Testo integrale con note e bibliografia

1. La trasparenza: finestra aperta sul gender gap.
La Strategia europea per la parità di genere 2020-2025 , presentata dalla Commissione europea il 5 marzo del 2020 , da una parte, e soprattutto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato dal Governo italiano il 13 luglio 2021, dall’altra, segnano l’inizio di una nuova stagione della politica legislativa sulla parità di genere che, accanto alla riproposizione e al rafforzamento della strumentazione antidiscriminatoria , del modello promozionale delle cosiddette azioni positive e delle politiche di conciliazione vita e lavoro , puntano su una nuova strategia di contrasto al gender gap fondata sulla trasparenza e sulla rendicontabilità delle politiche aziendali di gestione del personale.
Come dimostra la direttiva europea 2019/1152 sulla trasparenza delle condizioni contrattuali , sulla cui implementazione nel contesto italiano si sta in questi giorni tanto discutendo, nel nuovo secolo, il principio di trasparenza è, di fatto, sempre più elevato a principio trasversale di “terza generazione”, che punta sull’aspetto dinamico dell’informazione stessa. Il principio di trasparenza e prevedibilità delle condizioni contrattuali punta, infatti, su un diritto di informazione diretto non solo a “fotografare” l’esistente, bensì dinamico, che – attraverso l’esplicazione in postulati linguistici chiari, trasparenti e controllabili – deve garantire non solo la conoscenza e conoscibilità delle condizioni contrattuali applicate, ma anche la prevedibilità delle possibili modifiche che, in mondo del lavoro “ad alta velocità”, rischiano di rendere la vita del lavoratore non programmabile e potenzialmente lesivo della capacità di autodeterminazione della persona e dei suoi spazi di vita .
Non è un caso che, già da qualche anno, sia emersa nelle istituzioni comunitarie la consapevolezza di come la trasparenza costituisca un presupposto fondamentale per l’effettiva attuazione e azionabilità in giudizio del diritto alla parità retributiva tra uomini e donne : la raccomandazione della Commissione europea del 7 marzo 2014, infatti, ha evidenziato come l’attuazione del principio della parità retributiva sia ostacolata dalla mancanza di trasparenza dei sistemi retributivi, dalla mancanza di certezza del diritto sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali; sul presupposto che «una maggiore trasparenza salariale all’interno di un’impresa o di un’organizzazione possa rivelare pregiudizi e discriminazioni di genere, consentendo così a dipendenti, datori di lavoro e parti sociali di intervenire adeguatamente per ripristinare il rispetto della parità retributiva», la raccomandazione citata ha incoraggiato gli Stati membri a adottare le misure che meglio si adeguano alle rispettive circostanze nazionali e a attuare almeno alcune delle principali misure a favore della trasparenza. In particolare, fra le misure previste nella raccomandazione citata spicca l’invito agli Stati membri «di porre in essere misure che assicurino che i datori di lavoro in imprese e organizzazioni con almeno 50 effettivi informino regolarmente i dipendenti, i rappresentanti dei lavoratori e le parti sociali sulla retribuzione media per categoria di dipendente o posizione, ripartita per genere»; ma anche quello di «adottare misure adeguate per garantire la conduzione di audit salariali nelle imprese e organizzazioni con almeno 250 dipendenti. Questi audit dovrebbero comportare un’analisi della percentuale di donne e uomini in ciascuna categoria di dipendenti o posizione e dei sistemi di valutazione e classificazione del lavoro utilizzati, e fornire informazioni dettagliate sulle remunerazioni e sui differenziali retributivi di genere»; nonché quello di promuovere «lo sviluppo e l’uso di sistemi di valutazione e classificazione del lavoro neutri sotto il profilo del genere».
Dopo aver ribadito la centralità del principio di parità di trattamento nel pilastro europeo dei diritti sociali e dopo aver approfondito le criticità della direttiva 2006/54/CE , lo scorso anno la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva volta a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi . Come si legge nella proposta, la trasparenza retributiva è considerata «strumento essenziale per fugare i dubbi sulla parità retributiva tra uomini e donne e per sostenere l'eliminazione dei pregiudizi di genere nelle pratiche retributive»; essa può «favorire un cambiamento di atteggiamento nei confronti della retribuzione delle donne sensibilizzando e stimolando il dibattito sulle ragioni delle differenze strutturali di retribuzione tra donne e uomini». E infatti, secondo la Commissione, la mancanza di trasparenza incide profondamente sull’effettività del principio di parità sotto una molteplicità di profili: la mancanza di informazioni sulla fascia retributiva prevista per una determinata posizione lavorativa crea un'asimmetria informativa che limita il potere contrattuale dei richiedenti, per cui la garanzia della trasparenza potrebbe «consentire ai potenziali lavoratori di prendere una decisione informata in merito al salario previsto senza limitare in alcun modo il potere contrattuale del datore di lavoro o del lavoratore di negoziare una retribuzione anche al di fuori della fascia indicata. Garantirebbe inoltre una base esplicita e non discriminatoria sotto il profilo del genere per la determinazione delle retribuzioni e porrebbe fine alla sottovalutazione delle retribuzioni rispetto alle competenze e all'esperienza». Per questa ragione, nelle imprese con almeno 250 prestatori, tutti i lavoratori dovrebbero avere il diritto, dietro loro richiesta, di ottenere informazioni sul loro livello retributivo e sul livello retributivo, ripartito per sesso, della categoria di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, dovrebbero poter aver accesso a una descrizione dei criteri utilizzati per determinare i livelli retributivi e l'avanzamento di carriera; tali informazioni dovrebbero consentire ai datori di lavoro di valutare e monitorare le loro strutture e politiche salariali, dando loro modo di rispettare proattivamente il principio della parità retributiva. Allo stesso tempo, i dati disaggregati per genere dovrebbero aiutare le autorità pubbliche competenti, i rappresentanti dei lavoratori e gli altri portatori di interessi a monitorare il divario retributivo di genere tra settori (segregazione orizzontale) e funzioni (segregazione verticale).
