TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Con decreto 22 marzo 2021 n 41 (“misure urgenti di sostegno alle imprese e agli operatori economici di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da Covid-19”), il Governo Draghi oltre a prevedere interventi per le finalità delle Regioni, Province e Comuni, rimborsi per le spese sanitarie, sostegni per le attività economiche colpite dall’emergenza epidemiologica da Covid-19, ha provveduto anche a disporre altre misure urgenti scaturenti dalla pandemia e conseguentemente a prorogare il blocco dei licenziamenti, per alcune categorie di lavoratori al 30 giugno 2021 ,e per altre, al 31 ottobre 2021 .
L’entrata in vigore del suddetto decreto segna la data in cui il suddetto blocco viene regolato diversamente dal passato. Ciò impone doverose riflessioni sia sulla precedente fonte regolatrice (dpcm) sia su quella successiva(decreto legge) deputata a disciplinare i numerosi licenziamenti (individuali e collettivi) che, a partire dalla entrata in vigore del menzionato decreto legge, porteranno prevedibilmente alla crescita della disoccupazione ed alla cessazione di molte attività imprenditoriali con gravi ricadute sul tessuto economico e sociale del Paese .
In un recente working paper, in cui si sono messe a confronto le misure adottate da diversi Paesi nella gestione dell’emergenza sanitaria per Covid-19 , si è evidenziato che negli Stati Uniti a fronte di una ondata di licenziamenti si è preferito garantire una facilitazione nell’accesso ai programmi di assicurazione statale contro la disoccupazione, allargata sino a categorie, non tradizionalmente coinvolte, come i liberi professionisti ed i gig workers .
Misure diverse sono state adottate dai Paesi europei, che hanno salvaguardato la tenuta del sistema occupazionale con interventi che, per non incidere pesantemente ed oltre lo stretto necessario sul libero esercizio dell’attività economica dell’imprenditore e sui suoi poteri gestionali, hanno supportato economicamente le imprese attraverso ingenti aiuti al fine di salvaguardare i posti di lavoro in previsione del superamento della fase emergenziale e della normale ripresa delle attività economiche .
I casi italiani e spagnolo si sono caratterizzati a loro volta per un “ampliamento degli istituti preesistenti, cui si è aggiunto il divieto di licenziare, a conferma di un intervento ampio e incisivo dello Stato, che, per quanto riguarda l’Italia, si è ulteriormente differenziato in ragione di un lungo periodo di blocco dei licenziamenti (individuali e collettivi) a seguito di numerosi decreti moltiplicatisi con velocità esponenziale che ne hanno più volte prorogato la durata sino a giungere alle scadenze indicate dall’art. 30 del Titolo IV del summenzionato decreto legge .
2. Non sono mancate nella dottrina critiche severe sulla legislazione attuale volta a ricercare un corretto bilanciamento tra il diritto al libero esercizio delle attività economiche ed il diritto al lavoro ed alla tutela della salute dei cittadini tutti.
Si è rimarcato al riguardo da più parti che i decreti legge adottati nel periodo della pandemia sono a maglie larghe e che, per essere articolati in molteplici disposizioni e per risultare di eccessiva lunghezza, di contenuto sovente indecifrabile, lacunoso, e per non avere alcuna progettualità, sono in qualche misura responsabili di quello che è stato definito “l’eclisse del diritto civile”, a cui non è rimasto di certo estraneo il diritto del lavoro per il rischio della perdita del suo elemento qualificante, quello cioè di essere un “diritto di valori” .
In tempi di pandemia la problematica che continua ad essere la più discussa e di maggior rilievo è quella riguardante le modalità di “legiferare” attraverso i c.d. decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, la tenuta dei quali a livello costituzionale è stata sin dall’inizio messa in dubbio .
Nell’evidente impossibilità di esaminare i moltissimi problemi che detta problematica presenta, molti dei quali saranno oggetto di un copioso contenzioso giudiziario, il presente saggio vuole limitarsi ad alcune considerazioni sulla costituzionalità dell’uso continuativo dei dpcm in ragione degli effetti che ne scaturiscono a livello istituzionale ed economico sulla situazione emergenziale seguita alla pandemia.
