Testo integrale con note e bibliografia

1. Qualche osservazione preliminare
L’importante Convegno promosso dall’Università di Padova e tenutosi l’8 marzo 2021 sul tema “Donne e Accademia” mi ha consentito, per un giorno, di abbandonare almeno in parte l’abito usuale di docente di Diritto del lavoro, per riflettere sull’esperienza che ho vissuto per un quadriennio (2016-2020) ricoprendo nella mia Regione, il Friuli Venezia Giulia, l’incarico istituzionale di Consigliera di Parità; incarico che peraltro rivestivo ancora, in regime di prorogatio, nei giorni in cui si è tenuto l’evento patavino.
In questo breve scritto – che riporta i contenuti della mia relazione presentata in quella sede con alcune minime aggiunte – muoverò dunque dall’osservatorio privilegiato di un’istituzione monocratica alla quale l’ordinamento italiano ha affidato importanti poteri nell’ambito delle pari opportunità e del monitoraggio su quelli che sono i percorsi di carriera femminili; percorsi non sempre agevoli, come è noto, anzi non di rado alquanto accidentati, laddove si guardi in particolare al raggiungimento – tanto in ambito privato quanto nelle settore pubblico – delle posizioni apicali.
Indubbiamente, il contesto generale nel quale si è tenuto il Convegno – e che non poteva certo essere ignorato dalle relazioni presentate – ha risentito dell’impatto della pandemia, che ha non poco esacerbato le già presenti e persistenti disparità di genere proprie del nostro mondo del lavoro. La situazione di crisi ha imposto misure particolarmente decise e, d’altra parte, i fondi europei del Recovery Fund e la richiesta ad essi collegata di un’attenzione specifica anche per le tematiche di genere hanno impresso un’accelerazione in questa direzione ai Paesi membri dell’Unione, che l’Italia ha declinato in recenti interventi normativi (il riferimento è, in particolare, alle misure in tema di contrasto al c.d. gender gap e di sostegno all’occupazione femminile di cui alla legge n. 162/21 ) il cui impatto, che andremo a misurare nei prossimi mesi ed anni, costituirà uno stress test alquanto importante circa l’effettiva volontà e capacità di mettere la questione del riequilibrio di genere al centro del dibattito pubblico.
Certamente i dati che abbiamo a disposizione sulla parità di genere nei contesti lavorativi, ed in quello accademico in particolare, sono poco confortanti, sebbene nel tempo si siano registrati numerosi passi avanti. Le due ampie relazioni di Olivia Bonardi e Maria de Paola , ai contenuti delle quali qui rinvio, ci hanno presentato un quadro in cui la distanza tra uomini e donne, in termini di opportunità e prospettive di carriera, è ancora assai evidente; inoltre, quantomeno fino ad oggi, anche la raccolta dei dati in materia non è stata affatto facile, mancandone di aggregati ed essendo, non di rado, le singole ricerche sul tema confinate ad un ben preciso contesto universitario ‘micro’, riferibile, di volta in volta, all’uno od all’altro ateneo.
Ci sono poi ulteriori e nuovi elementi da considerare con una certa preoccupazione, legati proprio all’impatto della pandemia; nel marzo del 2021, nei giorni in cui si svolgeva il Convegno patavino, il Sole 24-Ore ha pubblicato un articolo richiamando una ricerca che sottolineava come, nel 2020, da un lato si fosse riscontrato un numero di articoli in pubblicazioni scientifiche con prima autrice una donna in diminuzione rispetto alla media degli anni precedenti; dall'altro, una minore percentuale di donne fossero risultate primo ricercatore in domande di finanziamento di progetti di ricerca. Già questi primissimi dati ci pongono degli evidenti ed inquietanti interrogativi quanto ad un possibile impatto differenziato in termini di genere della pandemia sul lavoro scientifico: se fossero confermati alla distanza, rivelerebbero in modo indiscutibile un’(ulteriore) marginalizzazione della posizione delle donne nel contesto accademico.
