TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La lettera aperta con cui Pietro Ichino recensisce il bel libro di Stefano Giubboni “Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi” (Giappichelli, 2020) - soffermandosi anche su alcuni passaggi dell’interessante intervista realizzata all’autore da Vincenzo Antonio Poso (pubblicata sul sito giustiziainsieme.it) – e la risposta di Giubboni, entrambe pubblicate su questa Rivista, forniscono stimoli per riflessioni di ampio respiro su temi giuslavoristici antichi eppure attualissimi.
Io ne vorrei cogliere soprattutto uno (anche se con alcune piccole divagazioni), per portare il punto di vista di chi opera al fianco delle aziende come avvocato giuslavorista e percepisce nel concreto della quotidianità gli effetti delle riforme. O, per dirla diversamente, il punto di vista di chi tenta di misurare nelle singole realtà aziendali il significato di quei numeri che si leggono in forma aggregata e che ci dicono se in un certo periodo (magari per effetto di una certa riforma) ci sono state più o meno assunzioni, più o meno licenziamenti, e così via. Un tentativo, per così dire, di personalizzare le statistiche, chiedendosi se l’operatore economico agisca come i numeri ci suggeriscono (fermo restando che naturalmente ciascuno interpreta i numeri a modo suo, com’è giusto che sia).

1. La riforma dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act incentiva le assunzioni?
La domanda è se la riforma del Jobs Act, diminuendo le tutele contro i licenziamenti illegittimi, abbia contribuito ad aumentare l’occupazione; più in generale, ci si può chiedere quanto un regime di maggiore facilità dei licenziamenti invogli le imprese ad assumere.
Devo dire che nella mia esperienza pratica non mi è mai capitato di vedere un’azienda rinunciare a fare un’assunzione per timore della rigidità che essa portava con sé. Nei fatti – almeno per come li conosco io – un imprenditore si determina ad assumere perché ha necessità di una risorsa; non ne fa a meno solo per paura delle rigidità (anche se ovviamente le detesta), ma preferisce far crescere la propria impresa. La sua “via di fuga” dai regimi di tutela contro il licenziamento avviene utilizzando tutte le forme contrattuali c.d. flessibili che - giustamente o meno, dipende dai punti di vista - l’ordinamento gli mette a disposizione. Dopodiché, se avrà bisogno di quella risorsa l’assumerà. Ma, ripeto, nei fatti economici per come a me noti, se un’esigenza produttiva c’è, c’è anche il relativo posto di lavoro e il fattore costituito dalla rigidità della tutela non influenza oltremodo il comportamento del datore di lavoro.
Può senz’altro capitare che l’imprenditore si determini ad utilizzare servizi esterni piuttosto che assumere. Anche in questo caso, però, nella maggior parte dei casi lo fa perché ne ha un risparmio economico, essendo invece ridotti i casi in cui egli decida anche di spendere un po’ in più pur di non prendere un dipendente.
A misurare i comportamenti a me noti degli operatori economici - ed è naturalmente un singolo punto di vista senza alcuna pretesa statistica - la tipologia di tutela contro il licenziamento illegittimo non influenza l’occupazione.
Una prova può essere tratta anche da quanto previsto dai contratti collettivi dell’Igiene Urbana, i cui attori recitano un ruolo particolare nelle dinamiche occupazionali. Mi riferisco al fatto che la maggior parte delle assunzioni effettuate dai datori che applicano tali contratti avviene non per libera scelta e selezione del lavoratore, ma per cambio d’appalto. Queste imprese sono quindi abbastanza singolari dal punto di vista che ci interessa: da un lato esse non scelgono di assumere, né scelgono chi assumere; dall’altro esse sono quelle (insieme alle altre operanti nei settori in cui sono frequenti i cambi d’appalto) che più si avvantaggiano del nuovo regime previsto dal Jobs Act, visto che ad ogni cambio di appalto si ha una nuova assunzione e quindi spesso i rapporti di lavoro sono “giovani”, anche se riguardano dipendenti addetti da molto tempo ad uno specifico “cantiere”. Quindi, nel turbinio delle successioni negli appalti, queste imprese nel giro di qualche anno si sarebbero ritrovate con una percentuale significativamente alta di lavoratori tutelati dal Jobs Act e non dall’art. 18. Eppure nel CCNL stipulato dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. 23/2015 è stata convenzionalmente prevista l’applicazione dell’art. 18, seppur con pattuizione di “transitorietà”. Questo può essere un significativo indice di quanto si diceva sopra, e cioè che tutto sommato l’imprenditore in fase di assunzione non si preoccupa troppo del fatto che il lavoratore potrà, in occasione del licenziamento, giovarsi della tutela statutaria.

