Testo integrale con note e bibliografia

1. La presenza femminile nel pubblico impiego: alcuni dati

Il tema della parità di genere e delle pari opportunità nel pubblico impiego latita nel dibattito pubblico e, bisogna riconoscerlo, non è troppo presente neppure in quello scientifico, quanto meno fra i giuristi del lavoro . Ciò accade probabilmente perché è diffusa la convinzione che nel settore pubblico, a differenza di quanto accade in quello privato, le disparità di trattamento legate al sesso non siano così importanti o frequenti. La conseguenza è che quando si parla di parità di genere in questo ambito spesso si finisce per occuparsi quasi solo di questioni legate al tema della conciliazione vita-lavoro.
È necessario tuttavia verificare se realmente le predette disparità di trattamento non esistano ed a tal fine può essere utile domandarsi quante sono le donne occupate nel pubblico impiego, che tipo di posizioni ricoprono, se subiscono discriminazioni in fase di carriera e quali sono gli strumenti che l’ordinamento predispone per garantire le pari opportunità e per prevenire e combattere le discriminazioni, soprattutto nelle fasi dell’accesso e delle progressioni.
Per disporre di alcuni elementi quantitativi, si può prendere innanzitutto in considerazione il Conto Annuale della Ragioneria dello Stato, che espone i dati sulla consistenza (oltre che sui costi) del personale delle P.A. . Gli ultimi dati (pubblicati nel 2022) si riferiscono al 2020 e da essi emerge che i dipendenti pubblici in Italia sono circa 3 milioni e 240 mila . Le donne sono il 58% del totale e hanno un’età media lievemente più alta rispetto a quella degli uomini. C’è stata inoltre tra il 2011 e il 2020 una contrazione abbastanza significativa del numero dei dipendenti pubblici (pari all’1,2%), che ha riguardato però esclusivamente gli uomini, che sono infatti calati del 9,6%, mentre le donne sono aumentate del 5,5%.
Le lavoratrici pubbliche sono più scolarizzate dei dipendenti di sesso maschile: tra i laureati in particolare le donne sono il 60%, percentuale che sale al 69% se si considerano le lauree magistrali o specialistiche.
E sempre dal Conto annuale viene fuori che, se con contratto a tempo pieno e indeterminato sono occupate circa 3 milioni di persone, i lavoratori a tempo parziale sono 190.000. Si tratta per la maggior parte di donne e c’è una sproporzione evidentissima soprattutto fra coloro che hanno un contratto a tempo parziale con orario superiore al 50% di quello normale: infatti gli uomini sono 20.000 mentre le donne sono addirittura 127.000. Per quanto riguarda i c.d. contratti flessibili (che per il Conto annuale sono il contratto a termine, il contratto di formazione lavoro, la somministrazione di lavoro e i lavori socialmente utili) ancora una volta le lavoratrici sono in numero maggiore (tranne che per quanto riguarda i LSU).
Un dato interessante, che ha attinenza con i temi di cui qui ci si occupa, è quello relativo alle assenze. Le dipendenti cumulano un maggior numero di giornate di assenza, soprattutto per malattia. Quello che è nettamente diverso è però il dato relativo alle assenze legate a maternità, congedi parentali e malattia dei figli. Le donne nel 2020 hanno usufruito del 90% del totale delle ore di assenza per queste voci, mentre è interessante notare come gli uomini godano di più delle ferie di quanto non facciano le colleghe.
Da questo dati esce dunque confermato quanto si dice generalmente e cioè che le donne nel settore pubblico sono più numerose degli uomini. Risulta inoltre che c’è una tendenziale crescita della percentuale di lavoratrici in tutti i comparti. Pensiamo a quanto accade nel comparto Sanità o nel comparto Istruzione: nel primo le donne sono più del doppio degli uomini; nel secondo sono più del triplo , evidentemente per ragioni legate al fatto che in questi ambiti sono prevalenti i “mestieri di cura”. Ma anche in altri comparti, come quello delle Funzioni locali e quello delle Funzioni centrali, il personale femminile ormai ha superato la metà degli occupati.
Parlando poi delle donne magistrato , il “sorpasso rosa” (lo chiama così proprio il Consiglio Superiore della Magistratura) nel numero totale dei magistrati si è verificato per la prima volta nel 2015 e oggi le donne sono il 55% del totale . Le giudici hanno un’età media più bassa di circa tre anni rispetto agli uomini. Per quanto riguarda i MOT (magistrati ordinari in tirocinio), quindi i nuovi vincitori di concorso, questi sono per il 62% donne e si tratta di una percentuale in aumento. Ma se ci si concentra sui magistrati con incarichi direttivi, si scopre che vi è una percentuale molto elevata di appartenenti al genere maschile: il 73% sono appunto uomini e nelle funzioni semi-direttive essi sono il 55%. Si tratta comunque di un trend che sembra essere in miglioramento dal punto di vista femminile.