Vi è infine, a tale ultimo proposito, un altro elemento da considerare, che fin dall’inizio non è sfuggito a chi segue le dinamiche del diritto del lavoro e che riguarda l’impatto del c.d. smart working (lavoro agile/da remoto), che per le donne – ed anche per le docenti e ricercatrici – non è stato indifferente; alcuni primi studi segnalano infatti come le nuove pratiche organizzative, legate all’emergenza, abbiano prodotto effetti diversi su lavoratori e lavoratrici, a netto sfavore di queste ultime . Per molte, infatti, le attività di cura domestiche sono venute a sommarsi e sovrapporsi al lavoro reso da casa: si pensi solo alla necessità di aiutare e seguire i figli più piccoli nelle attività scolastiche rese con l’ausilio di strumenti tecnologici durante le lunghe settimane di lockdown totale. Questo ha comportato per tante donne un carico di stress aggiuntivo ed una (ulteriore) difficoltà nel riuscire a conciliare la sfera degli impegni familiari con quella del lavoro. A tale proposito, mi sento di concordare in pieno, dunque, con la proposta di Olivia Bonardi, che nella sua bella ed ampia relazione ci indicava la necessità, in termini di equità, di un ripensamento importante della valutazione relativa al 2020, in quanto si dovrebbe tenere presente che, per molte docenti universitarie, l'ingresso in carriera – o meglio, i primi passi della carriera ‘formale’ a seguito della vittoria nel primo concorso – spesso coincide con le scelte relative alla maternità, non di rado fino a quel momento procrastinate. Sul tema ricordo una interessante ricerca condotta presso l’Università di Udine, circa vent’anni addietro, che faceva chiaramente vedere come, rispetto all’età media, già allora elevata al momento della nascita del primo figlio, ed al numero medio di figli per donna, non solo per le ricercatrici l’età media alla nascita del primo figlio fosse spostata ancora più in avanti, ma anche il valore riferito al numero medio di figli, considerando il numero totale delle ricercatrici allora in ruolo, risultasse decisamente inferiore rispetto al tasso del campione femminile generale di riferimento. Una evidente fotografia, già allora, del prezzo pagato sul piano familiare dalle donne impegnate nel lavoro scientifico nell’università.
La sensazione è che le cose non siano molto cambiate. Infatti, le donne impegnate nella ricerca da un lato continuano in molti casi a spostare in avanti nel tempo le proprie scelte riproduttive (con i rischi del caso, tra l’altro, non essendo l’età della madre un fattore ininfluente), dall’altro, dopo la nascita di un figlio (spesso l’unico), devono convivere con un carico di lavoro di cura importante, legato alla presenza di bambini molto piccoli proprio nel momento in cui si dovrebbero avviare percorsi impegnativi di carriera, che richiedono di essere particolarmente produttive e di pubblicare molto.
Questa, quindi, è un'altra circostanza che dovrebbe preoccuparci; se poi vogliamo allargare lo sguardo ad uno scenario più generale, non possiamo che richiamare la posizione dell’Italia nel quadro disegnato dal Gender Gap Index elaborato ogni anno dal World Economic Forum, che per il 2020 ci ‘accreditava’ di un ben poco onorevole 76° posto .
Certamente, nel 2020 la crisi occupazionale legata alla pandemia l'hanno (particolarmente) pagata le donne, non solo in termini di lavoro subordinato, ma anche in termini di mortalità delle imprese: i dati del 2021 segnalavano quasi quattromila imprese femminili in meno; l’impatto negativo, quindi, non si è concretizzato solo nei trecentomila posti di lavoro persi tra le donne – di cui molto si è parlato anche sulla stampa quotidiana – ma anche in una mortalità tra le imprese femminili molto più alta ed in un tasso di inattività che vede ancora, in Italia, nella fascia 15-64 anni, circa una donna su due risultare non impiegata in un lavoro ‘esterno’ alla famiglia. Se a questo poi si aggiunge pure un divario salariale medio di circa il 15% nel lavoro subordinato (ma proprio nei giorni del Convegno patavino il Sole24Ore con grande risalto segnalava come tra le professioniste il gap fosse del 35% medio), il quadro è completo e non certo incoraggiante.
Se concentriamo la nostra attenzione solo sul sistema universitario, un primo dato salta indubbiamente agli occhi, ed è il progressivo rarefarsi della presenza femminile, quanto più si sale nelle posizioni di prestigio accademico e di potere. Inoltre, molte delle cariche assunte dalle donne (all’interno dei corsi, dei dipartimenti, della complessa macchina delle amministrazioni centrali delle singole università) vengono rivestite in un'ottica che appare di puro servizio (potremmo dire, di maternage) verso gli atenei: infatti, si tratta spesso di cariche ed incarichi non retribuiti, che comportano dunque un aggravio di lavoro – talora anche molto consistente – il quale, tuttavia, non si traduce in un vantaggio economico per le lavoratrici; anche questo, dunque, è un dato che dovrebbe farci pensare, così come il fatto che la partecipazione delle donne nei progetti che si realizzano per conto terzi da parte delle università sia mediamente inferiore a quella dei colleghi uomini; d’altra parte, spesso si tratta di progetti che coinvolgono dipartimenti delle aree scientifiche c.d. STEM, a partire da quelle ingegneristiche, dove è circostanza nota che la presenza delle donne tra le docenti (e anche tra le studentesse) sia ancora non paritaria.