Per fare sorgere dubbi sulla legittimità dei decreti Presidenziali è sufficiente guardare alle modalità con le quali si è fatto di essi un uso ripetuto e per lungo tempo, giustificandoli <sulla base di una preventiva e discutibile valutazione di un sempre permanente stato di emergenza sanitaria>, che ha di fatto limitato fortemente con provvedimenti amministrativi la libertà di impresa e contestualmente anche altre libertà di ogni cittadino. Tutto questo con una evidente, chiara, e comprovata violazione del comma 2 dell’art. 13 Cost. che proibisce “ogni limitazione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” .
Da tale violazione inizia di fatto un processo di “decostituzionalizzazione” che rischia nel tempo di modificare la gerarchia dei poteri dello Stato per cui non sono più le Camere a controllare i governi ma i governi a controllare e condizionare le Camere, con la conseguenza di portare nel tempo al depotenziamento del Parlamento ed ad un accrescimento dei poteri dell’esecutivo. Il che, da un lato, contraddice, la volontà dei nostri Costituenti e, dall’altro, dimostra anche la necessità di una riforma radicale sui poteri dello Stato, volta a riconoscere ai governi una maggiore capacità e forza per dare risposte più adeguate e tempestive alle esigenze espresse da un contesto socio-economico in continua e veloce evoluzione, a condizione però che tutto ciò non riduca il Parlamento ad un ruolo marginale attraverso una riduzione delle sue competenze i istituzionali .
Gli indicati dubbi si sono accresciuti a seguito del c.d. “Decreto di agosto” n. 104/2020, dal momento che il combinato disposto degli artt. 1 e 14 di detto decreto va letto alla luce dell’art. 41 della Costituzione, la cui interpretazione deve essere condotta “in chiave di norma di riconoscimento del mercato concorrenziale”, atteso che ogni intervento legislativo non può legittimare rigidi condizionamenti alle libere scelte imprenditoriali in modo così penetrante ed invasivo da determinare “la funzionalizzazione dell’attività economica” o “la riduzione in stretti confini dello spazio operativo dell’attività imprenditoriale” .
A conforto della tesi della debole resistenza nel tempo dei dpcm si è detto anche che detti provvedimenti, nonostante la loro molteplicità, non forniscono alcun affidabile parametro di riferimento utile a garantire, nell’attuale contesto socio-economico del Paese, il rispetto del già citato art.41 Cost. attraverso un equo bilanciamento tra libero esercizio dell’attività economica , da un lato,e del diritto al lavoro ed all’occupazione, dall’altro .
Né può tralasciasi di considerare che i provvedimenti presidenziali – al di là delle diverse interpretazioni che sono destinati a “creare” – si pongono in evidente contrasto oltre che con il disposto dell’art. 13 Cost. anche con quello dell’art. 3 Cost., per avere regolato con atti di natura amministrativa in maniera uguale una molteplicità di fattispecie una diversa dall’altra, in violazione non solo del principio della”ragionevolezza” ma anche quello della “proporzionalità” .
Riflessioni queste che portano ad evidenziare che allorquando cesserà il blocco dei licenziamenti si verificheranno, come da tutti pronosticato, numerose e lunghe procedure per la riduzione del personale delle imprese, con il pericolo di alimentare una conflittualità a livello sindacale ed una crescita del contenzioso giudiziario.
Sul punto va considerato che alla fine del blocco saranno oggetto di contrasto, non solo in sede giudiziaria ma anche in dottrina, i casi nei quali nel disporsi la riduzione di personale non venga rispettato l’iter procedurale di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991 nell’osservanza delle informative da detta norma prescritte. Fattispecie queste in relazione alle quali,alla stregua del diritto dell’Unione Europea, la soluzione obbligata non può essere che quella della nullità del licenziamento collettivo e la sua consequenziale scissione in tanti licenziamenti individuali.
Da qui la necessità di valutare le singole posizioni lavorative interessate dalla cessazione del rapporto lavorativo mediante l’individuazione di volta in volta di un equo bilanciamento tra due contrapposti diritti, ugualmente a copertura costituzionale, da declinare sempre e comunque nell’assoluta osservanza dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”, richiamati sovente anche dalla Corte di Giustizia .