2. Le ragioni della massiccia presenza di donne nel settore pubblico

A questo punto ci si può domandare come mai via sia una presenza così significativa di donne nel settore pubblico, che ha conosciuto invero negli ultimi anni una sorta di “femminilizzazione”. Le ragioni sono tante ma, volendo semplificare, si possono individuare due serie di motivazioni fondamentali. La prima consiste nel fatto che sono le donne che spesso scelgono questo settore, anche se sovente questa scelta non è del tutto libera, essendo fortemente condizionata da quello che esse sentono di continuare a dover fare e rappresentare a livello familiare. Le lavoratrici cioè puntano ad un’occupazione nel settore pubblico perché è evidente che è più family friendly del privato .
Ed infatti nelle P.A. l’orario di lavoro è più contenuto o comunque, almeno di regola, meglio distribuito. Difficilmente gli impiegati sono richiesti di svolgere ore di lavoro straordinario o nelle giornate di tradizionale riposo. In passato esisteva una sorta di diritto di passare al part-time, anche se poi, con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (anticipatore della c.d. riforma Brunetta del 2009), che ha modificato l’art. 1, comma 58, della l. 23 dicembre 1996, n. 662, questo diritto è venuto meno. A ciò si aggiunga che è notoriamente più facile usufruire di permessi e di congedi e che la retribuzione, a parità di mansioni e anzianità, non può essere inferiore a quella degli uomini, diversamente da quanto di fatto accade spesso nel privato. Soprattutto, però, perdura il mito della stabilità dell’impiego, che in effetti è stato rafforzato dalla “riforma Madia” quando, con il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, si è stabilito che a fronte di un licenziamento illegittimo il lavoratore nel settore pubblico ha sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro , ciò che, dopo lo stravolgimento dell’art. 18 St. lav. ad opera della l. 28 giugno 2012, n. 92 e dopo il d.lgs. n. 4 marzo 2015, n. 23, non si verifica invece più nel settore privato, neppure per i dipendenti delle aziende più grandi.
Per quanto riguarda poi il periodo dell’emergenza Covid-19, è innegabile che i lavoratori del settore pubblico (soprattutto all’inizio) siano stati maggiormente protetti dagli effetti prodotti dalla pandemia sul piano del rapporto di lavoro. La protezione è risultata particolarmente intensa se si considera il fatto che in ambito pubblico non c’è stato bisogno di parlare di cassa integrazione Covid. Addirittura il “decreto Cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ) aveva previsto che il lavoratore, in caso di impossibilità di svolgere le proprie mansioni in modalità agile e di usufruire di ferie o di forme di sospensione, godesse dell’esenzione totale dal servizio, con il mantenimento quasi integrale dello stipendio . Questo più elevato livello di tutela si è proiettato, a cascata, anche sul piano della vita personale e familiare e ha finito evidentemente per rendere ancor più attrattivo il settore pubblico per coloro che ancora portano maggiormente sulle spalle il family burden, cioè il peso delle incombenze genitoriali e familiari.
Una recente ricerca sociologica ha peraltro messo in evidenza quella che sembra essere un’ulteriore ragione della preferenza delle donne per impieghi in questo ambito: si tratterebbe della public service motivation e cioè della particolare propensione delle donne a servire la collettività e quindi ad impiegarsi in ruoli, tipici del settore pubblico, che offrono servizi nel sociale, inteso in senso lato.
Ci si potrebbe a questo punto domandare se questi elementi siano sufficienti a compensare, per le lavoratrici, le ridotte chances di carriera che permangono in questo ambito, anche nel quale vi è quello che viene comunemente chiamato glass ceiling, come si spiegherà meglio in seguito.
Ma, volendo tornare alle principali ragioni per le quali c’è una massiccia presenza delle donne nel settore pubblico, la seconda è legata al fatto che agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni si accede, almeno di regola, mediante concorso, come prevede l’art. 97 Cost. La Corte Costituzionale, a partire dal 1999 ed in numerose occasioni, ha definito il concorso come il meccanismo di selezione tecnica neutrale dei più capaci e questo meccanismo avvantaggia indiscutibilmente le donne. Esse sono infatti più scolarizzate degli uomini, essendosi ormai da qualche anno verificato il c.d. “sorpasso nell’istruzione” . Le donne investono invero in maniera decisa e consapevole nella scuola e nell’Università, avendo tra i loro obiettivi anche e proprio quello di procurarsi delle occasioni di lavoro di lungo periodo, adeguate e coerenti con la loro preparazione. Quindi il pubblico impiego, con i suoi rigidi e selettivi meccanismi di accesso, diventa un settore sicuramente alla portata del genere femminile, come confermato dai numeri sui vincitori dei concorsi.