Quanto sino ad ora si è evidenziato, dunque, dovrebbe costituire per il nostro Paese non solo un ovvio motivo di preoccupazione, ma anche uno stimolo per un cambiamento che appare ormai indifferibile. Anche l’Italia, infatti, deve confrontarsi con quelli che sono gli obiettivi dell'agenda 2030 delle Nazioni Unite e, in particolare, con l’obiettivo n. 5 che attiene proprio alla parità di genere; inoltre, non si deve dimenticare che l'Unione Europea ha segnalato la necessità che i Paesi membri, anche nell'ambito della ricerca scientifica e del lavoro accademico, presentino regolari rapporti che analizzino i dati sulla presenza le carriere femminili all'interno del sistema . Si tratta di un impegno che, per l’Italia, chiama in causa il MUR e l’Istat, e che negli ultimi anni ha iniziato finalmente a consentici di accedere ad una serie di dati più precisi, permettendo di avere una fotografia più nitida di quelli che sono i percorsi e le posizioni delle donne nell’Accademia. Peraltro, l’ampia forbice che permane tra uomini e donne in termini – appunto – di presenza e carriere, è già stata ottimamente illustrata nella relazione di Maria de Paola, alla quale qui dunque rinvio, limitandomi a ricordare come oggi le donne siano più o meno la metà nella fascia di accesso alla carriera universitaria, quella dei ricercatori, per scendere a circa un terzo se si guarda al ruolo dei professori associati e a circa un quinto per quanto attiene ai professori ordinari. Si tratta di numeri che, se ci limitiamo all’ultimo quinquennio, non si discostano molto da quelli degli anni immediatamente precedenti e che dunque segnalano una permanente difficoltà di velocizzare il cambiamento, sebbene alcune rettrici neoelette in grandi Atenei (penso a Padova e all’Università di Roma La Sapienza) costituiscano certamente un segnale (anche sul piano simbolico) altamente positivo.

2. Ruolo e prerogative delle/dei Consigliere/i di parità
Se questo è il contesto, sia pure assai sinteticamente tracciato, ci si può chiedere quale ruolo possano giocarvi le Consigliere (o i Consiglieri) di parità . Credo sia opportuno qui ricordare brevemente le caratteristiche di questa figura; si tratta di organi monocratici, presenti a livello nazionale, regionale e – in molte regioni – anche a livello provinciale (o di area vasta). Il ruolo può essere rivestito indifferentemente da donne od uomini; le prime tuttavia sono al momento l’assoluta maggioranza, anche se segnalo l’esperienza della Provincia autonoma di Trento, dove il ruolo è attualmente rivestito da un uomo, che è peraltro un collega docente di Diritto del lavoro nel locale Ateneo.
Si tratta dunque di una vera e propria ‘rete’ di istituzioni monocratiche che operano sulla base delle disposizioni del Testo unico di cui al decreto legislativo n. 198 del 2006 (c.d. “Codice delle pari opportunità”, di cui vedi, per il profilo che qui interessa, gli artt. 12 e ss.) ed alle quali è affidata tutta una serie di compiti, che vanno dalla promozione della parità di genere nel lavoro, al contrasto alle discriminazioni (anche con la possibilità di agire in giudizio, a determinate condizioni), alla tessitura di una articolata rete di relazioni sul territorio tra istituzioni di parità, assessorati al lavoro, strutture ed organismi operanti nel mercato del lavoro, parti sociali, con l’obiettivo di costantemente monitorare la situazione occupazionale femminile. È già stato ricordato (v. la già citata relazione di Olivia Bonardi) come alcuni poteri attribuiti a tali figure assumano particolare rilevanza: tra essi, indubbiamente quello di promuovere azioni giudiziarie contro le discriminazioni di genere nel lavoro, anche collettive, e non solo a supporto dell'azione individuale della singola lavoratrice interessata; inoltre, cruciale è il monitoraggio della presenza e delle dinamiche delle carriere femminili nelle aziende – fino a ieri con più di 100 dipendenti, oggi, dopo la recente riforma attuata nel 2021, con più di 50 dipendenti – dal momento che a tali aziende è fatto obbligo di presentare ogni due anni un dettagliato rapporto alle/ai consigliere/i regionali di parità, fornendo dati che riguardano non sono le tipologie di contratti d’impiego ed i profili di carriera all'interno delle aziende (ad es., quante sono le dirigenti), ma che concernono anche le retribuzioni corrisposte (ai fini di misurare l’eventuale gap retributivo), il ricorso ai congedi, l’accesso alla formazione, ecc.