Per di più la “naturale incostituzionalità” dei provvedimenti governativi in questa sede scrutinati, trova una ulteriore ragione fondante in una realtà fattuale in cui il diritto a fare impresa è ostacolato e fortemente penalizzato da una soffocante burocrazia , da tanti “lacci” e “lacciuoli” vincolanti le imprese” , da una tradizionale e storica conflittualità sindacale , a cui si aggiungono modi di legiferare caratterizzati da disposizioni di infinita lunghezza, non di rado in contrasto o sovrapponibili tra loro , con contenuti sovente indecifrabili, che creano uno stato di “incertezza assoluta e permanente”, con effetti destabilizzanti per riflettersi negativamente nella gestione delle imprese e per smorzare qualsiasi volontà di futuri investimenti .
Il tutto in un assetto ordinamentale a più livelli, come quello dell’Unione Europea, in cui “la sovranità statale si diluisce”, ”i poteri pubblici si riarticolano in forme pluralistiche e policentriche”, con l’effetto che “questo pluralismo ha bisogno di un ordine(….) occorre riempire i vuoti tra i diversi sistemi(…) indurli a cooperare, stabilire gerarchie di valori e di principi” .
Già in passato si è detto che è mancata una “chiave di lettura unitaria” dell’art. 41 Cost. perché un vizio ricorrente nella nostra cultura giuridica è quello di leggere la Costituzione con “gli occhiali dell’ideologia”,e si è anche aggiunto che ciò è comprovato proprio dalla interpretazione che si è data al suddetto art. 41 della Costituzione, norma tra le più rilevanti a livello socio-economico tra quelle della Parte I, Titolo III, della Carta, perché deputata a regolare il rapporto tra due diritti costituzionalmente tutelati : diritto alla libertà d’impresa (art. 41 Cost.) e diritto al lavoro (artt. 1,3,4 Cost.) .
Corollario di quanto ora detto è che la disordinata legislazione sui licenziamenti piena di lacune, disorganica e priva di progettualità, nel creare incertezze, come si è detto, ha agevolato il prevalere, , in materie con un rilevante impatto sociale, di letture ideologiche del dato normativo, che hanno contribuito ad alimentare tali incertezze. A ciò ha fatto poi seguito una giurisprudenza spesso “creativa”, “a contenuto variabile”, “sovente permeabile a condizionamenti di natura politica” o “a rigidi opzioni culturali”, perpetuando il vizio antico di trasformare il diritto di libertà in una “funzione sociale”, assoggettata al sindacato giudiziario dell’eccesso di potere. Ed a tanto si è giunti sulla base dell’assunto che dalla mancata formulazione espressa dalla riserva di legge nel secondo comma dell’art. 41 Cost., deve evincersi che non solo l’autorità giudiziaria ma anche il potere esecutivo può “con atti autoritativi funzionalizzare l’impresa alla utilità sociale” .
3. Come si sa Il principio della libertà economica consente all’imprenditore di adottare tutti i suoi poteri direttivi nella gestione del personale e nell’organizzazione aziendale e, quindi, anche di scegliere in piena autonomia che cosa produrre, quanto produrre e dove produrre, ma i suoi poteri non possono mai tradursi in atti arbitrari perché incontrano un limite invalicabile indicato dal Costituente con la formula della “utilità sociale” .
Invero, sulla portata da assegnare alla sfuggente nozione di “utilità sociale” si è riscontrata in dottrina una “mobilità semantica”, essendosi affermato che tale concetto esprime una “irriducibile poliedricità” perchè “ha l’effetto di produrre una vera e propria bipolarità semantica, il cui referente si identifica nella soddisfazione di bisogni imputabili, in un caso, ai lavoratori dipendenti e, nell’altro, all’intera società o più precisamente a quel gruppo o a quel soggetto che,nella singola fattispecie, si presenta come investito dell’interesse sociale” ; dal lato opposto si è ricordato che sinora travagliate generazioni di studiosi non hanno saputo identificare in maniera circoscritta e precisa il concetto di “utilità sociale” perché “nessuno è mai riuscito a sapere quale sia il significato che una collettività anche di due persone può dare all’utilità, non dei singoli, ma dell’insieme dei due” ; ed ancora, nella stessa ottica valutativa si è rimarcato come risulti impossibile individuare nell’art. 41 un centro di “equilibrio” stante la diversa sensibilità degli interpreti, oscillante ora verso la libertà ora verso il principio della direzione economica” .
