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Il primo ostacolo da superare per infrangere quel proverbiale “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiungere la parità di diritti, è la grammatica italiana. Proprio nelle regole grammaticali, interiorizzate sin dalle scuole elementari, vi è quella che impone di concordare l’aggettivo con il nome a cui si riferisce: una rosa profumata, un tulipano profumato. Ma se i nomi hanno generi differenti, allora gli aggettivi prendono il numero maschile plurale: rose e tulipani profumati. È una regola: il genere maschile prevale sul femminile. E di ciò vi è evidenza anche nella Legge, come ad esempio la n.300/1970, lo Statuto dei lavoratori, che dovrebbe invece denominarsi Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori. D’accordo: correva l’anno 1970 ed esisteva ancora la potestà maritale, eliminata solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, ma le parole sono importanti poiché con esse definiamo e comunichiamo e sono esse il formante del comune sentire.
La formazione del femminile dei nomi professionali, oltre che attenersi alle regole della grammatica italiana, deve fare i conti con il sessismo diffuso e, se non proprio con le regole rigide, almeno con prassi e abitudini. Le donne che praticano l’attività forense sanno bene quanto sia sentita la questione inerente alla forma corretta del nome professionale. Avvocato donna, avvocata o avvocatessa? L’Accademia della Crusca riconosce che il sostantivo maschile avvocato dispone di due forme femminili: avvocata e avvocatessa. La seconda forma appartiene all’uso tradizionale. La prima, pur non essendo ancora di uso generalizzato, è perfettamente legittima (maschile -o, regolare femminile in -a) e viene adoperata, in particolare, da chiunque sia sensibile ad un uso non sessista – e, più in generale – non discriminatorio della lingua italiana.
Negli ultimi anni, il mondo del lavoro ha visto un incremento delle donne in molti settori, comprese le libere professioni, e così si sono diffuse molte forme femminili che in precedenza erano usate solo al maschile: si tratta soprattutto di termini che indicano ruoli professionali o istituzionali di prestigio, come ministra, sindaca, avvocata, chirurga, architetta, ingegnera, ecc. Non vi è dubbio che siano forme corrette sul piano grammaticale e perfettamente riconducibili alle regole di formazione delle parole, ma ancora vi è una diffusa reticenza nei confronti del loro uso, senza che vi sia alcuna ragione dal punto di vista grammaticale o più ampiamente linguistico. Non vi è dunque alcuna improprietà di linguaggio nell’appellare una donna avvocato: avvocata.
Certo, non è solo questione di nome. È per questo che A.D.G.I., Associazione Donne Giuriste Italia, nata a Milano nel 2006, continua a perseguire l'obbiettivo di contribuire all'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne.
Siamo un’Associazione che riconosce le proprie radici nella Fédération Internationale des Femmes des Carrières Juridiques, sorta nel 1928 ad iniziativa delle prime donne avvocato italiane e francesi. ADGI è ora costituita in sede nazionale con il nome di Associazione Donne Giuriste Italia.
Obbiettivo di ADGI è l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne, sia con la diffusione dei principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione e dalla Carta delle Nazioni Unite, sia con promozioni legislative. In questo particolare momento emergenziale si è avuta ancora una volta dimostrazione di come l’universo femminile abbia assunto il ruolo di protagonista. Sono le donne che si sono prese cura dei figli rimasti a casa da scuola, che hanno trovato il modo di riorganizzare le proprie giornate e quelle del resto della famiglia, costretta entro le mura domestiche, cercando di consentire a tutti di vivere in un ambiente quanto più sereno possibile. E sono le donne che per la loro duttilità e resilienza saranno le protagoniste dei cambiamenti che tutte le persone devono impegnarsi a realizzare.
Se molti sono gli obbiettivi raggiunti, numerosi sono ancora quelli da raggiungere. Perché è ben vero che la presidente del Senato, seconda carica dello Stato, è una donna, un’avvocata, Elisabetta Alberti Casellati, e sempre una donna, Marta Cartabia, siede al vertice della Corte Costituzionale, e la presidente della nostra Corte d’Appello è Marina Tavassi: tutte giuriste a cui è stata riconosciuta competenza e assegnato un ruolo di prestigio. Ma non sarà neppure scalfito quel “soffitto di cristallo” sino a quando nell’aula del Parlamento ci saranno “onorevoli” uomini che si esprimeranno insultando una ministra con termini legati alla sessualità femminile.
Molto però c’è ancora da fare. Anche per questo abbiamo il piacere di poter esprimere le nostre opinioni attraverso questa Rivista che estende lo sguardo all’Europa dei diritti. Già nel nome il nostro continente evoca la storia di una donna: la bella fanciulla rapita da Zeus.
Ed è guardando all’Europa e alle donne che stanno decidendo il futuro dell’Unione - Christine Lagarde, Angela Merkel, Ursula von der Leyen – che confidiamo si possa giungere a quell’equilibrio indispensabile per il progresso dell’umanità, dove il sapere femminile affianchi quello maschile: perché le donne non vogliono la supremazia, ma la parità.
In questo straordinario periodo di difficoltà inaspettate, lo sguardo femminile contribuisce a definire la situazione non come una guerra che porta morte e distruzione, ma come un momento di passaggio, come una camminata su una lastra di ghiaccio sottile, da fare con cautela, in leggerezza, sapendo che giungeremo sull’altra sponda con coraggio e positività.

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