Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

A breve distanza di tempo, la C.G.U.E., con la sentenza in commento, è chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla compatibilità con la normativa europea della “Ley general de la seguridad Social” spagnola, di cui appena un anno e mezzo prima aveva già evidenziato la non conformità con la direttiva 19/7 UE e con il principio di parità di trattamento tra uomo e donna in materia di sicurezza sociale e/o trattamenti previdenziali. Questa volta, però, la Corte di Giustizia dichiara un sostanziale “non luogo a procedere” rispetto al quesito di compatibilità che le era stato sottoposto dal Tribunale del Lavoro di Barcellona. Allora, infatti (sentenza del 12 dicembre 2919 resa nella causa C450/18 ), il quesito prospettava un’incompatibilità della normativa nazionale spagnola in un caso di trattamento diversificato tra uomo e donna nell’accesso al beneficio previdenziale dell’integrazione della pensione per maternità; oggi invece, il quesito è riferito ad un caso di supposta disparità di trattamento che prescinde dal genere, ravvisato cioè nell’insussistenza per una donna che accede al trattamento di pensione volontario anticipato, di quel diritto all’integrazione della pensione per maternità che la legge spagnola riconosce invece alla stessa donna in regime di pensionamento ordinario. Prospettazione impropria, questa del giudice rimettente (di cui anche quest’ultimo sembra accorgersi se propone l’applicazione del precedente C450/18 CGUE “mutatis mutandis”, per usare le sue parole), attesa la mancanza, nel caso del remittente, del presupposto necessitato per l’applicabilità della direttiva europea che è termine di riferimento della sospettata incompatibilità, e cioè la differenza di genere nel trattamento tra uomo e donna ai fini della regolamentazione del beneficio previdenziale. Non sfugge alla Corte, allora, che non sussistendo nell’ordinamento europeo in generale (e tantomeno in quello del settore specifico previdenziale) un diritto alla parità di trattamento da declinarsi in senso assoluto, cioè che prescinda da una “diversa qualità soggettiva” tipica del soggetto tutelato, che sia di volta in volta quella del malato rispetto al sano, della donna rispetto all’uomo, dello straniero rispetto al cittadino, la situazione oggetto del procedimento principale non sia tra quelle che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7; per cui la Corte, con la sentenza che si annota, deve gioco forza concludere che «la direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, non trova applicazione nel caso di una normativa nazionale che prevede, a favore delle donne che abbiano avuto almeno due figli biologici oppure adottati, un’integrazione della pensione per maternità nei casi di pensionamento all’età prevista dalla legge oppure di pensionamento anticipato per taluni motivi previsti dalla legge, ma non nel caso di pensionamento anticipato volontario dell’interessata».
Il caso
Una lavoratrice spagnola che aveva ottenuto dall’INSS (istituto di previdenza sociale spagnolo) il richiesto pensionamento anticipato, si era vista negare il beneficio dell’integrazione della pensione per maternità prevista dall’articolo 60 della L.G.S.S. (Ley General de la Seguridad Social), nonostante avesse avuto tre figli, perché tale integrazione non espressamente riferita al caso di pensionamento volontario anticipato. Sicché la lavoratrice, lamentando una illegittima disparità di trattamento rispetto alla diversa condizione della donna in pensionamento ordinario, adiva il Tribunale del Lavoro di Barcellona («Juzgado de lo Social n. 3 de Barcelona»), il quale, prendendo spunto dal pronunciamento di poco precedente dalla CGUE C-450, riguardante per l’appunto la Ley General de la Seguridad Social, rimetteva la questione alla CGUE proponendo il seguente quesito:
«Se possa considerarsi una discriminazione diretta ai sensi della direttiva 79/7 una norma come l’articolo 60.4 della Ley General de la Seguridad Social (legge generale sulla previdenza sociale) che esclude dall’integrazione per maternità le donne che vanno in pensione volontariamente rispetto a quelle che vanno anch’esse in pensione volontariamente all’età ordinaria prevista, o che vanno in pensione anticipatamente, ma a causa dell’attività lavorativa svolta nel corso della loro vita professionale, a causa [di] disabilità, o per aver lasciato il lavoro prima di accedere alla pensione di vecchiaia per cause ad esse non imputabili».
Il Giudice del Lavoro spagnolo, infatti, richiamando il pronunciamento CGUE C-450/18 del 12 dicembre 2019 - che un’ingiustificata disparità di trattamento tra uomo e donna aveva ravvisato nel medesimo beneficio previsto dalla legge spagnola a favore solo della donna e non anche dell’uomo che si trovasse nella medesima condizione - ipotizzava che “mutatis mutandis”, appunto, il principio di non discriminazione potesse applicarsi anche nei confronti di tutte le donne che si trovino nella medesima situazione, supponendo di poter ravvisare, anche nella situazione data (ovvero quello della donna che acceda al trattamento di pensione volontario anticipato anziché al trattamento di pensione ordinario) una discriminazione diretta ai sensi della direttiva 79/7/CE del Consiglio, del 19 dicembre 1978.