La trasparenza dovrebbe così attivare un meccanismo virtuoso di interlocuzione a diversi livelli e, soprattutto, ove dalle informazioni pubblicate emergessero “criticità” (v. art. 9), un vero e proprio procedimento di «valutazione congiunta delle retribuzioni» che coinvolge il datore di lavoro, i rappresentanti dei lavoratori, gli organismi di parità, l’ispettorato del lavoro, l’organo di monitoraggio operante (secondo quanto previsto dall’art. 26 sulla proposta) a livello nazionale. Si tratta, di fatto, di una proceduralizzazione del potere datoriale di determinare le retribuzioni, ma anche i sistemi di valutazione e di classificazione professionale che, proprio a partire dalla trasparenza, aprirebbe le porte a un vero e proprio controllo e a un monitoraggio su ciò che accade nell’azienda, alla scoperta delle pieghe dove si annida il gender gap.
Ovviamente, non si tratterebbe di un monitoraggio fine a sé stesso, in quanto la seconda parte della direttiva si concentra poi sul profilo rimediale/sanzionatorio: procedure per conto o a sostegno dei lavoratori, diritto del lavoratore al risarcimento reale ed effettivo per la perdita e il danno subiti, che sia dissuasivo e proporzionato al danno stesso (art. 14), trasferimento dell’onere della prova (art. 16), accesso alle prove da parte dell’autorità giudiziaria (art. 17), sanzioni pecuniarie a carico delle aziende (art. 20), misure sanzionatorie da applicare nell’ambito degli appalti pubblici o delle concessioni (art. 21). Sotto tale ultimo profilo, infatti, la proposta di direttiva prevede che gli Stati membri dovrebbero adottare misure appropriate volte a garantire che, nell'esecuzione di appalti pubblici o concessioni, gli operatori economici rispettino gli obblighi relativi alla parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore; ciò, secondo la proposta, potrebbe avvenire tramite la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di escludere dalla partecipazione a una procedura di appalto pubblico qualsiasi operatore economico nel caso in cui vi sia modo di dimostrare con qualsiasi mezzo adeguato la violazione degli obblighi di trasparenza retributiva o la sussistenza di un divario retributivo superiore al 5%, non giustificato dal datore di lavoro sulla base di criteri oggettivi di genere, in una qualsiasi categoria di lavoratori.

2. La parità di genere nel PNRR tra trasparenza e premialità.
La centralità delle questioni relative al superamento delle disparità di genere è stata ribadita anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) per rilanciare lo sviluppo nazionale in seguito alla pandemia. Il Piano, infatti, ha individuato la Parità di genere come una delle tre priorità trasversali perseguite in tutte le missioni che lo compongono. Le misure previste dal Piano in favore della parità di genere sono in prevalenza rivolte a promuovere una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, attraverso interventi diretti di sostegno all'occupazione e all'imprenditorialità femminile, nonché attraverso interventi indiretti o abilitanti, rivolti in particolare al potenziamento dei servizi educativi per i bambini e di alcuni servizi sociali, che il PNRR ritiene potrebbero incoraggiare un aumento dell'occupazione femminile. Fra le misure presenti trasversalmente nel Piano, nell’ambito della Missione 5 del Piano medesimo, l’investimento 1.3 è dedicato alla attivazione di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere, con l’obiettivo di incentivare le imprese ad adottare
policy adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree che presentano maggiori criticità, come le opportunità di carriera, la parità salariale a parità di mansioni, le politiche di gestione delle differenze di genere e la tutela della maternità .
Sotto la spinta del PNRR, il legislatore italiano è così intervenuto in materia di parità retributiva con una pluralità di interventi normativi, in molta parte – come si è in premessa accennato – volti all’introduzione di misure finalizzate ad aumentare la trasparenza dei dati sulla gestione dei rapporti di lavoro, sui trattamenti retributivi, sui sistemi di progressione, cui si connettono una serie di innovativi meccanismi premiali e/o sanzionatori, che hanno potenzialmente le carte in regola per segnare una nuova gestione delle politiche di contrasto al gender gap, appunto all’insegna della promozione della trasparenza.