Nella mia esperienza di Consigliera del Friuli-Venezia Giulia ho provveduto alla redazione di due rapporti su questi temi, resi accessibili anche in modalità open access sul sito della Regione ; l’analisi dei dati raccolti, grazie al coinvolgimento di studiose esperte sui temi della parità di genere, diverse delle quali docenti nei due Atenei regionali di Trieste e Udine, ha fornito importanti elementi conoscitivi, che hanno evidenziato come anche in una regione del Nord-Est, con performance occupazionali femminili decisamente migliori rispetto a molte altre realtà del Paese, emergano comunque significativi divari di genere quanto – ad esempio – ai tassi di impiego, ai profili di carriera, all’incidenza del lavoro a tempo parziale e/o precario, al ricorso ai congedi, alle retribuzioni.
Per quanto poi attiene all'approccio di una Consigliera di parità al tema delle possibili discriminazioni e disparità di carriera in ambito accademico, se dovessi parlare solo della mia esperienza diretta, dovrei dire che pochissimi sono stati i casi portati alla mia attenzione. Peraltro, come ci ha anche segnalato Olivia Bonardi nel suo intervento, risulta che questo avvenga anche per le altre Consigliere; in materia di carriera universitaria, gli interventi (e gli eventuali ricorsi) sono davvero limitatissimi. Si può certo immaginare che, da un lato, ci possa essere quella sorta di ‘timore reverenziale’ per tutti i motivi che Olivia Bonardi ci ha già illustrato con la sua relazione, che può portare a scegliere di non mettersi ‘in rotta di collisione’ con il proprio dipartimento od il proprio ateneo, cercando soluzioni non conflittuali; dall’altro lato, potrebbe anche rilevare una scarsa conoscenza della figura, delle attribuzioni e delle possibilità di supporto che una/un consigliera/e di parità potrebbe fornire; questo tuttavia sono meno propensa a crederlo, alla luce di un lavoro informativo che, almeno per quanto riguarda la mia regione, è stato sicuramente fatto in passato e che in questi anni ha dato frutti importanti.
Non deve inoltre trascurarsi un aspetto riconducibile alle particolari difficoltà legate all’azione giudiziaria, già segnalate da Olivia Bonardi e sulle quali dunque non mi diffondo nuovamente, rinviando anche alla giurisprudenza da lei richiamata; la discrezionalità amministrativa di cui lei ci parlava, infatti, indubbiamente può incidere sulle scelte finali operate dai dipartimenti in sede di allocazione di risorse concorsuali. Di fatto, anche per questo, la tentazione di promuovere azioni giudiziarie (e/o di chiamare in gioco la Consigliera di parità) molto spesso viene repressa fin dal suo sorgere.
Dall'altro lato, va anche detto che, accanto alla Consigliera di parità, in molti Atenei è stata attivata un'altra figura, che è quella del Consigliere o della Consigliera di fiducia, che pure ha poteri di intervento in contesti universitari laddove ci siano sospetti di discriminazione di genere (o di molestie, morali e sessuali) ed alla quale dunque ci si può rivolgere. Ovviamente, non è necessario sottolineare quanto possa essere importante creare poi un buon rapporto sul territorio tra Consigliere/i di parità e Consigliere/i di fiducia degli atenei, perché questi soggetti potrebbero cooperare tra loro per cercare soluzioni efficaci alle problematiche che vengano in gioco.
Un’ altra questione che ho potuto affrontare dal mio punto di osservazione privilegiato come Consigliera di parità, e che mi vede in pieno accordo con le riflessioni ed i dati presentati da Olivia Bonardi, riguarda il tema del rispetto delle percentuali di genere nelle commissioni di concorso. Al netto di un sistema sanzionatorio che è ancora poco adeguato, va anche detto che la differenza tra personale ‘privatizzato’ e non (come sono le docenti universitarie) qui si apprezza nettamente, in quanto mentre gli atenei – almeno nella mia passata esperienza – sono risultati mediamente solleciti nell’inviare alla Consigliera di parità le informazioni quanto alle nomine delle commissioni per i concorsi riguardanti il personale tecnico amministrativo (alla luce delle specifiche disposizioni del Testo unico sul pubblico impiego), la stessa cosa non si può dire per i concorsi per l'accesso ai posti nelle diverse fasce della docenza, alla luce dell’assenza di un’analoga previsione.