3. Il glass ceiling anche nel settore pubblico

Quanto sin qui rilevato vale in termini generali ma, se si scende un po’ più nello specifico e si analizzano i diversi ruoli e le diverse professionalità, dai dati emerge altro e cioè la cronica deficitaria presenza delle donne nei ruoli dirigenziali e di vertice .
A questo proposito si può ricordare che a maggio del 2019 è stato dato grande risalto mediatico ad una notizia presentata come ottima ed essa in effetti, isolata dal contesto, poteva sembrare tale. Nell’ambito del Forum della Pubblica Amministrazione è emerso (e si tratta ancora una volta della elaborazione di dati della Ragioneria di Stato) che nel settore pubblico le dirigenti donne sono più numerose degli uomini, anche se di poco. Ed infatti nel 2019 le donne dirigenti erano il 50,6% e gli uomini il 49,4%. Si tratta però di un dato che va preso con una certa cautela, perché considera soltanto i dirigenti pubblici con effettivo ruolo dirigenziale, cioè i cosiddetti dirigenti in senso stretto (che nel 2109 erano 44.000 mila, su un totale di ben 169.000 dirigenti nominali, categoria che comprende quindi anche altri ruoli di vertice, come quelli dei medici, dei magistrati, dei diplomatici, dei prefetti e del personale della carriera penitenziaria). Considerando solo i dirigenti in senso stretto si può dire che effettivamente c’è stata un’avanzata molto forte del genere femminile, soprattutto nelle professioni sanitarie, dove risulta che le donne dirigenti sono il doppio degli uomini.
Se dunque si prende a riferimento la dirigenza in senso lato, i dati sono diversi: dal Conto annuale della Ragioneria dello Stato del 2019 risulta, ad esempio, che nella carriera diplomatica le donne sono il 23% e in quella accademica il 34% . Ed ancora, che le donne sono il 46% dei dirigenti di seconda fascia, il 38% dei dirigenti di prima fascia, il 27% dei direttori generali . Inoltre, anche a volersi focalizzare solo sulla dirigenza in senso stretto, risulta che il cosiddetto sorpasso delle donne rispetto agli uomini non si è verificato solo quale conseguenza di un aumento delle assunzioni di dirigenti donne o di significative progressioni di carriera delle stesse, ma perché negli ultimi anni c’è stato un forte taglio (di oltre il 10%) dei posti dei dirigenti, taglio che chiaramente ha colpito soprattutto i dirigenti maschi, che sono più anziani delle colleghe, anche se non di molto.
A conferma parziale di questi dati si può considerare un altro elemento: il decreto che annualmente viene pubblicato dai Ministeri del Lavoro e dell’Economia e delle Finanze e che individua i settori e le professioni con elevato tasso di disparità uomo-donna. Sono considerati settori e professioni con elevato tasso quelli nei quali la disparità uomo donna supera di almeno il 25% il tasso di disparità media fra i due generi. Il valore soglia è pari al 12%, quindi il decreto non riporta settori e professioni nei quali il tasso è inferiore a questo valore.
L’ultimo decreto pubblicato, e cioè il d.m. 17 dicembre 2021 (che si basa sulle elaborazioni effettuate dall’ISTAT in relazione alla media annua del 2020) indica un tasso di disparità media uomo-donna del 9,6% (in crescita rispetto alla precedente rilevazione, secondo la quale il tasso si assestava al 9,3%).
Lasciando da parte considerazioni di carattere generale sul fatto che il diverso tasso di partecipazione al mercato del lavoro fra i generi sembra essere di per sé un dato acquisito, quasi ineluttabile, per concentrarsi specificamente su quello che qui interessa, si può notare come da tale decreto emerga che ci sono anche in ambito pubblico dei settori nei quali tale tasso è considerato elevato. Tra questi vi sono i servizi generali della P.A. (dove gli uomini sono addirittura il 65,1%, anche se c’è stata un’attenuazione del tasso di disparità nel corso degli anni ).