Fra le misure di attuazione del PNRR che puntano sul connubio trasparenza-premialità si collocano:
- l’art. 47 del d.l. 31 maggio 2021, n.77, dedicato alla governance del PNRR, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n.108;
- la legge n. 162 del 5 novembre 2021, che ha introdotto modifiche al Codice delle pari opportunità di cui al d.lgs. n. 198 del 2006;
- nonché il recente art. 34, del d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla l. 29 giugno 2022, n. 79, che ha introdotto modifiche al Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016).
Si tratta di una serie di misure articolate dirette a promuovere, in una logica in parte innovativa, le pari opportunità sotto una intrecciata serie di profili.
Il primo intervento normativo, in ordine temporale, introduce una speciale disciplina volta a favorire le pari opportunità di genere e generazionali, nonché l'inclusione lavorativa delle persone con disabilità nei contratti pubblici finanziati con le risorse del PNRR e del PNC.
Il secondo intervento normativo, di più rilevante portata sistematica , come si è detto, modifica il Codice di pari opportunità e, senza dubbio, rappresenta un ulteriore tassello importante nel contrasto al gender gap. Il testo, da una parte, introduce delle modifiche alla nozione di discriminazione, sia diretta sia indiretta, dall’altra, interviene proprio sul tema della mancanza di trasparenza delle condizioni di lavoro e retributive all’interno dei contesti aziendali, e lo fa riscrivendo il requisito dimensionale delle aziende cui si applica l’obbligo di redazione del rapporto sulla situazione del personale , già previsto dall’art. 46, nonché – con la previsione del nuovo art. 46-bis – tramite l’introduzione di una nuova procedura di certificazione della parità di genere, che permette di accedere (almeno in una prima fase) alle aziende che otterranno la certificazione stessa a un sistema di premialità nel versamento dei contributi previdenziali.
Il terzo intervento normativo, in ordine temporale, finalizzato proprio al rafforzamento del sistema di certificazione della parità di genere, come si è sopra accennato, apporta infine delle modiche al Codice dei contratti pubblici (art. 93, comma 7, e art. 95, comma 13), introducendo una disciplina “premiale” nel regime delle gare di appalto per le imprese in possesso della certificazione della parità di genere di cui all’art. 46-bis prima citato.

3. Luci e ombre del rapporto sulla situazione del personale.
La strategia che punta sulla trasparenza delle condizioni contrattuali come viatico per una più effettiva applicazione e controllabilità del principio di parità è, come si è accennato, declinata nel testo novellato del Codice delle parti opportunità attraverso due distinti strumenti: il rapporto sulla situazione del personale di cui all’art. 46, e la certificazione della parità di genere di cui al successivo art. 46-bis. Si tratta di due strumenti profondamente diversi: entrambi sono il frutto di una declinazione del principio di trasparenza e ne rappresentano una applicazione, con la differenza, si potrebbe dire, che il primo strumento – il rapporto sulla situazione del personale – ha la funzione di “fotografare” l’esistente, e quindi è una estrinsecazione del principio di trasparenza sotto il profilo “statico”; il secondo – la certificazione della parità di genere –, invece, ha la funzione di implementare il principio di trasparenza sotto il profilo “dinamico”, ponendosi l’obiettivo di rendere trasparenti non solo le condizioni date, ma anche le procedure interne/organizzative finalizzate a creare e a sviluppare una gestione paritaria, trasparente e rendicontabile delle risorse umane.
La nuova versione dell’art. 46, innanzitutto, ha ridotto a 50 dipendenti la soglia dimensionale delle aziende obbligate a redigere, con cadenza biennale, il rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile, favorendo altresì la redazione del rapporto su base volontaria da parte delle aziende con un numero di dipendenti inferiore. Come previsto dall’art. 46 citato, si tratta del rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile – come recita la disposizione – in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. Come previsto dal comma 3, lett. a) del medesimo art. 46 novellato, in materia retributiva essi dovranno riguardare, in modo distinto per uomini e donne, il numero dei lavoratori di sesso femminile e maschile eventualmente assunti nel corso dell'anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l'inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato, anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale, nonché l'importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio ad personam in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che siano stati eventualmente riconosciuti a ciascun lavoratore.
Inoltre, l’art. 46, comma 3, lett. b) prevede l'obbligo di inserire nel rapporto informazioni e dati sui processi di selezione in fase di assunzione, sui processi di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l'accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, sugli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e sui criteri adottati per le progressioni di carriera.