In linea con il pensiero di chi ritiene che la scienza giuridica non è una scienza pura, come la filosofia o la teologia, ma una scienza pratica, il giurista è tenuto comunque a valutare ed ad interpretare il “testo” di ciascuna norma nel “generale contesto” della realtà sociale e di quella ordinamentale in cui la norma stessa e’ deputata ad operare, e deve leggerla, esaminarla ed interpretarla con obiettività, rifuggendo, nell’adempimento del suo compito, da condizionamenti ideologici o di qualsiasi altra natura .
Già da tempo ha trovato ampia condivisione l’indirizzo favorevole ad interpretare il primo comma dell’art. 41 Costituzione in chiave di riconoscimento di un “mercato concorrenziale”, in “una economia sempre più globalizzata”, il che ha indotto ad affermare che nel rapporto tra la libertà di impresa(rectius : tra il diritto all’iniziativa economica privata) ed il diritto al lavoro, il primo deve prevalere sul secondo per effetto di un “equo bilanciamento” tra opposti interessi, sempre però che l’esercizio di tale libertà sia rivolto ad una migliore e più efficiente organizzazione dell’azienda, finalizzata alla crescita della produttività o, a maggior ragione, alla stessa sopravvivenza dell’impresa, allo scopo di evitare, in tal modo, negative ricadute sul mercato del lavoro con una consequenziale crescita della disoccupazione .
Opinione questa che ha trovato decisivo supporto anche nel consolidato indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui ai fini di accertare la legittimità del licenziamento non è necessario che il datore di lavoro provi di avere avuto cali di produzione, perdita di profitti o altre difficoltà di diversa natura, risultando a tal fine sufficiente addurre valide e veritiere ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle volte ad una migliore efficienza organizzativa ovvero ad un incremento della redditività .
L’indicato indirizzo giurisprudenziale ha riconosciuto rispetto al passato maggiori spazi applicativi al libero esercizio delle attività economiche prendendo le distanze da un precedente orientamento dottrinario ed anche giurisprudenziale, che limitava la libertà dell’imprenditore sino ad avanzare la tesi che l’imprenditore in quanto “parte forte del rapporto lavorativo”, non possa recedere dal contratto neanche in presenza di difficoltà economiche (diminuzione effettiva della produttività aziendale, cali veritieri degli introiti attestati dai bilanci annuali, ecc. ), dovendosi dare un preponderante rilievo valutativo alla situazione del lavoratore perché “parte negoziale più debole” del rapporto.
I giudici di legittimità hanno dunque meglio tutelato la libertà di impresa con una lettura dell’art. 41 Cost. volta ad individuare – è bene ribadirlo - un “giusto equilibrio” tra il diritto alla libertà di impresa e diritto al lavoro attraverso una interpretazione conforme sia alla Carta Costituzione e sia alle fonti normative dell’ordinamento europeo .
La “libertà economica” viene pertanto applicata nella realtà fattuale come “un autonomo potere di gestione” in base al quale la tutela della libertà di impresa finisce per identificarsi nel pieno riconoscimento dei poteri direttivi dell’imprenditore sempre che gli stessi vengano esercitati in funzione dell’efficienza produttiva dell’impresa stessa.
Per finire sul punto le idee portanti del pensiero liberale garantiscono alla “libertà di impresa” una tutela meno rigida rispetto alle “ libertà della persona”, perché ogni ordinamento liberale ha tradizionalmente sempre riconosciuto alla “libertà dell’impresa” tutele più flessibili consentendo di vietare del tutto determinati tipi di attività economiche o anche di fortemente vincolare le modalità di esercizio delle altre libertà, salvo però che tutto ciò non finisca per incidere pesantemente sui poteri dell’imprenditore fino a condizionarne l’autonomia nella gestione del personale e nell’organizzazione dell’azienda’ .
4.. Per dare una maggiore completezza motivazionale a quanto sinora detto è utile qualche ulteriore annotazione su quanto accaduto nel lungo periodo del Coronavirus dal quale sono scaturite da un lato, la perdita dolorosa di vite umane, e, dall’altro, l’aumento esponenziale di imprese che hanno già cessato o cesseranno, alla fine del blocco dei licenziamenti, le loro attività economiche con gravi ripercussioni sul mercato del lavoro.