Per quanto riguarda le c.d. professioni in ambito pubblico, una voce (la n. 11) mette insieme, in maniera un po’ grezza, i ruoli dei membri dei corpi legislativi e di governo (che in realtà non sono dipendenti pubblici in senso proprio) con i dirigenti e gli equiparati della P.A. nella magistratura, nei servizi di sanità, istruzione e ricerca e nelle organizzazioni di interesse nazionale e sovranazionale. Nel 2019 (dati del 2018) questo indicatore “aggregato” era scomparso, perché evidentemente era sceso al di sotto del valore soglia, ma a partire dal 2020 (dati del 2019) esso è riapparso e nel più recente decreto si attesta al 15,7% . Questo vuol dire che nei ruoli di vertice (comprendenti quindi non solo i dirigenti in senso stretto, ma anche i dirigenti della magistratura, dei servizi, della sanità) gli uomini sono ancora in percentuali significativamente più elevate rispetto alle donne.
In altre professioni ancora il divario di genere è, infine, nettissimo: pensiamo alle Forze armate, nelle quali abbiamo una percentuale maschile tra il 95 e il 98%, con tassi disparità tra il 90 e il 95%.
In conclusione risulta dunque che, al di là di quello che appare e che spesso viene pubblicizzato, anche nel settore pubblico (al di fuori della dirigenza in senso stretto), pure in alcuni degli ambiti nei quali la presenza femminile è molto forte, le donne sono comunque segregate (o quasi) all’interno di qualifiche meno elevate. Le lavoratrici sono ancora escluse dai ruoli di vertice, sono occupate spesso in settori e professioni meno pagate, sono relegate alle classiche mansioni che richiamano attività domestiche, di cura, di insegnamento e di segreteria, svolgendo così un ruolo “materno” e questo ovviamente ha i suoi riflessi sulle retribuzioni. Gli stipendi delle donne sono mediamente più bassi di quelli degli uomini. Ciò non dipende tuttavia dal fatto che il datore di lavoro pubblico possa pagare diversamente le appartenenti al genere femminile. Ed in effetti, considerando i rapporti semestrali dell’ARAN sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici , si vede che un dato del genere non appare neppure, perché non è considerato rilevante. Se infatti, secondo l’art. 37 Cost., la donna ha diritto alle stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, ciò vale «a parità di lavoro». Quindi è evidente che se il lavoro, le mansioni, la qualifica delle donne sono diversi, inferiori, esse possono essere pagate di meno. È chiaro allora che il problema è sempre lo stesso: il glass ceiling e le soluzioni da adottare per superarlo.
Di questo si occupa la direttiva n. 2 del 2019 del Ministero della pubblica amministrazione e delle pari opportunità, nella quale si invitano le P.A. a monitorare le indennità e le posizioni organizzative, per evidenziare eventuali differenziali retributivi tra uomini e donne e promuovere le azioni correttive conseguenti, dandone comunicazione al CUG.
Anche nella normativa del TUPI ci sono norme “sensibili” a questo tema. Ad esempio i commi 4-bis e 5-ter dell’art. 19 impongono di garantire pari opportunità nel conferimento degli incarichi dirigenziali e la citata direttiva del 2019 sollecita le P.A. (anche se non dovrebbe essercene bisogno) a rispettare queste norme, a monitorare gli incarichi e a fare una mappatura delle competenze professionali, perché questo può contribuire a conoscere e a valorizzare la qualità del lavoro dei dipendenti . I datori di lavoro pubblici sono altresì invitati ad essere proattivi, per cui nell’ipotesi in cui sussista un divario fra i generi non inferiore a due terzi nelle attività e nelle posizioni gerarchiche devono essere adottate iniziative per favore il riequilibrio della presenza di genere.
Anche la nuova disciplina sul rapporto sulla situazione del personale va in questa direzione. L’art. 46 del Codice delle pari opportunità (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, d’ora in poi CPO) prevede infatti che i datori di lavoro che occupano più di 50 lavoratori devono redigere ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile, all’interno del quale spiccano proprio i dati relativi allo stato delle assunzioni, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica. Nonostante una terminologia (presente anche nel modello predisposto dal Ministero del lavoro) che fa pensare ad uno strumento costruito sulla fisionomia delle aziende del settore privato , risulta che tale disciplina vincoli anche le P.A., o lameno alcune di esse, dato il riferimento alle “aziende pubbliche e private”. All’interno del rapporto vanno inserite, tra l’altro, informazioni e dati sui processi di selezione in fase di assunzione, sui processi di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale.