Rispetto alla versione originaria dell’art. 46, il testo novellato prevede l’obbligo di inserire nel rapporto tutta una serie di informazioni dettagliate , prima solo riepilogativamente enunciate. Il decreto interministeriale del 29 marzo 2022 (che abroga il precedente D.M. 3 maggio 2018) e il relativo allegato A , hanno poi specificato le modalità esclusivamente telematiche per la redazione dei rapporti biennali, nonché la trasmissione degli stessi alle rappresentanze sindacali aziendali e l’accesso delle consigliere e dei consiglieri regionali di parità ai relativi dati per la loro elaborazione. Come previsto dal decreto citato (art. 2, comma 8), una copia del rapporto deve essere resa disponibile dalla consigliera o dal consigliere regionale o provinciale di parità, ovvero dalle rappresentanze sindacali aziendali, al lavoratore che ne faccia richiesta per usufruire della tutela giudiziaria prevista
dal Codice delle pari opportunità. In altre parole, il singolo lavoratore che voglia avere copia del rapporto dovrà rivolgersi alle consigliere o ai consiglieri di parità oppure alle rappresentanze sindacali aziendali.
Si tratta, senza dubbio, di un passo avanti importante della legislazione italiana verso la trasparenza, che – per un verso – anticipa alcune delle previsioni contenute nella proposta di direttiva europea del 2021, volta a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza, addirittura obbligando alla redazione del rapporto le imprese con 50 dipendenti; per altro verso, tuttavia, il rapporto sulla situazione del personale citato, proprio per la sua natura di documento che “fotografa” il dato aggregato genericamente per categoria professionale e livello di inquadramento, omette di confrontarsi con il problema e la necessità di far emergere i casi di lavoro di pari valore retribuito tuttavia diversamente, in violazione del principio di parità. In altre parole, se è vero che il rapporto e la trasparenza su cui si basa consente di verificare, in linea di massima e in chiave percentuale, i differenziali retribuitivi, le occasioni di formazione, le progressioni, ecc., è però anche vero – e lo dimostra l’assenza nell’allegato A pubblicato insieme al decreto del 29 marzo 2022 di qualsivoglia riferimento alla «funzione svolta da ciascun lavoratore occupato» – che il dato aggregato solo sulla base dell’inquadramento formale, nulla dice sull’utilizzo ab initio dei criteri di inquadramento dei lavoratori che si trovano in una situazione analoga, il cui valore del lavoro dovrebbe essere (come prevede la proposta di direttiva del 2021) valutato sulla base di criteri oggettivi e nutri che includono i requisiti professionali e in materia di istruzione e formazione, le competenze, l'impegno e le responsabilità, il lavoro svolto e la natura dei compiti assegnati.
Decisamente sintetica è poi la parte della tabella da compilare (il punto 2.6 dell’allegato A, prima citato) che riguarda le «Informazioni generali sui processi e strumenti di selezione, reclutamento, accesso alla qualificazione professionale e manageriale», essendo prevista una mera elencazione da spuntare sui sistemi di reclutamento e di progressione, sulle misure di conciliazione, ecc. che tuttavia non appare in grado di fornire alcun quadro aziendale d’insieme sugli effetti concreti in termini di promozione delle pari opportunità. Se, dunque, in astratto, il testo novellato dell’art. 46 si presta ad aprire una finestra sullo stato dell’arte della parità in azienda, è possibile ritenere che dietro la finestra aperta, il decreto del 29 marzo 2022 abbia comunque lasciato la possibilità per le aziende di “aggregare” i dati su valori numerici di massima, lasciando trasparire le effettive politiche aziendali solo nella controluce di un modello di questionario che, almeno prima facie, non appare in grado di fare una vera e propria chiarezza sugli effetti dei criteri adottati per l’accesso, per le progressioni, ecc.
Vero è che, probabilmente, almeno in sede di prima applicazione, il decreto del 29 marzo 2022 abbia voluto essere cauto nell’introduzione di un obbligo di rendicontazione che, comunque, anche solo nella sua dimensione di fotografia statica dell’esistente, si sta rivelando faticoso per gli addetti ai lavori , ma è anche vero che si tratta dell’avvio di un processo di trasparenza destinato comunque a stimolare un percorso di riflessione su ciò che accade nell’azienda a diversi livelli di interlocuzione.
L’obbligo di disclosure mira quindi a responsabilizzare le imprese, aumentando la consapevolezza generale della realtà del lavoro e della discriminazione di genere, promuovendo la cultura della parità ; il rapporto, infatti, diventa strumento di riflessione per le istituzioni di parità e per le rappresentanze sindacali aziendali; diventa strumento acquisibile dal singolo lavoratore anche ai fini dell’elaborazione dell’eventuale prova statistica della discriminazione; su di esso l’Ispettorato del lavoro eserciterà le funzioni di controllo e sanzionatorie previste dall’art. 46 citato, commi 4 e 4-bis ; l’assolvimento di tale obbligo è condicio sine qua non per la partecipazione alle procedure di gara (la cui mancanza determina l’esclusione dall’impresa inadempiente oppure il successivo obbligo di predisposizione del rapporto stesso entro il termine di sei mesi dalla stipula del contratto per le imprese con meno di 50 dipendenti , la cui violazione deve essere sanzionata dalla stazione appaltante con l’applicazione di penali) finanziate in tutto o in parte con le risorse del PNRR (art. 47, d.l. n. 77 del 2021, prima citato ). Il rispetto di tale obbligo è, pertanto, verificabile anche in sede di gara, ove almeno formalmente non corretto o non veritiero, ecc., o anche in sede giurisdizionale (laddove, per es., non pare da escludere un eventuale ricorso amministrativo da parte del sindacato, quale soggetto portatore di un interesse generale all’esclusione da una gara di una impresa che magari ha presentato un rapporto sulla situazione del personale non veritiero, con dati fittizi, ecc.).