2. Il Jobs Act costituisce uno stimolo a licenziare?
Sempre guardando al mercato del lavoro per come lo conosco io, se il tipo di tutela riconosciuta al lavoratore non influenza particolarmente l’imprenditore nella fase di assunzione, lo influenza invece molto in quella di licenziamento. È frequente infatti sentirsi dire: “Lo abbiamo assunto dopo il 2015, quindi possiamo licenziarlo senza problemi”. La convinzione che i licenziamenti siano ormai atti a ridotto rischio economico comporta poi per l’avvocato la necessità di spiegare che ciò è tutt’altro che vero, soprattutto dopo le “picconate” date dalla Consulta al D. Lgs. 23/2015.
Credo comunque che tra gli imprenditori e tra i loro consulenti sia un dato acquisito e indiscusso che, nel chiedersi se licenziare o meno un dipendente, si facciano scelte diverse a seconda che questi sia stato assunto prima o dopo il fatidico 7 marzo 2015. Sicuramente le maggiori tutele di cui gode il primo (soprattutto dopo la recentissima aggiunta fatta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 59 del 1° aprile 2021; ma chissà se in futuro essa non dichiarerà illegittimo anche l’avverbio “manifestamente” che attualmente riduce ancora lo spazio della reintegra in caso di licenziamento per g.m.o. e se riconoscerà la reintegrazione - in caso di insussistenza del g.m.o - anche per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015) ne scoraggiano il licenziamento. Ma d’altronde, il fatto che nella stessa situazione un dipendente venisse licenziato ed un altro no è esattamente ciò che avviene da cinquant’anni a questa parte, con la differenza che prima la valutazione cambiava da imprenditore a imprenditore, a seconda che la sua azienda rientrasse o meno nel famoso (o famigerato) requisito dimensionale; ora la valutazione cambia anche da lavoratore a lavoratore, nell’ambito della stessa impresa.
In sostanza, la mia personale esperienza mi porta a dire che è vero che la presenza di un regime di tutela attenuato comporta che l’imprenditore si muova con maggiore libertà: ma nel momento del licenziamento, non in quello dell’assunzione.
Ed in questo forse i dati richiamati da Giubboni nell’intervista fattagli da Vincenzo Poso circa la mancanza di incremento occupazionale dopo la riforma del 2015 potrebbero confermare la seconda parte della frase. Sarebbe interessante vedere anche i dati dei licenziamenti in questo periodo per vedere se la prima parte dell’anzidetta affermazione abbia o meno un’incidenza statistica.
Ma, si ripete, in questo piccolo contributo si vuole portare un’esperienza diretta maturata sul campo, non già un’analisi di sistema.

3. Un disincentivo alle assunzioni che a volte si sottovaluta: le assunzioni obbligatorie dei disabili
Sempre in base alla mia personale esperienza, un elemento normativo di rigidità che produce effetti sulla decisione di un imprenditore di assumere è il fatto di superare con la nuova assunzione la soglia di legge per l’applicazione di due tipi di tutela.
Da un lato, l’assunzione del sedicesimo dipendente ha sempre portato con sé la paura connessa all’entrata nell’ambito di applicazione dell’art. 18 L. 300/1970 (che in realtà non è l’unica norma che viene in rilievo, ma è sempre stata quella che destava maggiori preoccupazioni).
Ma qui, le cose sono ben diverse, perché l’assunzione di un altro lavoratore avrebbe comportato effetti sull’intera compagine aziendale. Questo problema poteva considerarsi, nelle intenzioni del legislatore, in parte superato dall’art. 1 comma 3 D. Lgs. 23/2015; in realtà ora non è più così, visto che il datore che oltrepassi la soglia dimensionale è esposto al rischio di dover pagare sino a trentasei mensilità – per effetto del combinato disposto del Decreto Dignità e della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 - di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo, mentre rimanendo sotto i sedici dipendenti il rischio sarebbe limitato a sei mensilità (senza parlare dell’aumento dei rischi di reintegrazione, invero già considerato dal legislatore del Jobs Act).