La decisione della Corte
La decisione adottata dalla CGUE - una sorta di “non luogo a procedere” sul quesito- appare in effetti l’unica possibile, nel momento in cui non può fare a meno di precisare che la prospettata discriminazione sarebbe consumata all’interno del medesimo genere (una donna in una data situazione rispetto ad un’altra donna in situazione diversa), mentre la direttiva europea tutela con il principio di parità di trattamento anche nel settore della previdenza sociale e dell’accesso ai trattamenti pensionistici, la diversità di genere che ne deve essere il presupposto di applicazione comparativa necessitato.
Il tema offre lo spunto per ricordare un aspetto generale dell’ordinamento europeo (come nella nostra normativa nazionale) e cioè che per sua natura la normativa antidiscriminatoria, che, per la tecnica normativa utilizzata, l’ampio ventaglio di comportamenti puniti ed i poteri oltremodo estesi affidati al giudice, è suscettibile di accordare una tutela per certi versi estensiva alle diverse situazioni, rappresentando per questo un potente strumento a disposizione dei soggetti tutelati, presuppone però, ai fini della sua applicazione, l’identificazione in una qualificazione soggettiva tipica, che sia di volta in volta, il sesso, la condizione etnica, ideologica, religiosa ecc.
In sostanza, non esiste nell’ordinamento europeo un principio di parità di trattamento in senso assoluto, cioè che prescinda da e oltrepassi una data condizione soggettiva: lo ricorda anche la sentenza annotata quando afferma che «l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7 non può essere inteso come una disposizione del diritto dell’Unione che garantisce la parità di trattamento in senso lato, vale a dire anche tra persone appartenenti allo stesso sesso. Al contrario, la nozione di “discriminazione diretta fondata sul sesso” considerata da tale disposizione implica una situazione nella quale taluni lavoratori siano trattati meno favorevolmente a motivo della loro appartenenza al sesso maschile o femminile rispetto ad altri lavoratori del sesso opposto in una situazione analoga».
Tale aspetto peraltro emerge anche dal giudizio valutativo imposto al giudice dalla normativa antidiscriminatoria, che si basa cioè sulla tecnica della verifica operata sul terzo di comparazione (cioè sulla verifica del trattamento o della condotta, in rapporto ai non appartenenti al genere o rispondenti alla qualità tutelati) il quale ultimo presuppone appunto una diversità di condizione o di status tra i soggetti comparati .
Aggiunge, per completezza, la sentenza annotata, che, siccome l’articolo 1, in combinato disposto con i considerando primo e secondo, in una lettura sistematica, enfatizza la finalità perseguita dalla direttiva, ovverosia la graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, ne discende che «la convenzione di scrittura definita all’articolo 1 di tale direttiva attesta che l’espressione «principio della parità di trattamento», utilizzata nel resto della direttiva, deve essere intesa come riferita in modo sintetico al “principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale”».
In definitiva, dunque, la Corte di Giustizia, lungi dal discostarsi, oggi, dal proprio fresco precedente nella causa C450/18 - che l’esistenza di una discriminazione fondata sul sesso aveva invece ravvisato nella legge spagnola - può in questo caso concludere, invece, “rigettando” l’assunto di cui al quesito propostole.
Il precedente C.G.U.E. nella causa C450/18
Come ricordato, la sentenza C.G.U.E. resa a dicembre 2019 nella causa C-450/18, riguardante la medesima legge spagnola ed il suo potenziale conflitto con la medesima direttiva n. 79/7, aveva confermato il sospetto conflitto normativo ravvisato dal giudice nazionale, esprimendosi così: «La direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede il diritto a un'integrazione della pensione per le donne che abbiano avuto almeno due figli biologici o adottati e siano titolari, nell'ambito di un regime del sistema di previdenza sociale nazionale, di pensioni contributive di invalidità permanente, mentre gli uomini che si trovano in una situazione identica non hanno diritto a una siffatta integrazione della pensione».
In quel caso, un lavoratore maschio, padre di due figli e beneficiario di una pensione di invalidità permanente, aveva lamentato il mancato riconoscimento del trattamento di integrazione previsto invece dallo stesso art. 60 del LGSS alle lavoratrici donne in situazione analoga, senza che possa essere rilevante, a fondamento della disparità di trattamento, un diverso apporto allo sviluppo demografico e alla politica sociale della lavoratrice donna rispetto a quello del lavoratore maschio.