Che il legislatore riponga una certa fiducia su tale strumento è evidente: sulla base dei dati del rapporto, in attuazione dell’art. 47, comma 5, del d.l. n. 77 del 2021, il decreto 7 dicembre 2021, contenente le Linee guida volte a favorire la pari opportunità di genere per gli appalti finanziati in tutto o in parte con le risorse del PNRR e del PNC ha, infatti, previsto (al punto 9, lett. d) la possibilità di inserimento nei bandi di gara di clausole di premialità a favore delle imprese che «nell’ultimo triennio abbiano rispettato i principi di parità di genere e adottato specifiche misure per promuovere le pari opportunità generazionali e di genere, anche tenendo conto del rapporto tra uomini e donne nelle assunzioni, nei livelli retributivi e nel conferimento di incarichi apicali»; è però anche vero che, per come è strutturato il rapporto e per la sua costruzione per dati aggregati e per voci sintetiche da spuntare (in cui mancano i riferimenti a dati sui conferimenti degli incarichi), non appare facile ipotizzare modelli di clausole premiali effettivamente verificabili in sede di gara , e certamente non per il solo tramite dell’analizzato rapporto sulla situazione del personale.
È comunque auspicabile che, in prospettiva della possibile futura necessità di recepire la proposta di direttiva sulla trasparenza retributiva del 2021, il legislatore italiano possa sia rafforzare il profilo di comparabilità delle retribuzioni per lavori di pari valore; sia ulteriormente specificare l’obbligo – al momento piuttosto blando – di informativa sui processi e sugli strumenti di selezione, di reclutamento, di accesso alla qualificazione professionale e manageriale e di utilizzo di misure di conciliazione; sia incrementare gli obblighi di pubblicizzazione del rapporto, imponendo – come fa la proposta di direttiva – la pubblicazione sul sito aziendale ; sia, soprattutto, prevedere delle misure correttive concrete nel caso in cui – come pure previsto dalla proposta di direttiva europea del 2021 – il divario retributivo tra personale femminile e maschile fosse pari o superiore al 5% e non fosse giustificabile con ragioni oggettive.

 

 

4. La certificazione della parità di genere tra parametri minimi e indicatori di performance: la prassi UNI/PdR125:2022.

Decisamente più innovativo e potenzialmente dagli effetti più dirompenti è invece il nuovo sistema di certificazione della parità introdotto dal nuovo art. 46-bis del novellato Codice delle pari opportunità . Se, come si è detto, il rapporto sulla situazione del personale è estrinsecazione del principio di trasparenza nella sua versione “statica”, la certificazione della parità di genere, invece, almeno in astratto, ha la funzione di implementare il principio di trasparenza quale viatico della parità sotto il profilo “dinamico”, ponendosi l’obiettivo di mappare e plasmare dall’interno i processi aziendali, di valutarne l’impatto, la performance, di discuterne le risultanze, di misurarne le ricadute e, nel tempo, le prospettive di miglioramento verso una effettiva parità di retribuzioni, di carriere, di responsabilità.
L’art. 46-bis prevede che – a decorrere dal 1° gennaio 2022 – è istituita la certificazione della parità di genere al fine, appunto, di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. In ottemperanza al disposto legislativo, che espressamente rinviava a una decretazione attuativa, con il decreto 29 aprile 2022, la Ministra per le pari opportunità ha disciplinato i parametri per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese e le modalità di coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità. Il decreto citato, preso atto del Tavolo di lavoro sulla certificazione di genere delle imprese e della successiva approvazione da parte dall'UNI, organismo nazionale di normazione, della Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 contenente «Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l'adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator - indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni», entrata in vigore in data 16 marzo 2022, ha stabilito che i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere da parte delle imprese siano appunto quelli contenuti nella Prassi citata e che al rilascio della suddetta certificazione provvedano gli organismi di valutazione della conformità accreditati in questo ambito ai sensi del regolamento (CE) n. 765/2008 .
La Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 si rileva di grande interesse nell’ottica giuslavoristica, presentandosi come una sorta di manuale della cultura organizzativa della parità, cui dovrebbero ispirarsi le imprese, ma anche le p.a., che puntano alla certificazione. Con l’obiettivo ambizioso di avviare un percorso sistemico di cambiamento culturale nelle organizzazioni e nella società tutta al fine di raggiungere una più equa parità di genere, la citata Prassi di riferimento punta ad intervenire sulle seguenti tre aree, riguardanti le opportunità di crescita in azienda e parità di retribuzioni; le politiche per la gestione della genitorialità e della conciliazione vita-lavoro; le politiche di gestione dei processi aziendali. In questa triplice prospettiva di intervento, la Prassi di riferimento citata mira a misurare il livello di “maturità” delle singole organizzazioni attraverso 6 aree di indicatori ritenuti in grado di contraddistinguere un’organizzazione inclusiva e rispettosa della parità di genere quali: 1. Cultura e strategia; 2. Governance; 3. Processi HR; 4. Opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda; 5. Equità remunerativa per genere; 6. Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Ogni area è contraddistinta da un peso % (fatto 100 il totale del peso delle differenti aree), ponderato a seconda della dimensione aziendale (numero di addetti), che contribuisce alla misurazione del livello di compliance dell’organizzazione e rispetto al quale sono misurati gli stati di avanzamento costanti nel tempo. Per ciascuna area di valutazione sono stati identificati degli specifici indicatori di performance (KPI), attraverso i quali misurare il grado di maturità dell’organizzazione, con un monitoraggio annuale e una verifica ogni due anni, per dare evidenza del miglioramento ottenuto grazie alla varietà degli interventi messi in atto o di un apposito remediation plan attivato in chiave correttiva. Per ogni area sono previsti indicatori di natura qualitativa, misurati in termini di presenza o non presenza, o di natura quantitativa, misurati in termini di delta % rispetto a un valore interno aziendale o al valore medio di riferimento nazionale o del tipo di attività economica svolta .
Nella logica promozionale di una vera e propria cultura della parità, e quindi di una promozione della trasparenza organizzativa nel suo aspetto “dinamico”, la citata Prassi UNI/PdR 125:2022 individua così una serie di indicatori che fanno riferimento e modulano i punteggi in funzione della presenza di piani strategici, di procedure interne, di politiche di comunicazione e di interventi formativi sugli stereotipi di genere ; dei processi di governance (con budget, con fissazione di obiettivi di parità al management, con presenza di esponenti del sesso meno rappresentato nell'organo amministrativo e di controllo della organizzazione) ; dei processi di gestione delle risorse umane che dovranno essere confermati da atti o documenti che evidentemente dimostrino la sussistenza di processi di gestione e sviluppo delle risorse umane a favore dell'inclusione, della parità di genere e dell’integrazione (quali
selezione, condizioni generali di contratto, on-boarding neutrali, valutazioni delle prestazioni), di meccanismi di turnover in base al genere, di politiche di mobilità interna e di successione a posizioni
manageriali rispettose della parità di genere, del rientro al lavoro post-maternità, di prassi aziendali volte a prevenire episodi di mobbing o di molestie ; delle opportunità di crescita e di inclusione delle donne in azienda, (numero di donne in organico, numero di donne con qualifiche dirigenziali, numero di donne con potere di spesa/investimento, ecc., per le quali si prevedono indicatori misurati in termini di delta % rispetto a un valore registrato nel biennio precedente) ; dei livelli percentuali di differenza retributiva per medesimo livello inquadramentale per genere e a parità di competenze, dei livelli percentuali di promozione su base annua, delle percentuali di donne con forme di remunerazione variabile del salario ; della presenza di servizi dedicati al rientro post maternità/paternità, nonché di policy, oltre il CCNL di riferimento, dedicate alla tutela della maternità/ paternità e servizi per favorire la conciliazione dei tempi di vita personale e lavorativa, del numero percentuale di uomini beneficiari potenziali dei congedi di paternità nei primi dodici anni di vita del bambino obbligatori, ecc. .
Per ognuno degli indicatori previsti, la Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 definisce un iter procedurale e documentale idoneo a rendere verificabile la sussistenza e l’effettività degli indicatori stessi: solo per fare qualche esempio, in materia di selezione si prevede che l’organizzazione debba predisporre procedure di selezione e assunzione che definiscano regole idonee a contrastare i bias, contattando in modo equo i profili candidati sulla base del genere; assicurando che le descrizioni della mansione da assumere siano neutre rispetto al genere e il processo di reclutamento sia rivolto sia agli uomini che alle donne; non permettendo che, durante i colloqui, siano effettuate richieste relative ai temi del matrimonio, della gravidanza o delle responsabilità di cura. O ancora, che nelle politiche salariali, l’organizzazione si doti di un mansionario della singola impresa che completi e dettagli quello generico dei CCNL, per la segnalazione da parte dei/delle dipendenti di eventuali disparità retributive, ecc. Come si è accennato, ogni indicatore è associato a un punteggio il cui raggiungimento o meno viene ponderato per il peso dell’area di valutazione; è inoltre previsto il raggiungimento del punteggio minimo di sintesi complessivo del 60% per determinare l’accesso alla certificazione da parte dell’organizzazione che chiede volontariamente di essere certificata.
Il sistema è poi completato dalla descrizione di un percorso di verifica della conformità alla Prassi di riferimento, eseguito da un team di esperti indipendenti tramite audit finalizzati a raccogliere evidenze oggettive che dimostrino lo stato di conformità di quanto attuato e dichiarato dall’azienda da certificare, gestione delle situazioni non conformi, analisi di eventuali meccanismi di whistle-blowing, piani rimozione delle non conformità, ecc.
