Testo integrale con note e bibliografia

A partire dagli anni settanta, la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha evidenziato importanti differenze tra il lavoro maschile e il lavoro femminile, anche a parità di mansione o settore lavorativo.

Queste differenze, unite a problematiche di natura socio-economica, sono analizzate dalle principali istituzioni europee e mondiali che si occupano di disuguaglianze di genere.

L'Unione Europea, negli ultimi decenni, ha promulgato disposizioni volte a favorire l'eguaglianza di genere nei settori riguardanti l'occupazione, ponendo particolare attenzione alle norme che regolano la sicurezza sui luoghi di lavoro.

In Italia, in recepimento delle normative europee, sono stati emanati diversi atti normativi relativi al mondo del lavoro, poi integrati nelle due principali leggi sulla sicurezza sul lavoro: il Decreto Legislativo 626 del 1994, seguito dal Decreto Legislativo 81 del 2008.

Il D.Lgs. 626/94 ha il merito di aver integrato le precedenti leggi italiane, dando una forma organica e trasversale alle normative vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ma soprattutto, introduce l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di effettuare un’attenta e preliminare valutazione dei rischi per la salute presenti nelle attività produttive.

Con l’emanazione del D.Lgs. 81/08 si introduce una concezione nuova di salute e sicurezza sul lavoro, non più ”neutra”, ma in grado di considerare le “differenze di genere” in relazione alla valutazione del rischio e alla predisposizione delle misure di prevenzione.

Nella normativa viene sottolineato come la probabilità che si produca un’alterazione dello stato di salute non dipende solamente dalla natura e dall'entità dell’esposizione, ma anche dalle condizioni di reattività degli esposti.

Vengono, così, individuate delle categorie di lavoratori che potrebbero essere maggiormente suscettibili ai rischi lavorativi in base ad alcuni fattori, quali l’età, il genere, l’origine etnica, la posizione contrattuale e le disabilità.

A fronte di una legge che stabilisce, in generale, la tutela della salute nei luoghi di lavoro orientata al genere, le indicazioni richiamate nel D.Lgs. 81/2008 non sempre risultano di facile applicazione.

L’approccio di genere qui considerato prende in considerazione diversi fattori che vengono ripartiti in due gruppi, definiti “sesso” e “genere”.

Il “sesso” si riferisce alle differenze biologiche (anatomiche, ormonali e fisiologiche) che contraddistinguono l’essere maschio o femmina. Il “genere” si riferisce alla costruzione sociale della mascolinità e della femminilità, ovvero a tutti i condizionamenti socio-culturali che portano a definire ruoli lavorativi, sociali e familiari diversi per uomini e donne.

Come inserire i fattori inerenti al “sesso” e “genere” nella valutazione del rischio occupazionale? Alcune interessanti indicazioni vengono dalla medicina di genere che associa le diverse caratteristiche biologiche, maschili e femminili, agli effetti diversi osservati in lavoratori e lavoratrici, parimenti esposti ai rischi “specifici”, chimico, fisico, biologico, ergonomico, e di sovraccarico muscolo-scheletrico.

Per esempio, tra uomini e donne esistono numerose differenze nell’assorbimento, nel metabolismo e nell’eliminazione degli agenti chimici che, a parità di esposizione, possono modificare il rapporto dose/effetto, diversamente conosciuto come “soglia di esposizione”.

Ben più difficile risulta valutare il rischio occupazionale in ottica di genere per gli aspetti organizzativi e sociali - a cui non è possibile attribuire caratteristiche riconoscibili e quantizzabili di pericolo.

Un esempio in tal senso è quello relativo alla segregazione occupazionale che definisce l’occupazione non in base alle attitudini dell’individuo, bensì al genere di appartenenza.

Sebbene questa situazione si stia lentamente modificando, ancora molti settori lavorativi presentano un’occupazione prevalentemente femminile o maschile - segregazione orizzontale - e, all’interno di uno stesso settore, spesso le mansioni affidate alle donne differiscono da quelle affidate agli uomini - segregazione verticale - con le donne maggiormente presenti in occupazioni precarie, ruoli subordinati e con retribuzione inferiore a quella maschile.

Questo fenomeno, oltre ad essere socialmente iniquo, potrebbe modificare la valutazione del rischio occupazionale.