Devo però dire che il reale impedimento per l’imprenditore è sempre stato costituito – ripeto, in relazione ai casi in cui mi è capitato di essere coinvolto in queste scelte – dall’obbligo di assunzione previsto dalla L. 68/1999. Il vero freno io l’ho visto sempre – più che nell’assunzione del sedicesimo dipendente - nell’assunzione del quindicesimo dipendente, che comporta l’applicazione di tale normativa. Questo è un elemento che talvolta, ma solo talvolta, può frenare anche l’assunzione del trentaseiesimo lavoratore, per l’obbligo di assumere un altro soggetto disabile.
Ma in questi casi la questione economica è molto più evidente. L’imprenditore ha bisogno di un lavoratore e si troverebbe ad assumerne e pagarne due (il che ovviamente ha un’incidenza significativamente superiore nelle imprese che si accingono ad avere quindici dipendenti, rispetto a quelle che passano da trentacinque a trentasei).
È chiaro che si tratta di un dato che a livello d’imprese coinvolte non è sicuramente elevatissimo, ma in quelle ridotte situazioni ha comunque un suo impatto. Non mi pare che questo elemento di rigidità del sistema abbia mai attirato oltremodo l’interesse dei tecnici; sicuramente non lo ha attirato come la questione in esame. E tutto sommato lo trovo corretto, proprio perché esso non ha probabilmente un’incidenza numerica particolarmente significativa. Ma è da dire che questa rigidità potrebbe anche, nei fatti, aver prodotto e produrre un rallentamento nel mercato del lavoro di cui non ci si è curati particolarmente. E probabilmente dobbiamo dire “per fortuna!”, ché l’unica soluzione sarebbe quella di abolire l’obbligo di assunzione di cui alla L. 68/1999.

4. E se provassimo a rendere meno generali le nozioni di giusta causa e giustificato motivo?
Quanto all’elemento della rigidità in fase di licenziamento in sé, confesso di aver sempre pensato che esso sia effettivamente eccessivo nel nostro ordinamento, ritenendo però che gli errori non stessero nel testo della legge che fissava le conseguenze del licenziamento illegittimo. La previsione della reintegra nelle imprese soggette all’art. 18 mi è sempre sembrato un logico corollario dell’invalidità dell’atto di licenziamento, come d’altronde hanno affermato le Sezioni Unite con la sentenza n. 141 del 2006. Sono probabilmente più che altro le decisioni dei casi concreti (sulla cui correttezza o meno non è naturalmente il caso di soffermarsi) a creare la rigidità eccessiva. Ad esempio, la reintegra del sindacalista per aver svolto la sua attività, del lavoratore discriminato perché gay o del dipendente che non aveva commesso i fatti di cui era accusato non hanno mai fatto storcere il naso a nessuno. A mio parere, a far sorgere il problema sono state invece le reintegrazioni dei dipendenti che avevano rubato, che facevano il doppio lavoro o le vacanze mentre erano in malattia o in permesso per assistere un portatore di handicap. È evidente che ogni caso ha le proprie peculiarità, e certamente riflessioni generali mal si accompagnano all’elencazione di casi specifici. Ma intendo in realtà solo ribadire un’ovvietà: le leggi – in particolare quelle infarcite di clausole generali - non dicono quel che c’è scritto, ma quel che si fa dire loro.
E mi rendo conto che l’unico rimedio è riscrivere le leggi, ma probabilmente ciò che andava cambiato non era la legge in sé – che diceva in sostanza che se il licenziamento era invalido non produceva effetti giuridici – ma le sue distorsioni pratiche. Il che francamente è impossibile, anche perché ciò che a qualcuno può sembrare una distorsione per altri è una decisione corretta e logica.
In verità il problema secondo me sta a monte: bisognerebbe chiedersi quando un licenziamento è legittimo e come si possa stabilire un sistema di regole che dia certezze in questo senso.
Mi viene quasi da adombrare il dubbio che si sia in presenza di uno di quei casi di “illusioni percettive” giuridiche di cui parla Fabrizio Amendola in un suo recente volumetto (mi riferisco all’illuminante “Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro”, Cacucci, 2021), nel senso che forse, come detto, per affrontare il problema che si vuole risolvere bisognerebbe agire a monte, non a valle.