Per quanto riguarda l’ambito della certificazione, la Prassi citata prevede che la certificazione possa riguardare una singola società, con la necessità di considerare tutti i siti, tutte le filiali, le sedi secondarie, le attività e i processi effettivamente svolti dall’organizzazione; si prevede tuttavia la possibilità di rilasciare una certificazione di “gruppo” che ricomprenda diverse entità giuridiche, sebbene ciò sia possibile solo in presenza di una struttura organizzativa “centralizzata” che gestisca e controlli la compliance per tutte le società del gruppo.
Si prevede, infine, che nel gruppo di verifica che esegue gli audit sia presente almeno un/una componente qualificato/a per le valutazioni di sistemi di gestione per la qualità ai sensi della norma UNI EN ISO 9001, ma anche un/una avvocato/a giuslavorista o un/una consulente del lavoro, iscritto/a da almeno 5 anni al relativo albo professionale (oppure un/a altro/altra professionista che dimostri significativa e consolidata esperienza documentata nel settore specifico, oggetto della UNI/PdR). La certificazione, ad opera degli organismi di certificazione accreditati, è assoggettata, inoltre, ha un limite di durata: ha validità triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale.

5. L’informativa annuale sulla parità di genere e l’effetto premiale/sanzionatorio della certificazione di parità: chi controlla chi?

Nel solco della strategia di bilanciamento del connubio trasparenza-premialità, la certificazione di parità, ottenibile su base volontaria dalle aziende che aspirano ad ottenere il “bollino rosa”, è stata ovviamente affiancata e supportata da una serie di misure premiali, finalizzate incentivare – sia nella fase iniziale, sia a regime – le imprese a sostenere lo “sforzo”, culturale, organizzativo, ma anche economico, del percorso di certificazione. L’art. 5 della l. n. 162 del 2021 ha, infatti, previsto per le aziende in possesso della certificazione sia un esonero contributivo (commi 1 e 2) ; sia un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti (comma 3); sia un obbligo per le amministrazioni aggiudicatrici, compatibilmente con il diritto dell'Unione europea e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza
e proporzionalità, di indicare nei bandi di gara, negli avvisi o negli inviti relativi a procedure per l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell'offerta in relazione al possesso da parte delle aziende private, alla data del 31 dicembre dell'anno precedente a quello di riferimento, della certificazione della parità di genere (comma 3).
Nella medesima logica di promozione del binomio trasparenza-premialità, inoltre, è intervenuto il recente art. 34, del d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla l. 29 giugno 2022, n. 79, che, proprio con la finalità di rafforzamento del sistema di certificazione, ha introdotto modifiche agli artt. 93, comma 7, e 95, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016 , contenenti disposizioni in materia garanzia provvisoria per la partecipazione alle gare e criteri premiali di aggiudicazione dell’appalto. In particolare, il novellato art. 95, comma 13, del citato Codice degli appalti, riprendendo la previsione dell’art. 5 della l. n. 162 del 2021 prima citata, prevede oggi l’obbligo per le amministrazioni aggiudicatrici di indicare, nel bando di gara, nell'avviso o nell'invito, i criteri premiali (il «maggior punteggio») che intendono applicare alla valutazione dell'offerta, in relazione all'adozione da parte dell’azienda partecipante alla gara di politiche tese al raggiungimento della parità di genere comprovata dal possesso di certificazione della parità di genere di cui all'articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità. Il novellato art. 93, comma 7, del medesimo Codice degli appalti prevede, inoltre, una riduzione della “garanzia provvisoria” (vale a dire della apposita garanzia fideiussoria della quale deve essere corredata l’offerta) per gli operatori economici in possesso della suddetta certificazione di parità.
Più, tuttavia, la parte premiale può considerarsi incisiva e allettante, più l’effettiva trasparenza e veridicità della procedura di certificazione deve risultare verificabile ab externo. Per questo, l’art. 3 del decreto 29 aprile 2022, dedicato all’informativa annuale sulla parità di genere prevede che, ai fini del coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità e per consentire loro di esercitare il controllo e la verifica del rispetto dei requisiti necessari al mantenimento dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese, il datore di lavoro debba fornire annualmente, anche sulla base delle risultanze dell'audit interno, un'informativa aziendale sulla parità di genere, che rifletta il grado di adeguamento ad UNI/PdR 125:2022. Le rappresentanze sindacali aziendali e le consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità, qualora sulla base dell'informativa aziendale prima citata e dei dati risultanti dal rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile di cui all'art. 46 del Codice delle pari opportunità, per le aziende che siano tenute a presentarlo, rilevassero anomalie o criticità, potranno segnalarle all'organismo di valutazione della conformità che ha rilasciato la certificazione della parità di genere, previa assegnazione all'impresa di un termine, non superiore a centoventi giorni, per la rimozione delle stesse.