4. La normativa sul tema, con particolare riferimento all’accesso al pubblico impiego

A questo punto ci si deve concentrare sul mare magnum della normativa che riguarda il tema delle pari opportunità di accesso al pubblico impiego. Qui assistiamo a una sorta di ipertrofia normativa: a voler individuare tutte le norme che impattano, anche solo indirettamente, nella materia se ne trovano nella Costituzione, nel TUPI, nel CPO, nel TU a sostegno di maternità e paternità (d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151), nella legislazione emergenziale Covid e in numerosi altri testi.
A ciò si aggiunga che ci sono le direttive ministeriali: da quella del 2007 a quella della 2019. Quest’ultima, in particolare, parte proprio dal presupposto che il principio del gender mainstreaming in realtà non sia ancora stato attuato effettivamente nelle P.A. e quindi dà delle indicazioni concrete perché queste misure vengano attuate, menzionando, fra i propri obiettivi, quello di «aumentare la presenza delle donne in posizioni apicali».
Da ultimo sono state emanate (in extremis prima dell’insediamento del nuovo Governo) le Linee Guida (datate 6 ottobre 2022) sulla “Parità di genere nell’organizzazione e gestione del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni”, del Ministro per la P.A. e della Ministra per le pari opportunità e la famiglia, che saranno analizzate più avanti.
Gli aspetti disciplinati in questa magmatica normativa sono molteplici: si parla di parità di accesso al pubblico impiego, di parità nello svolgimento del rapporto di lavoro, di divieti di discriminazione, di pari opportunità, di azioni positive, di quote, di molestie, di mobbing, di violenza. Vi è poi la normativa sui CUG e su tutti gli altri strumenti istituzionali per il contrasto alla discriminazione, le regole sul bilancio di genere, quelle sulla conciliazione vita-lavoro, anche con riferimento specifico all’emergenza Covid, anche se quest’ultima normativa è apparsa abbastanza neutra sul piano della disciplina, nel senso che ha fatto generalmente riferimento ai genitori piuttosto che alle madri.
Ma è evidente che agire solo sul piano delle norme non è sufficiente. Quello che si deve evolvere è soprattutto la mentalità: vanno abbandonati gli stereotipi di genere e l’idea che sia la donna a dover continuare a occuparsi dei problemi di carattere familiare.
Quest’ultima osservazione tuttavia non smentisce il fatto che, se è corretto ciò che si è rilevato sulla presenza femminile nel p.i., e cioè che, a dispetto delle apparenze (l’elevato numero di donne impiegate in questo settore), permane un problema di accesso ai ruoli più alti, più prestigiosi e meglio retribuiti, non è sproporzionato lo sforzo del legislatore di normare in un’ottica paritaria la fase dell’accesso, anche se poi a volte la giurisprudenza (specie amministrativa) - in realtà abbastanza scarsa su questi temi - frena sull’interpretazione di alcune norme, come risulta da alcuni esempi che subito si faranno.
Può essere dunque utile a questo punto precisare come sia composto il ricco parterre di norme sull’accesso al lavoro pubblico ispirato ai principi di pari trattamento e di pari opportunità fra i generi.
È doveroso partire dalla Costituzione che, all’art. 51, prevede che «tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Se ne deduce che né la legge, né le P.A. (con i bandi di concorso o con le altre modalità di accesso utilizzabili) possono prevedere meccanismi e/o criteri che producano l’effetto di discriminare, anche solo indirettamente, le donne. Si può ricordare, a tale proposito, che nell’ambito dell’Assemblea costituente alcuni onorevoli (uomini) avevano tentato di far inserire nell’art. 51 la formula «conformemente alle loro attitudini, secondo le norme stabilire dalla legge», ma la forte opposizione della componente femminile ha ottenuto che il riferimento alle attitudini venisse sostituito con quello ai «requisiti stabiliti dalla legge».
Il principio costituzionale del libero accesso di uomini e donne al pubblico impiego ha trovato inizialmente faticosa applicazione nella legge, soprattutto in certi settori (ad esempio in magistratura, in polizia e nell’esercito), ma allo stato sembra che, almeno a livello di normativa, l’uguaglianza di genere sia garantita. Con la l. cost. 30 maggio 2003, n. 1, il principio costituzionale del libero accesso di uomini e donne al pubblico impiego è stato anzi rafforzato: nel primo comma dell’art. 51 è stata aggiunta la frase «a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne». Ci si potrebbe tuttavia chiedere se sia sopravvissuta, anche solo in modo strisciante, l’idea, apparentemente e normativamente superata, per la quale per certi impieghi occorrano comunque particolari «attitudini», attitudini che (secondo qualcuno, o molti) le donne non posseggono.
Di pari opportunità nell’accesso parla anche l’art. 35, co. 3, lett. c), TUPI, stabilendo che fra i principi che le P.A. devono osservare nelle procedure di reclutamento (anche con contratti flessibili) vi è quello del «rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori».
Nel CPO, all’art. 31, comma 1, è sancito il divieto di discriminazioni nell’accesso agli impieghi pubblici, con una formulazione molto ampia («la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge») che potrebbe sembrare superflua, ma che forse serve a rinnegare esplicitamente regole e prassi del passato .
Un’altra disposizione del CPO che insiste nella nostra materia è l’art. 27, il quale vieta tutte le discriminazioni nell’accesso al lavoro e prevede, tra l’altro, che «nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta deve essere accompagnata dalle parole dell’uno o dell’altro sesso», regola che però non vale nei casi «in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione».