Voglio infine fare un breve cenno ad un altro possibile campo di intervento delle Consigliere di parità, sempre riferibile in senso ampio alle attività accademiche, sebbene non solo a queste: si tratta del tema delle presenze femminili quali relatrici in convegni, congressi, ecc., troppo di frequente – almeno in passato – decisamente minoritarie rispetto a quelle maschili. Non a caso, si è ormai consolidato un movimento di opinione che, anche a livello internazionale, sulla base della parola d’ordine “No Women, No Panel”, segnala la necessità di riequilibrare le presenze femminili in tutte le occasioni di dibattito scientifico – ma anche, più ampiamente, di dibattito pubblico – rilevando come ancora troppo spesso la voce delle donne venga marginalizzata, se non esclusa. Basti solo pensare allo scalpore suscitato, all’inizio della pandemia, dalla nomina in Italia, da parte delle autorità di governo, di un comitato tecnico scientifico nel quale le voci femminili erano sostanzialmente assenti, vicenda in relazione alla quale, assieme ad altri soggetti, si era mossa non a caso anche la Consigliera nazionale di parità, con l'appoggio di tutte le consigliere regionali, per protestare nei confronti della Presidenza del Consiglio e per segnalare la necessità di una immediata inversione di rotta, poi attuata anche se in modo solo parzialmente soddisfacente (essendosi trattato di un intervento ‘additivo’…). Questa vicenda di rilievo nazionale indica peraltro quello che può fare una Consigliera di parità anche a livello regionale, e cioè cercare di monitorare con attenzione i vari eventi scientifici pubblici, magari intervenendo con una nota quando si rilevi che poco o assente sia lo spazio in queste occasioni. per le studiose; cosa che peraltro anche a me è capitato di fare (anche se, nel caso di specie, per iniziative non universitarie, ma promosse da altri soggetti).
Diverse sono quindi le modalità con le quali la figura istituzionale della/del Consigliera/e di parità può intervenire. Indubbiamente, e penso risulti evidente da quanto detto finora, nell'ambito accademico ci troviamo di fronte comunque (anche) ad un discorso di ordine più generale sull'esercizio del potere: poco stupisce dunque, nel contesto generale, che le asimmetrie di genere siano ancora così evidenti.

3. Alcune considerazioni conclusive
Abbiamo segnalato come sia opportuno indagare le ragioni di ordine strutturale e culturale, ma anche psicologico (il maternage di cui si è detto…), che fanno sì che più donne siano disponibili ad accettare incarichi che poi vengono pochissimo valorizzati in termini di carriera – ed in termini economici – anche all'interno degli atenei. Tutti questi elementi poi ritornano anche in quelli che sono i percorsi individuali delle singole ricercatrici e docenti. D'altra parte, un altro rischio che si può osservare è che, quando determinate posizioni vengono raggiunte, si possa cadere in una certa omologazione rispetto ai modelli maschili di gestione del potere.
Ci sono, tuttavia, anche circostanze che ci fanno ben sperare. Penso, ad esempio, proprio alle recenti prese di posizione di alcune Rettrici che, nelle loro prime dichiarazioni pubbliche, hanno tenuto a sottolineare come una leadership femminile che si sottragga all’omologazione di cui si è detto potrebbe contribuire in modo significativo al cambiamento dell'università, non solo sul piano simbolico.
È chiaro che l'Università è anche un contesto dove si concorre in molti per un numero limitato di posizioni disponibili. Possono dunque scattare anche quei meccanismi di chiusura sociale legati a ‘vecchi’ modelli di cooptazione, in cui i cooptanti cooptano chi è più vicino a loro: ed è evidente che, in un settore a prevalenza maschile, con una commissione a prevalenza maschile, il rischio che tali condizionamenti operino, quando i valori sono paragonabili, è elevato, come peraltro da tempo ci insegna la sociologia.