In in una breve sintesi può affermarsi che in un difficile contesto socio-economico il Governo del Paese nel suo operare oltre a violare, come si è ripetuto, il disposto dell’art. 13 della Costituzione e quello dell’art. 41 comma primo della Carta ha disatteso anche il dettato della lettera q) del secondo comma dell’art. 117 Cost., che attribuisce la competenza esclusiva allo Stato in tema di “dogana, protezione dei confini nazionali, e profilassi internazionale”. Disposizione questa ultima volta a garantire - a fronte di eventi spesso imprevisti e di eccezionale gravità, quale la pandemia per Coronavirus - con la sovranità del Paese anche la salute fisica e psichica della collettività e la resistenza a livello economico soprattutto delle medie e piccole imprese attraverso interventi pronti, di agevole applicazione e territorialmente unificanti.
Di contro il Governo, senza neanche fornirsi di un aggiornato piano nazionale vaccinale, ha preferito, invece di accentrare stabilmente, come doveva, il potere di regolamentazione normativo - sia per la gestione della necessaria profilassi che per le misure economiche - lasciare di volta in volta alle Regioni ed agli altri enti territoriali spazi flessibili di autonomia, sovente senza fornire adeguate e tempestive motivazioni, provocando in tal modo un aumento delle incertezze in tempi che necessitavano di “una diretta e totale responsabilizzazione del Governo e di una coraggiosa e competente cabina di regia”.
Nello specifico una breve storia di poche parole scritte che, con obiettività e senza infingimenti e pregiudizi, voglia fotografare oggi la realtà del vivere quotidiano, attesta che dopo essersi introdotti limiti stringenti alle libertà di tutti - tanto che è lecito parlare di “democrazia sospesa”- o “commissariata” - si continua a chiedere alla collettività pazienza, prudenza e sacrifici nonostante la crescente moltiplicazione di rigide regole, di norme severe, e di duraturi divieti, nella generalità dei casi pienamente rispettati dalla cittadinanza.
E la stessa breve storia di poche parole certifica anche che in ragione di uno Stato per lungo tempo rimasto (totalmente o parzialmente) inadempiente agli annunci ripetutamente pubblicizzati, agli affidamenti creati ed alle promesse fatte, in molte categorie di lavoratori, in numerose imprenditori ed in milioni di cittadini, le speranze alimentate si sono trasformate dapprima in sfiducia nelle istituzioni, di poi in dolore e sofferenza, ed infine in disperazione e rabbia.
Con la fine del blocco dei licenziamenti e la cessazione della cassa integrazione anche di quella in deroga di certo aumenterà il contenzioso giudiziario relativo ai licenziamenti che, se accertati come illegittimi ( per mancanza di giusta causa o giustificato motivo), daranno titolo a numerose azioni di risarcimento dei danni.
E’ prevedibile, infatti, , che nel vicino futuro sarà valutata la praticabilità della class action che, per trovare avere la sua naturale applicazione in presenza della tutela di “posizioni deboli” in sede negoziale, ben può essere un istituto di difesa dei diritti dei lavoratori “parti anche esse deboli del rapporto negoziale”, che vedono crescere la propria debolezza proprio in tempi in cui l’economia del Paese soffre.
E risultano percorribili anche altre vie : quale quella di denunziare la violazione dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” per essere molti dei decreti presidenziali in parte privi di chiarezza, spesso di infinita lunghezza e per di più privi nel loro contenuto di elementi sufficienti per la individuazione di un equo bilanciamento tra perdite e sacrifici sopportati, da una parte, ed entità di “indennizzi” abitualmente corrisposti con ritardi, e talvolta senza alcuna giustificazione, dall’altra .
Inoltre non sembra un azzardo il pensare che si possa agire in giudizio anche sulla base degli articoli 1428 e 1431 c.c., in ragione di un vizio del consenso quale l’errore di diritto, che alla stregua delle norme codicistiche deve avere oltre al requisito della “essenzialità” anche quello della “riconoscibilità” in “relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti “ sicchè , “una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”. Con Le suddette norme è evidente che si sia inteso tutelare il principio della tutela dell’affidamento sempre che detto affidamento non sia espressione di inerzia, di disinteresse, di mancata normale attenzione tanto da risultare ingiustificabile, come non dovrebbe mai accadere nell’adempimento di qualsiasi obbligo che la pubblica amministrazione ha nei confronti di ciascun cittadino .
Per terminare, e’ auspicabile che la storia del futuro prossimo sia migliore per tutti di quella triste riassunta nelle poche pagine del presente saggio, ed è sperabile per quanto si è detto, che il diritto del lavoro ridiventi come nel passato un “diritto di valori”.

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