Per creare le condizioni affinché venga fatta una corretta selezione dei candidati, l’art. 57, co. 1, lett. a), TUPI prevede che le P.A., al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro, riservano alle donne almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, «salvo motivata impossibilità» . Un’adeguata percentuale di presenze femminili nelle commissioni appare oltremodo opportuna, data la verificata propensione che i valutatori hanno a scegliere candidati del proprio genere . Su questa norma vi è tuttavia una giurisprudenza granitica che ne ridimensione non di poco l’impatto . Ed infatti secondo i giudici amministrativi la violazione della regola, e dunque la mancata presenza di un numero adeguato di donne nella commissione, non vizia la procedura concorsuale e non ne consente quindi di per sé l’annullamento. Se tuttavia si accerta, nella condotta dell’amministrazione, un intento discriminatorio nei confronti delle donne, ciò può costituire un sintomo di eccesso di potere e condurre quindi all’annullamento della procedura .
Su come si deve costruire una selezione affinché siano garantite le pari opportunità dice qualcosa anche l’art. 25, co. 2, CPO, per il quale si ha una discriminazione indiretta «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso», a meno che essi non «riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari»: si tratta del c.d. test di proporzionalità.
In realtà le discriminazioni indirette sono (o sono state) molto frequenti, almeno in passato. Un caso «classico» (non solo di scuola) è quello del bando di concorso o della legge che richiede un’altezza uguale per uomini e donne. La Corte costituzionale, con la sentenza del 15 aprile 1993, n. 163, ha definito discriminatorio il requisito indifferenziato di statura minima (pari a 165 cm) previsto da una legge della Provincia di Trento per l’accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi. Ed ancora, secondo Cass., sez. lav., 13 novembre 2007, n. 23562, viola i parametri costituzionali la previsione di una statura minima per l’assunzione identica per uomini e donne, ben potendo il giudice ordinario apprezzare incidentalmente la legittimità, ai fini della disapplicazione, della disposizione di rango normativo secondario che stabilisca i limiti minimi di altezza. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la decisione della corte territoriale, che si era limitata a ritenere la previsione di una altezza minima rispondente a criteri di sicurezza ed incolumità del personale in servizio e dell’utenza, senza accertare quali mansioni la candidata potesse adeguatamente svolgere. Il requisito dell’altezza va quindi diversificato tra uomini e donne, perché ciò corrisponde al «dato obiettivo della diversità costituzionale tra i due sessi» ed è espressione di una scelta che le amministrazioni devono effettuare per consentire l’accesso alle procedure concorsuali con criteri di omogeneità agli appartenenti ai due generi .
La questione dell’altezza è così importante che il CPO le dedica un’apposita disposizione. Si tratta dell’art. 31, comma 2, il quale, pur con formula infelice, stabilisce che «l’altezza delle persone non costituisce motivo di discriminazione nell’accesso a cariche, professioni e impieghi pubblici, ad eccezione dei casi in cui riguardi quelle mansioni e qualifiche speciali, per le quali è necessario definire un limite di altezza».
Ma ci sono altri criteri potenzialmente discriminatori in fase di accesso. Per il Consiglio di Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, è indirettamente discriminatoria la previsione, in un bando di concorso, di un identico punteggio per donne e uomini in prove di idoneità nelle quali si valuta il rendimento in attività che comportano sforzo fisico.
Ha suscitato una certa eco il caso del bando di un Comune che richiedeva il possesso della patente A per la copertura di due posti di agente della Polizia Municipale. In primo grado il TAR Sardegna – Cagliari (adito dalla Consigliera di parità della Regione Sardegna, ex art. 37, co. 2, CPO) con sentenza n. 2025/2008 ha dato ragione alla ricorrente, sostenendo che si trattava di una discriminazione indiretta a danno delle lavoratrici, in quanto il requisito non era necessario ma sproporzionato rispetto allo scopo. Per il TAR sarebbe stato sufficiente imporre ai vincitori di acquisire, entro un congruo termine, la patente A . Poi però la Sezione V del Consiglio di Stato, con sentenza del 10 maggio 2010, n. 2754, ha riformato la decisione, affermando che non si trattava di una discriminazione indiretta, in quanto il requisito di partecipazione risultava strumentale al perseguimento di interessi pubblici non suscettibili di essere appagati con idonei mezzi alternativi. Vi era infatti l’esigenza di celere e sicuro reclutamento, che sarebbe stata compromessa da una clausola come quella in discussione.
Sulla scelta del candidato si esprime poi l’art. 48 CPO (rubricato «azioni positive nelle PA»), per il quale «in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l’eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un’esplicita ed adeguata motivazione». La sanzione è il divieto di successive assunzioni per la P.A., mentre non appare configurabile l’invalidità dell’assunzione del candidato uomo. Sembra si tratti però di una norma scarsamente efficace, non tanto perché by-passabile attraverso la predisposizione di criteri di selezione che favoriscono gli uomini (cosa che non può avvenire, dovendosi applicare l’art. 25, comma 2, CPO sulla discriminazione indiretta) quanto piuttosto per i margini di discrezionalità che connotano inevitabilmente la valutazione delle candidature. Ed infatti la giurisprudenza accetta senza troppi dilemmi l’idea che i giudici debbano limitarsi a rilevare eventuali vizi di legittimità della procedura .

