disposizioni che hanno tale carattere.
Tuttavia la funzione sanzionatoria deve essere relativa a ipotesi che hanno copertura normativa, come nel caso del risarcimento minimo del danno conseguente a licenziamento illegittimo .
Proprio la riconosciuta natura polifunzionale del risarcimento del danno apre la strada a variabili molto ampie che, rendono opportuna ed imprescindibile la predeterminazione legislativa della misura del risarcimento in caso di licenziamento, per garantire certezza del diritto ed uniformità, pur all’interno della forbice prevista.
Se la decisione del Comitato suscita perplessità sotto i profili rilevati, non bisogna dimenticare che i suoi effetti sono ridimensionati, in quanto la Corte Costituzionale ha costantemente affermato che le decisioni del Comitato, pur autorevoli, non sono vincolanti , che la reintegrazione non è misura costituzionalmente imposta e che è affidata al legislatore la scelta delle tutele, e della loro misura, nel rispetto del principio di ragionevolezza.
L’art. 24 della Carta Sociale Europea, nell’indicare l’obbligo degli Stati aderenti di garantire un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione, non impone la reintegrazione e non sembra che limiti la facoltà del legislatore di modulare la misura del risarcimento tra un minimo ed un massimo, componendo così i diversi interessi, salvo la valutazione di palese inadeguatezza delle misure previste.
Del resto la legislazione sulle conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo è sempre frutto di aspri confronti e costituisce un esito finale che esprime normalmente un bilanciamento adeguato al periodo storico ed alla esigenza di ragionevole certezza, che determina poi la capacità di un paese di attrarre investimenti che creino occupazione.
La delicatezza del complessivo equilibrio raggiunto dal legislatore, rende sconsigliabile affidare alla concreta valutazione del giudice la determinazione dei limiti del risarcimento in ciascun singolo caso, con il rischio di creare una incertezza giudiziaria collegata alle diverse sensibilità dei singoli magistrati, con conseguenze imprevedibili sulla valutazione di affidabilità del sistema.

6. Le regolamentazioni di vari paesi dell’Unione. Conferma della predeterminazione legislativa dei limiti di risarcimento.

Nell’ambito di vari paesi dell’Unione Europea la reintegrazione è spesso collegata alla natura discriminatoria del licenziamento, o alla sua nullità, ed è prevista quale misura alternativa, per gli altri casi, il risarcimento del danno.
Il legislatore indica normalmente la misura del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo .
È bene premettere che, nel valutare sommariamente queste normative, è necessario tener presente in concreto quali sono le tutele normalmente applicate, al di là delle possibilità astratte previste da ciascun ordinamento. Ciò che rileva è la situazione effettiva.
Così in Germania, dove la sanzione apparentemente “normale” è la reintegrazione, il giudice, su richiesta anche del solo datore di lavoro, può stabilire una indennità massima di dodici mensilità in luogo della reintegrazione, e ciò accade nella maggior parte dei casi, tranne che di fronte alla manifesta infondatezza del licenziamento , tant’è che le sentenze in cui il giudice dispone la reintegrazione sono in netta minoranza .
Anche nel Regno Unito, sebbene l’ordine di reimpiego (re-employment, reinstatement e re-engagement) sia astrattamente il primo rimedio, di fatto la conseguenza ordinaria del licenziamento illegittimo è il risarcimento del danno , con tetti massimi stabiliti dalla legge.
In Spagna, tranne in casi di particolare gravità, il datore di lavoro può scegliere tra riassunzione e risarcimento del danno, fino ad un massimo fissato dal legislatore (24 mensilità) .
In Francia, con le riforme del 2017, è stata introdotta una tabella che stabilisce la soglia minima e il massimale di indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato (senza causa reale e seria), collegato all’anzianità del dipendente e alle dimensioni dell’azienda.
In precedenza, il giudice poteva proporre la reintegrazione del lavoratore, ma la proposta poteva essere rifiutata dal datore di lavoro (oltre che dal lavoratore) e il giudice, in questi casi, ordinava il pagamento a favore del lavoratore di un’indennità non inferiore a 6 mensilità di retribuzione.
La riforma ha suscitato una forte opposizione sociale e anche una resistenza da parte di alcuni tribunali.
Sul punto si è anche pronunciata la Corte di Cassazione con due pareri del 17 luglio 2019, ritenendo la tabella compatibile sia con le disposizioni dell’art. 10 della Convenzione ILO n. 158, sia con l’art. 24 della Carta Sociale Europea.
Anche il Comitato Europeo dei Diritti Sociali dovrebbe pronunciarsi in merito e il Governo Francese era già intervenuto, a sostegno di quello Italiano, nel reclamo collettivo promosso dalla CIGL.
Ai fini che interessano si può comunque rilevare che le legislazioni favoriscono tutele prevalentemente risarcitorie, con predeterminazione legislativa dei minimi e dei massimi.
Da questa breve disamina dei regimi dei principali paesi europei, si può ricavare come il legislatore intervenga abitualmente nella determinazione anche dei massimi del risarcimento collegato al licenziamento illegittimo.
Tutte queste legislazioni possono essere contestate sulla base degli argomenti addotti dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali.
Appare quanto meno singolare che possa essere riscontrata una violazione di massa dei principi stabiliti dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, e ciò induce a pensare, per i motivi già indicati, che il Comitato abbia adottato una interpretazione eccessivamente restrittiva.

7. Brevi conclusioni

In conclusione mi sembra che possa cogliersi continuità nella ricostruzione operata sia dalla Corte di Giustizia che dalla Corte Costituzionale, il cui percorso non appare, viceversa, allineato alle argomentazioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali .
Al di là dell’omaggio formale della Corte Costituzionale, con il richiamo all’opportunità di tener conto delle decisioni del Comitato, pur non vincolanti, sembra che la consapevolezza del rischio di eccessiva invasione nella sfera del potere legislativo, collegato pur sempre alla sovranità popolare, porti ad un approccio prudente, che di fatto non coincide con la ricostruzione del Comitato.
Ciò non esclude un’influenza delle sue decisioni nelle valutazioni di quella giurisprudenza di merito che continua a dubitare della conformità al diritto eurounitario e alla Costituzione delle riforme che si sono succedute in Italia in questi anni, in ordine alle conseguenze del licenziamento illegittimo.
Per cui è probabile che siano sollevate ulteriori questioni di costituzionalità collegate, per il tramite dell’art. 117 della Costituzione, alla presunta violazione dell’art. 24 della Carta Sociale Europea.
Meno probabile appare la contestazione ulteriore rispetto all’art. 30 della CDFUE, alla luce della netta chiusura operata dalla Corte di Giustizia.

 

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