Purtroppo, ancora oggi, stereotipi sociali rallentano la consapevolezza riguardo la segregazione occupazionale, e limitano l’applicazione corretta del D.Lgs. 81/08.  

Analizziamo qualche dato sulla sicurezza sul lavoro in ottica di genere, come riportato dal Rapporto Inail – dati 2019.

Rapportando le denunce di infortunio sul lavoro al numero degli occupati di fonte Istat, nel quinquennio 2014-2019 si registra una riduzione del rischio per entrambi i generi, più accentuata nell’ultimo anno per le donne.

Si sottolinea come, nel complesso, il rischio degli uomini resti comunque più elevato di quello femminile: nel 2019 i casi denunciati ogni 1.000 lavoratori sono stati 27,7 per gli uomini e 24,2 per le donne.

I lavoratori, infatti, sono maggiormente occupati in settori più a rischio, come le costruzioni, il manifatturiero e l’agricoltura, mentre per la presenza delle lavoratrici è più marcata nelle attività dei servizi.

Da tali dati, emerge anche che il trend dei livelli di rischio è in crescita solo tra i lavoratori più giovani, probabilmente perché sono in prima linea nelle attività in cui è richiesta maggiore prestanza fisica o anche per la minore esperienza. Mentre per gli uomini il rischio è massimo nella fascia fino a 34 anni, con un tasso di incidenza infortunistica di 37,7 casi per 1.000 lavoratori, per le donne, dato significativo, risulta più elevato per le over 50, che fanno segnare un valore perfino maggiore di quello dei coetanei maschi (27,5 contro 23,9).

Per le lavoratrici adulte, inoltre, rispetto al genere maschile, si registra un aumento più significativo dell’occupazione e degli infortuni, in particolare della componente “in itinere”, nel percorso di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro.

Sempre nel 2019 sono stati denunciati 116 casi mortali che hanno riguardato le lavoratrici, quattro in più rispetto all’anno precedente.

Si conferma ancora una volta alto per le donne il rischio da circolazione stradale: un decesso su due (59), infatti, è avvenuto in itinere (contro uno su quattro per gli uomini).

Aggiungendo a questi anche gli infortuni mortali su strada avvenuti durante l’attività lavorativa, la percentuale per le donne sale al 65% (75 denunce) contro il 48% per il genere maschile (544). 

I casi mortali accertati positivamente sono stati 63, di cui 40 avvenuti durante il tragitto casa-lavoro-casa e i rimanenti 23 in occasione di lavoro (tutti nella gestione Industria e servizi).

Un altro tema affrontato dal Rapporto Inail è quello della tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici madri e dei rischi di natura organizzativa, fisica, biologica e chimica che riguardano le donne in gravidanza o sono connessi a differenze di genere, perché possono manifestarsi in forma differente negli uomini e nelle donne.

Gli effetti tossici delle sostanze chimiche che agiscono sul sistema endocrino, sugli organi sessuali e sulla riproduzione, al pari delle radiazioni ionizzanti e degli altri agenti mutageni, possono per esempio causare un aumento delle nascite premature, delle malformazioni congenite, delle malattie genetiche e degli aborti spontanei.

Alcune sostanze presenti nei luoghi di lavoro, inoltre, possono concentrarsi nel latte materno ed essere trasmesse al neonato.

Insomma, l’analisi normativa e dei dati ci mostra, con chiarezza, come la questione di genere nell’ambito della sicurezza sul lavoro sia, oggi più che mai, attuale: occorre un’attenzione particolare ed una altrettanto particolare tutela che molto spesso manca ancora in molti luoghi di lavoro.

I dati che abbiamo esaminato possono essere traslati nel mondo delle libere professioni, ovviamente con espresso riferimento a quelle tipologie di lavoro in cui è maggiore il rischio fisico connesso.

Per quanto concerne, da ultimo, un focus nell’ambito dell’Avvocatura possiamo far riferimento a qualche dato interessante emerso dal Rapporto 2019 che il Censis ha elaborato su richiesta della Cassa di categoria, Cassa Forense.