5. La parità di accesso nella stagione del PNRR

Anche nel corso della più recente stagione della disciplina delle procedure di accesso alla P.A. si è tornati ad insistere sulle pari opportunità di genere, sia pure in modo non del tutto limpido o comunque senza particolari innovazioni, come sarebbe invece necessario per risolvere alcuni problemi ormai “incancreniti”, in primis la nota difficoltà per le donne di fare carriera. Questo giudizio, riferito ad alcune delle disposizioni di legge che subito si esamineranno, risulta in realtà in parte mitigato da quanto si dirà alla fine del contributo, con riferimento alle recentissime Linee Guida del 6 ottobre 2022.
Una prima disposizione in argomento è l’art. 17-quater del c.d. decreto reclutamento , intitolato «Principio di parità di genere», il quale prevede che «il piano di reclutamento di personale a tempo determinato, il conferimento di incarichi di collaborazione da parte delle P.A., le assunzioni, mediante contratto di apprendistato, le mobilità e le progressioni di carriera, nonché tutte le altre modalità di assunzione, escluse quelle per concorso, di cui al presente decreto sono attuati assicurando criteri orientati al raggiungimento di un’effettiva parità di genere, secondo quanto disposto dal PNRR». Lascia un po’ perplessi l’esclusione delle procedure concorsuali dall’ambito di applicazione della norma, posto che la disposizione, per come è costruita, non prevede certo l’introduzione di un vero e proprio sistema di “quote rosa” e cioè l’attribuzione necessaria di una parte (ipoteticamente la metà) degli incarichi e/o dei posti di lavoro al genere femminile. Essa parla infatti abbastanza genericamente di “criteri” orientati alla realizzazione della parità di genere in modo effettivo, riecheggiando quindi quanto già previsto dal citato art. 25 CPO sulla discriminazione indiretta. Se tale lettura è corretta, non si vede perché non si possa imporre l’adozione di criteri di questo tipo anche nelle procedure concorsuali vere e proprie.
Sempre all’interno del decreto reclutamento vi è poi l’art. 1, comma 8, che, nel contesto di un insieme di regole che introducono modalità speciali per il reclutamento del personale e il conferimento di incarichi professionali per l’attuazione del PNRR da parte delle P.A. - premesso che il decreto ministeriale di cui al comma 6 del medesimo articolo deve valorizzare le documentate esperienze professionali maturate, nonché il possesso di titoli di specializzazione ulteriori rispetto a quelli abilitanti all’esercizio della professione - impone alle amministrazioni, sulla base delle professionalità che necessitano di acquisire, di invitare almeno quattro professionisti o esperti, e «comunque in numero tale da assicurare la parità di genere», tra quelli iscritti nel relativo elenco, per sottoporli ad un colloquio selettivo per il conferimento degli incarichi di collaborazione. Si tratta di una norma a prima vista assai rigida, laddove richiede il rispetto della parità di genere in una fase che potremmo definire pre-selettiva, ma che forse non può essere letta nel senso che si debba sempre chiamare a colloquio un identico numero di professionisti dei due sessi.
Meno stringenti della previsione di cui all’art. 57, co. 1, lett. a), TUPI (che, come si è visto, introduce una quota femminile obbligatoria nelle commissioni di concorso) appaiono invece un paio di ulteriori disposizioni. Si tratta, da un lato, del comma 12 dell’art. 1 del decreto reclutamento, per il quale, fermo restando quanto previsto dall’art 57, «le commissioni esaminatrici delle procedure di cui al presente articolo sono composte nel rispetto del principio della parità di genere», dall’altro lato, di una disposizione contenuta nel c.d. “decreto PNRR 2”, e cioè il d.l. 30 aprile 2022, n. 36 . L’art. 2, comma 7, di tale decreto prevede che a decorrere dal 1° novembre 2022 i componenti delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici sono individuati nel rispetto dei principi della parità di genere, attraverso il Portale unico del reclutamento di cui all’art. 35-ter del TUPI. Qui però probabilmente il legislatore intendeva mettere l’accento non tanto sul tipo di regola di parità che deve operare (che resta pertanto quella dell’art. 57 TUPI), quanto sul necessario ricorso al nuovo strumento del Portale del reclutamento.
La veloce rassegna delle regole della più recente stagione si chiude con il riferimento all’art. 5 del decreto PNRR 2, intitolato ambiziosamente «rafforzamento dell’impegno a favore dell’equilibrio di genere» . Esso prevede che, al fine di dare effettiva applicazione al principio della parità di genere nell’organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, le amministrazioni adottano misure che attribuiscano vantaggi specifici ovvero evitino o compensino svantaggi nelle carriere al genere meno rappresentato . I criteri (testualmente e malamente definiti come) di “discriminazione positiva” devono essere proporzionati allo scopo da perseguire ed adottati a parità di qualifica da ricoprire e di punteggio conseguito nelle prove concorsuali. Al fine di fornire più precise indicazioni ai diversi enti su tali misure e su tali criteri, il 6 ottobre 2022 il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Dipartimento per le pari opportunità, ha emanato specifiche Linee guida.
Prima di analizzarne qualche passaggio appare opportuno tuttavia completare il discorso in precedenza iniziato, con alcune riflessione sugli ostacoli che le dipendenti pubbliche incontrano nel fare carriera. Si potrà in tal modo capire meglio se il recente (ennesimo) documento programmatico di provenienza governativa individui delle strategie nuove ed (almeno potenzialmente) efficaci nella direzione del superamento di tale annoso problema.