Al contrario, la discussione è (necessariamente, me ne rendo conto) a valle: come si tutela l’imprenditore che in buona fede sbaglia nell’intimare un licenziamento o che incontra un giudice molto rigido nel valutare il recesso? Uso queste espressioni perché da un lato è evidente che i dibattiti degli ultimi anni hanno posto il diritto del lavoro (almeno per quel che attiene ai licenziamenti) nella singolare posizione di diventare un diritto che deve evolversi in favore del datore di lavoro, e non del lavoratore; dall’altro perché rifuggo dall’idea che qualcuno possa aver pensato di modificare la legislazione per tutelare l’imprenditore che consapevolmente intima un recesso illegittimo. Preferisco pensare che si sia voluto tutelare chi in buona fede incorre in errore (o in decisione giudiziaria sbagliata o particolarmente dura).
Sono fermamente convinto, ma si tratta di una mera opinione personale che non ha alcuna possibilità di riscontro, che senza le molte sentenze che hanno disposto reintegre in casi limite o “oltre” il limite - o comunque percepite come tali dagli operatori economici e da quelli giuridici - il fronte dei sostenitori del superamento dell’art. 18 sarebbe stato molto più debole, e forse non avrebbe raggiunto l’obiettivo.
Ho la fortuna di non essere in alcun modo chiamato a rispondere su come si potrebbe fare diversamente, su come si potrebbe risolvere il problema facendo in modo di avere decisioni corrette e prevedibili circa la legittimità di un licenziamento, il che secondo me consentirebbe di interessarsi in misura minore delle conseguenze della dichiarata illegittimità. Certamente non saprei rispondere, ma provo ad azzardare qualche ipotesi.
Si potrebbe pensare di riscrivere in parte l’art. 2119 c.c. e l’art. 3 L. 604/1966 – oppure introdurre un’apposita norma nell’ordinamento - iniziando a prevedere una casistica che in alcuni casi vincoli il giudice (o sia semi-vincolante, magari utilizzando un regime di presunzioni semplici)? Ad esempio, si potrebbe dire per legge quanti sono i giorni di assenza ingiustificata che legittimano il licenziamento, prevedere che non si possano svolgere secondi lavori mentre si è in malattia, dire qual è il termine entro cui il datore di lavoro non può effettuare una nuova assunzione relativamente a mansioni per le quali ha operato un licenziamento per g.m.o. (a pena di presunzione, assoluta o relativa, di insussistenza del dedotto g.m.o.), ecc.?
È chiaro che la casistica non può mai essere prevista in toto, ma potrebbe venire utile disciplinare alcune ipotesi molto frequenti per ridurre l’incertezza. Magari su alcuni punti si potrebbe fare chiarezza in via legislativa, fermo restando che molti altri resterebbero rimessi alla contrattazione collettiva ed alla valutazione del giudice. Anche perché al riguardo credo che nessuno possa contestare quanto detto da Giubboni nella citata intervista: se uno degli intendimenti dei legislatori del 2012 e del 2015 era – come era – quello di dare certezze in fase di licenziamento (in particolare alle imprese), questo intento è miseramente fallito, sia per gli errori del legislatore, che per gli interventi della Consulta.

5. Gli effetti del Jobs Act sulle conciliazioni
E questo, non bisogna dimenticarlo, molto spesso rappresenta anche un freno alle conciliazioni, cosa certamente non apprezzabile in un periodo in cui impera la necessità di garantire la durata ragionevole del processo e di incrementare gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. L’imprevedibilità dell’esito “economico” del giudizio – e naturalmente la possibilità che ciascuna parte lo valuti diversamente – può portare ad un dialogo tra sordi che impedisce la composizione bonaria che viceversa magari si avrebbe qualora lavoratore e datore fossero in grado di sapere, almeno per grandi linee, cosa otterrà il primo se vincerà.
E in questa linea di “ostacolo” alle conciliazioni rientra anche la reintegra “attenuata”. La decisione d’introdurre questa categoria ha trasformato il processo d’impugnativa di licenziamento in tutela reale in un caso in cui il convenuto può avere interesse a prendere tempo, cosa certamente non meritoria in un periodo in cui tanto si parla di giusto processo anche nella dimensione della sua durata. E comunque, nei primi dodici mesi ciascuna parte deve “scommettere” non solo sugli esiti del processo, ma anche sulla sua durata (o su quale sarà il momento processuale in cui sarà dichiarata l’illegittimità del licenziamento) per poter valutare un’ipotesi transattiva.