Se osserviamo la professione dal punto di vista del genere, il Rapporto fa emergere che l'avvocatura, negli ultimi dieci anni, è sempre più declinata al femminile: nel 1999 le avvocate erano appena 26.024, divenute 78.713 nel 2009 e la loro presenza è cresciuta ancora nel successivo decennio, raggiungendo le 115.991 unità, e cioè il 47,9% degli iscritti agli albi.

 

Il profilo degli iscritti agli albi e alla Cassa Forense, 2018 (v.a. e %) v.a.

 

 

% sul totale iscritti alla Cassa

Avvocati iscritti agli albi forensi

243.488

100,2

Avvocati iscritti alla Cassa Forense

243.073

100,0

Attivi

229.906

94,6

Pensionati contribuenti

13.167

5,4

Iscritti alla Cassa per 1000 abitanti

4,0

-

Uomini

126.690

52,1

Donne

116.383

47,9

       

Dunque, una professione più femminile ma in cui è molto forte il divario retributivo fra generi per tutta una serie di concause che non andiamo in questa sede ad analizzare.

I numeri raccolti da Cassa Forense ci dicono che, nel 2018, il reddito medio delle avvocate è stato di appena 23.500 euro contro i 52.777 euro dei colleghi uomini e questa minore forza economica di genere si riflette inevitabilmente sui redditi dell'intera categoria, denunciando così una irragionevole disparità che avrebbe dovuto già preoccupare quando le donne erano minoranza, nella misura in cui evidenzia una ingiustificata disuguaglianza, e che ancora di più dovrebbe allarmare adesso che le donne rappresentano davvero l'altra metà dell'Avvocatura.

Il profilo del campione degli avvocati per classe di reddito (%) Reddito netto annuo in euro

             Fino a 15.000

15.000-30.000

30.000-50.000

50.000-100.000

Oltre 100.000

Non risponde

Totale

Genere

Uomo

40,4

46,8

61,6

70,0

81,3

57,3

54,2

Donna

59,6

53,2

38,4

30,0

18,7

42,7

45,8

Area geografica dello studio

Nord-Ovest

18,8

30,1

32,6

36,4

37,7

22,6

28,7

Nord-Est

15,5

20,3

20,9

20,2

21,7

14,5

18,9

Centro

22,8

23,3

23,1

22,8

24,5

22,3

23,1

Sud e Isole

42,9

26,3

23,4

20,6

16,1

40,5

29,3

Età in anni compiuti

Meno di 40

50,5

36,1

20,0

12,8

4,5

23,3

30,7

40-49

29,6

35,0

35,1

34,2

26,3

30,0

32,6

50-64

16,3

25,3

37,9

44,2

52,0

31,7

30,2

65 e oltre

3,6

3,6

6,9

8,8

17,2

15,0

6,5

                           

Andamento del fatturato dello studio nell’ultimo anno di attività (2018) per genere e anni di esercizio della professione (%) Genere

Anni di esercizio della professione

Fatturato

Uomo

Donna

Meno di 10

da 10 a 19

da 20 a 29

30 e oltre

Totale

Aumentato

30,8

28,3

41,4

29,8

21,3

17,2

29,6

Diminuito

36,7

34,1

23,6

34,9

43,6

50,0

35,6

Rimasto invariato

32,5

37,6

34,9

35,3

35,2

32,8

34,8

Totale

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

Tale importante divario reddituale influisce, evidentemente, anche su molte componenti di salute fisica e psicologica delle professioniste: fa riflettere il dato che emerge dalla tabella sottostante, ovvero che il 26,7% delle avvocate intervistate definisce “molto critica” l’attuale condizione lavorativa.

Attuale condizione lavorativa dell’avvocato (al momento dell’intervista) per genere e area geografica (%) Genere

Area geografica

Situazione

Uomo

Donna

Nord-Ovest

Nord-Est

Centro

Sud e Isole

Totale

Molto critica

20,5

26,7

18,8

17,6

22,7

32,0

23,3

Abbastanza critica

32,2

32,2

31,9

32,0

32,5

32,3

32,2

Stabile

28,6

25,5

29,0

29,6

27,2

23,7

27,1

Positiva

16,5

14,6

17,9

18,3

16,5

11,1

15,6

Molto positiva

2,2

1,1

2,4

2,5

1,2

0,9

1,7

Totale

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0


 

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