Altra e diversa questione è poi quella dell'approccio differente che le donne sembrano avere proprio con riguardo alla dimensione relazionale del potere. Questa disponibilità ad accettare incarichi che spesso comportano molto lavoro (e poca o nulla remunerazione) è stato già segnalato ed è una situazione di fatto molto presente tra le donne impegnate nell'accademia, che spesso tendono a dare un peso importante anche alla dimensione ‘istituzionale’ del loro lavoro, con un’attenzione concentrata sul bene dell'istituzione e non solo sulla propria carriera individuale. Tale approccio, peraltro, non di rado si può tradurre in effetti negativi proprio su quest’ultima: paradossalmente, come ci ha illustrato la prima relatrice, mentre per gli uomini assumere determinati incarichi porta poi spesso anche ad un avanzamento di carriera, questo risulta non essere più vero per le donne, o esserlo comunque in misura molto inferiore. Quindi, in estrema sintesi, si potrebbe osservare che lo spirito di servizio femminile dovrebbe essere considerato un bene del quale sarebbe opportuno che le istituzioni non abusassero, valorizzandolo invece come merita.
Avviandomi a concludere il mio intervento, voglio portare qualche rapida notazione conclusiva. In primo luogo, sono assolutamente convinta che sarebbe utile varare degli adeguati meccanismi di premialità per i dipartimenti (e gli atenei) che valorizzino le carriere femminili ed i percorsi di carriera delle donne, impegnandosi davvero nel riequilibrio di genere. Meccanismi di premialità siffatti, peraltro, sarebbero assolutamente legittimi anche sulla base del rilievo nel dettato costituzionale del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, secondo comma, Cost.), trattandosi di strumenti che andrebbero ad attuarlo correggendo disuguaglianze di fatto ancora molto evidenti.
Un secondo passo dovrebbe essere la valorizzazione all'interno dell'università del ruolo dei Cug, quale ‘antenna’ che vada a monitorare in modo puntuale e costante gli andamenti e gli sviluppi delle carriere femminili. Ritengo che attraverso il Cug, e anche mediante una collaborazione tra Cug e consigliere di parità territoriali, potrebbero passare non solo il monitoraggio, ma anche una politica di azioni positive da intraprendere nell’ambito dei singoli atenei. Quanto poi a strumenti di riequilibrio quali le quote di genere, sicuramente più complessi e delicati, in termini d impatto e di velocizzazione del cambiamento basti qui ricordare che l’adozione, dieci anni addietro, di un meccanismo di quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e delle partecipare pubbliche (il riferimento è alla legge “Golfo Mosca”, n. 120/2011) ha apportato un deciso cambiamento ad un sistema che vedeva, all’epoca del varo di tale misura legislativa, una presenza risibile delle donne in quei consessi. Ritengo che ci sia poco da discutere: in certi contesti bisogna in primo luogo che le donne possano entrare, in quanto se si rimane escluse o in assoluta minoranza le scelte strategiche continueranno a farle sempre e solo gli uomini. Questa è anche la ragione per cui ritengo importante che si realizzi un monitoraggio puntuale della partecipazione femminile nell’ambito dei progetti in conto terzi degli atenei, che, come è noto, possono portare importanti risorse aggiuntive ai singoli; dunque, è necessario verificare che le donne non siano marginalizzate o escluse da tali attività.
Credo infine che sia più che opportuno che nei nostri atenei vengano potenziate le attività legate agli Studi di genere , anche in una logica di contributo ad una rete territoriale (dove alla ricerca si possono affiancare pure attività riferibili c.d. “terza missione”), che naturalmente non può non coinvolgere le Istituzioni di parità. È cruciale, poi, che in queste iniziative ci sia un coinvolgimento significativo dei colleghi uomini, altrimenti si rischia l’autoreferenzialità, e da questo angolo prospettico posso dire che, sempre guardando all’esperienza del mio ateneo, nell’Università di Trieste vi sono colleghi che hanno avuto e stanno avendo un ruolo importante nella promozione, ad esempio, della partecipazione femminile nei corsi di lauree Stem, con delle attività specifiche dirette all'orientamento ed indirizzate a cercare di aumentare il numero delle ragazze in questi percorsi formativi.. Anche sotto questo profilo, costituire all'interno degli atenei dei Centri interdipartimentali per gli Studi di genere, che siano titolari di risorse adeguate, per supportare – con la ricerca e la terza missione – le attività di contrasto alle discriminazioni e agli stereotipi, credo possa essere di rilevante utilità e possa creare un ulteriore terreno nel quale realizzare un incontro ed una collaborazione proficui tra le università e istituzioni di parità del territorio.

 

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