6. La difficoltà per le donne di fare carriera dentro la P.A.: nuove soluzioni tecniche all’orizzonte?

Riprendendo, dunque, il discorso sulla ridotta presenza delle donne nelle posizioni di vertice o, più in generale, sulla difficoltà di fare carriera una volta che si è dentro la P.A., si può evidenziare innanzi tutto come, operando tradizionalmente il principio concorsuale anche per le progressioni verticali, la disciplina sull’accesso dovrebbe gettare il suo ombrello protettivo anche su questa fase del rapporto di lavoro. Alcuni recenti sviluppi della normativa fanno però dubitare che sia ancora così. Ci si riferisce alle nuove regole sulle progressioni di carriera, che hanno sconfessato (dapprima in modo temporaneo , ma poi, con il “decreto reclutamento” , a regime) il dogma del ricorso al meccanismo del concorso pubblico, consentendo che le progressioni tra le aree (fatta salva una riserva di almeno il 50% delle posizioni disponibili, che restano destinate all’accesso dall’esterno) avvengano tramite procedura comparativa, basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni di servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli e competenze professionali ovvero di titoli di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso dall’esterno, sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti. Ci si domanda pertanto in che misura questo cambiamento possa incidere sulle opportunità delle donne di fare carriera all’interno della P.A. Il sospetto è tuttavia che la rinuncia all’imparzialità garantita dal concorso pubblico nella sua versione “pura”, a favore di un sistema nel quale entrano tante dinamiche e variabili interne all’ufficio, non possa che pregiudicare il genere femminile.
Ed invero quanto rilevato in precedenza a proposito delle donne dirigenti o in posizioni apicali fa capire come diverse si rivelino per le donne le chances di accedere a questi ruoli a seconda che l’accesso avvenga direttamente dall’esterno (come avviene in magistratura o nella carriera prefettizia, dove le donne sono ormai il 38%) oppure si tratti di posizioni cui si accede dall’interno, attraverso una vera e propria “carriera”. In questo secondo caso infatti molteplici fattori frenano la stessa domanda di progressioni proveniente dal genere femminile, penalizzato e scoraggiato e quindi spesso rinunciatario in partenza .
Non dovrebbe, per la verità, rappresentare una remora (ma forse anzi un incentivo) alla partecipazione a procedure destinate a concludersi con avanzamenti di posizione nell’ente pubblico il fatto che tra i criteri di individuazione dei soggetti più meritevoli ci sia la valutazione della performance. Ed invero il legislatore ha avuto cura di fare a più riprese riferimento alla promozione delle pari opportunità anche in tale contesto: si veda, nel d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, quanto previsto dapprima un po’ genericamente negli artt. 3, 8 e 14, ma poi anche in modo più specifico nell’art. 9, comma 3, per il quale nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale.
Quest’ultima disposizione, forse non limpidissima, è stata oggetto di interpretazione da parte di Cass., 28 novembre 2019, n. 31137, per la quale, se normalmente – al fine di combattere l’assenteismo – nell’ambito del punteggio derivante dalla valutazione degli obiettivi comuni e dei comportamenti organizzativi che concorre a comporre il punteggio complessivo della performance del personale non dirigente , si attribuisce rilievo anche alla regolare presenza in servizio nel tempo di lavoro (in termini cognitivi, relazionali e fisici), quando ricorrono le suddette particolari ipotesi di assenza dal servizio, l’apporto individuale della/del dipendente deve essere valutato in relazione all’attività di servizio svolta ed ai risultati conseguiti e verificati, nonché sulla base della qualità e quantità della sua effettiva partecipazione ai progetti e programmi di produttività, prescindendo tuttavia dai periodi di congedo goduti. Ciò significa che devono essere considerati utili - nel senso si effettiva presenza - anche i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale.
Se questo è, sia pur sinteticamente, lo “stato dell’arte”, ci si può chiedere cosa le Linee Guida del 2022 aggiungano all’esistente ed in particolare se esse escogitino soluzioni tecniche in grado di incidere realmente sul problema denunciato.
Esse prevedono innanzi tutto che il fenomeno della parità di genere nell’accesso e nelle carriere della PA debba essere adeguatamente misurato. A tal fine vanno non solo valorizzate le esperienze e gli strumenti di monitoraggio già sperimentati (come il bilancio di genere di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 150/2009 e alla Direttiva 23 maggio 2007), ma i dati sulla performance dell’ente in tema di pari opportunità ed equilibrio di genere devono essere inseriti nell’ambito del PIAO, e cioè il Piano Integrato di Attività e Organizzazione, che costituisce, secondo quanto previsto dall’art. 6 del decreto reclutamento, il documento unico di programmazione e governance delle P.A. ed integra anche il Piano delle Azioni Positive .
Le Linee Guida insistono sull’importanza di accrescere la sensibilità sulla cultura manageriale di genere, diffondere la cultura della leadership al femminile, disciplinare le forme di lavoro agile in chiave non discriminatoria. Uno specifico paragrafo è poi dedicato alla promozione di uno sviluppo gender balanced delle carriere e della crescita professionale dei dipendenti, dal quale emerge che è necessario far passare l’idea per cui il ricorso alla flessibilità organizzativa e agli istituti di conciliazione vita-lavoro va promosso anche tra il personale apicale.
Quello che tuttavia qui più interessa sono, come si diceva, alcune soluzioni tecniche che interferiscono in modo più diretto con il meccanismo selettivo che (pur con le modifiche di cui si è detto) continua a presiedere le progressioni economiche e di carriera. Fra queste soluzioni vi sono quelle di cui al par. 6.2 delle Linee Guida, che sono pensate proprio per assicurare una più ampia partecipazione delle donne ai bandi di concorso per l’accesso ai ruoli dirigenziali o alle posizioni di maggiore responsabilità. Oltre a dover monitorare il fenomeno, ancora una volta attraverso adeguate misurazioni, per verificare se vi è effettivamente una scarsa attrattività delle posizioni di vertice, le amministrazioni sono sollecitate a intervenire proprio sui bandi di cui sopra, corredandoli con specifiche informazioni sulle misure che l’ente adotta per favorire l’inclusione delle lavoratrici in ruoli di responsabilità . Si forniscono poi alle amministrazioni alcune indicazioni su come costruire bandi che non riproducano le discriminazioni di genere, evitando in particolare quei bias di genere che sono spesso nascosti nelle modalità di selezione del personale. Ad esempio, fra i diversi suggerimenti vi è quello di vagliare accuratamente il linguaggio utilizzato nella descrizione del profilo e delle mansioni ad esso ricondotte, dotandosi di formulari da far validare al CUG.
Per quanto riguarda poi la garanzia che le commissioni esaminatrici siano attente alla parità di genere, si va oltre l’applicazione della nota regola di cui all’art. 57, co. 1, lett. a), TUPI, invitando, tra l’altro, le P.A. a curare la loro composizione, a tal fine valutando come criterio preferenziale il possesso di una specifica formazione sulle tematiche dell’inclusione e del diversity management o, ancora, formando preventivamente il personale addetto al reclutamento sulle tematiche di genere.
In conclusione si può dire che non manca nelle recenti Linee Guida una certa inventiva nel ricercare soluzioni operative destinate ad incidere direttamente sulle procedure selettive. Tali soluzioni, al momento di soft law, potrebbero anche, magari dopo un adeguato periodo di sperimentazione, tradursi in veri e propri precetti vincolanti, allo scopo di ridimensionare gli ampi margini di discrezionalità valutativa delle commissioni che, come si è visto, continuano a pregiudicare le carriere delle donne.

 

 

 

 

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