La procedura di certificazione, dunque, introduce e attribuisce al sindacato un inedito e significativo ruolo di controllo su ciò che fino ad ora era rimasto opaco, attribuendo al sindacato stesso, oltre che alle istituzioni di parità (consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità), un potere di controllo e di verifica del rispetto dei requisiti necessari al mantenimento dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere; controllo e verifica che potranno essere effettuati incrociando i dati emersi dal rapporto biennale sulla situazione del personale, le verifiche dell’ispettorato del lavoro di cui dovessero venire a conoscenza, le risultanze degli audit, le segnalazioni interne ed esterne, ecc. La prassi UNI/PdR 125:2022 non disciplina espressamente la procedura da seguire in caso di segnalazione di criticità da parte delle OO.SS. o da parte delle istituzioni di parità, ma è ovvio che queste potranno e dovranno essere prese in considerazione in sede di monitoraggio annuale. Non è chiaro se, e come, eventuali segnalazioni sulla non veridicità delle informazioni che hanno condotto alla certificazione potranno condurre a eventuale una revoca della certificazione ottenuta.
Oltre al potere di segnalazione all’organismo di certificazione, previsto dall’art. 3 del decreto 29 aprile 2022 sopra citato, è tuttavia ovvio che, nei casi più gravi di irregolarità o di falsità della documentazione posta a base della certificazione, il sindacato e le istituzioni di parità possano effettuare apposite segnalazioni direttamente alle stazioni appaltanti, all’ispettorato del lavoro, ma anche all’ANAC o, come pure non pare da escludere, ricorrere giudizialmente a tutela della legalità (soprattutto in materia di appalti) e/o degli interessi dei lavoratori dell’azienda stessa che è stata certificata, godendo delle misure premiali di cui si è detto, senza averne i requisiti.

6. Densificazione normativa soft ed effetto spill over.
Le novità introdotte in questa nuova stagione della parità al tempo del PNRR, ispirate alla promozione del connubio trasparenza-premialità, sono tante, differenziate, e sicuramente tutte apprezzabili dal punto di vista delle strategie di contrasto al gender gap.
Sebbene il vero strumento obbligatorio e vincolante per le imprese con almeno 50 dipendenti sia il rapporto sulla parità di genere di cui si è detto, la vera scommessa culturale che più sembra destinata ad incidere sulla cultura organizzativa appare tuttavia quella connessa alla certificazione della parità di genere, introdotta dal legislatore del 2021 attraverso una vera e propria “spinta gentile” . Si tratta, come si è detto, di una normativa di estremo interesse che punta sulla volontarietà della scelta aziendale di avvicinarsi a standard procedurali, a prassi e politiche organizzative, nonché a logiche di trasparenza sul come è gestita l’azienda, che elevano questa moderna forma di soft law a grimaldello culturale capace di accrescere i livelli di maturità organizzativa aziendale in materia di parità. Ovviamente, ciò presuppone che la procedura di certificazione stessa venga “presa sul serio” dall’azienda che si vuole certificare e dagli enti di certificazione accreditati, che dovranno agire nel rispetto dei requisiti di terzietà, di indipendenza e di oggettività della valutazione stessa, ma anche dalle OO.SS. e dalle istituzioni di parità investite del compito di “supervisionare” la veridicità delle informazioni poste alla base della certificazione, ma anche di denunciarne – in tutte le sedi utili ed opportune – le falsità, le incongruenze, o anche solo l’ineffettività. Come è stato bene evidenziato, la sfida, a lungo elusa, «è anzitutto in capo alle parti sociali: alla responsabilità delle imprese di includere la promozione della parità nella loro cultura; alla scelta dei sindacati di assumere questo obiettivo come oggetto centrale delle relazioni di lavoro a tutti i livelli, a partire da quello di azienda» .
Di fronte a una tale densificazione normativa soft, trasparenza, pianificazione delle attività, proceduralizzazione su basi neutre dei processi gestionali, anche oltre le previsioni normative e di CCNL, indicatori di performance e audit divengono, prima facie, strumenti con una elevata capacità performativa, in grado di influenzare la governance aziendale, il contesto sociale e culturale e le effettive politiche di gestione delle risorse umane, dando potenzialmente vita a un effetto spill over funzionale a colonizzare nuovi mondi vitali all’insegna della parità. È tutto questo un sogno o una concreta realtà? La risposta all’interrogativo posto non è ovvia, né scontata; dipenderà dal tempo e dalla serietà con la quale tutti gli attori (aziende, organismi di certificazione, amministrazioni pubbliche aggiudicatarie, ispettorato del lavoro, sindacati e organismi di parità, ma anche avvocati giuslavoristi e consulenti del lavoro che in posizione di indipendenza potranno essere chiamati a fare parte del team che effettua gli audit) faranno la loro parte. Per il momento è un obiettivo ambizioso, ma già il fatto di poterlo sognare come “fattibile” è un passo avanti nella lunga storia delle politiche e della legislazione sulla parità.

 

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