L’attuale situazione comporta poi che la parte debole possa essere danneggiata dal tempo che ha impiegato per veder riconoscere il suo diritto. Il lavoratore che riesce a vincere in Cassazione ed ottiene la sentenza di reintegra solo in sede di rinvio - quindi dopo almeno quattro-cinque anni di giudizio - patisce un pregiudizio davvero notevole, e sinceramente ingiusto. La logica vorrebbe che a questo punto di questo pregiudizio non rispondesse il lavoratore che aveva ragione, ma lo Stato, che con le decisioni erronee (perché poi capovolte dalla Cassazione) ha causato il danno; ma verrebbe davvero da chiedersi se sarebbe poi sensato trasferire alla collettività tale costo. Certamente, per molti versi è opinabile la scelta di farlo sopportare il lavoratore (che ha subito un licenziamento illegittimo), per toglierlo dalle spalle del datore di lavoro (che ha compiuto un licenziamento illegittimo).

6. Il rito Fornero
Un ultimo spunto di riflessione tratto dall’interessante intervista di Giubboni riguarda il rito Fornero, che pare non riuscire ad evitarsi critiche ogni volta che viene nominato.
A parer mio, invece, l’esperienza di questo procedimento speciale è particolarmente felice. I licenziamenti vengono finalmente decisi in tempi ragionevoli, in alcuni casi addirittura in maniera rapidissima.
Basti dare una scorsa alle pronunce della Suprema Corte su licenziamenti intimati dopo il luglio 2012 per accorgersi di quanto fossero numerose già nell’anno 2016. Il che significa che in meno di quattro anni la causa aveva già ottenuto un verdetto in sede di legittimità.
È un dato stupefacente, impensabile prima della riforma del 2012 e che credo debba creare compiacimento in tutti gli operatori.
Che poi in realtà questa velocità non sia dovuta alla tecnica legislativa, ma solo al fatto che si è creato un canale accelerato per i licenziamenti, è cosa di cui sono assolutamente convinto, ma che non fa venire meno il fatto che prima del rito Fornero questi tempi di definizione del giudizio fossero assolutamente irraggiungibili, nonostante alcuni Tribunali e Corti d’appello, e la stessa Corte di cassazione, dessero priorità alla trattazione dei licenziamenti.
Sarebbe sufficiente una norma programmatica che dicesse che i licenziamenti vanno trattati con priorità per ottenere gli stessi risultati? Io credo proprio di no, anche se sinceramente non so dirmi perché, se non ripetendo che già prima c’erano autorità giudiziarie che davano precedenza ai licenziamenti, senza però solitamente raggiungere risultati così soddisfacenti. So per certo che i tempi di fissazione e di trattazione delle udienze previsti dalla L. 533/1973 sono normalmente disattesi nei Tribunali e nelle Corti d’appello; certo, sono disattesi anche quelli del Rito Fornero (anche in Cassazione), ma evidentemente con minore dilatazione. Le norme che si limitano a fissare i tempi del giudizio solitamente non danno gli esiti sperati.
Non posso che concordare circa il fatto che si tratti di un rito per buona parte inutilmente “cervellotico”. Lo sdoppiamento del primo grado nella maggior parte dei casi non comporta altro che una duplicazione di giudizi, visto che spesso non vi è alcuna sostanziale differenza tra la cognizione sommaria e quella piena: nella maggior parte dei casi nell’una e nell’altra si esaminano documenti e si sentono testimoni (anche se magari denominati “informatori”), senza significativi cambiamenti tra i due momenti processuali. Si tratta di un rito che inopportunamente ridisegna i termini per la notificazione dell’opposizione e dell’appello (reclamo) rispetto a quelli generali, creando solo ulteriori problemi; esso costringe poi ad impugnare in termini brevissimi, facendo fare molta fatica agli avvocati e – anche qui – certamente non agevolando le conciliazioni, visto il pochissimo tempo a disposizione per concludere una trattativa dopo l’emissione della decisione. Si tratta di un rito che ha comportato significative possibilità di errore (penso ai casi, rari ma difficili da gestire, in cui la prima fase è stata decisa con sentenza; si vedano al riguardo Cass. civ. Sez. lavoro, 31/03/2017, n. 8467 e Cass. civ. Sez. lavoro, 27/06/2017, n. 15976), nonché impegnativi dibattiti sul modo in cui esso vada coordinato con l’ordinario rito del lavoro.
Ma, si ripete, ha dato ottimi esiti nella riduzione dei tempi del giudizio; questo non può che essere apprezzato e dev’essere, secondo la mia opinione, un significativo freno verso le marce abolizioniste che lo investono.

 

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