E’ interessante notare, a margine, che in quel giudizio, lo stato spagnolo aveva tentato di salvare la compatibilità con l’ordinamento europeo del diverso trattamento pensionistico per uomini e donne, affermando che l’integrazione alla pensione, solo per le donne che avessero messo al mondo almeno 2 figli, andava a compensare un trattamento pensionistico che emergeva dalla statistica sistematicamente inferiore, per lo sviluppo della carriera, delle donne che avevano avuto figli rispetto agli uomini in corrispondente situazione. Di qui la (rivendicata dalla stato spagnolo) compatibilità a diritto della norma sull’integrazione solo alle donne, proprio secondo la tecnica sopra ricordata del terzo di comparazione, di una norma che serviva a compensare quanto meno in parte questo gap previdenziale e quindi incideva su “situazioni non comparabili”.
La CGUE, non ravvisando in quella avanzata dallo stato spagnolo una ragionevole motivazione per giustificare la diversità del trattamento (anche per la non riconducibilità tecnica del dato statistico sulle pensioni al fatto della maternità), conclude invece per la incompatibilità della norma nazionale con la direttiva europea . La direttiva europea in questione ha «una forte valenza politica e sociale in quanto attuativa del principio di parità di trattamento che è elemento costitutivo e sostanziale della cittadinanza europea» , all’art. 4, par. 1, vieta «qualsiasi discriminazione (...) fondata sul sesso, (...) mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, (...) per quanto riguarda (...) il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni (...)»: ed allora, mentre la specifica disciplina sulla maternità non costituisce presupposto di alcun trattamento discriminatorio perché situazione non comparabile e, come tale, coperta dall'ipotesi di deroga prevista all'art. 4, par. 2, della direttiva, la diversa ipotesi prevista dall'art. 7, par. 1, lett. b., della stessa, impiega la formula «persone» per includere - a prescindere dal genere - coloro che abbiano provveduto all'educazione dei figli, posto che di questo diritto-dovere sono egualmente soggetti rilevanti sia il padre che la madre. La genitorialità, quindi, con i relativi bisogni (es. servizi di asili nido; riduzione orario di lavoro) e svantaggi è comparabile poiché è una qualità che prescinde dal sesso.
Vi è dunque, nel precedente richiamato, la differenziazione tra trattamento diverso e più favorevole - ma comparativamente giustificato dall’esistenza di una condizione di diversità biologica - e disparità di trattamento, non consentita perché non giustificata da alcuna diversità comparativa. Nel primo caso rientra la maternità, condizione particolare che trova la sua ragione d’essere nella diversità biologica della donna rispetto all’uomo, giustificando quindi la previsione di un trattamento a sua volta di favore per le donne (in effetti espressamente evidenziato nella direttiva); non così la genitorialità (a cui l’art. 60 LLSS spagnola deve essere riferita) che, lungi dal ricollegarsi ad una diversità biologica della donna, coinvolge invece ed indifferentemente uomini e donne e quindi non tollera una diversificazione del trattamento pensionistico sottostante che ad esso intenda ricondursi, in ossequio al principio di parità comparativa tra i due sessi.
Il principio seguito dalla normativa antidiscriminatoria, fondato sulla comparabilità delle situazioni, appare peraltro in linea con l’accezione filosofica della parità di trattamento che non significa né lessicalmente, né tantomeno giuridicamente, riconoscimento egualitaristico del trattamento, indifferentemente dalle diverse condizioni, quanto piuttosto il principio aristotelico di “eguaglianza distributiva”, con riconoscimento di trattamenti proporzionali e proporzionati solo per situazioni comparabili . Rapporto di proporzionalità che dunque esprime la tecnica di valutazione del terzo di comparazione, che impone di considerare solo le situazioni rapportabili a quella considerata.
Lo conferma anche la sentenza oggi in commento, secondo cui la nozione di «discriminazione diretta fondata sul sesso», considerata dall’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CE, include qualsiasi situazione nella quale una persona sia trattata meno favorevolmente a motivo del suo sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (punto 34 richiamato anche dalla sentenza annotata); ma lo afferma anche la costante giurisprudenza della CGUE, secondo cui, proprio in ossequio al principio della giustizia distributiva, sussiste una discriminazione non solo quando si applicano norme diverse a situazioni comparabili, ma anche quando si applica la stessa norma a situazioni diverse .
Peraltro -e qui si esce dal portato filosofico del concetto paritario per entrare invece nella specificità dell’armamentario ordinamentale sulla parità- la sentenza CGUE non tralascia di ricordare che -secondo la sua stessa giurisprudenza- il requisito della comparabilità delle situazioni non richiede che esse siano proprio identiche, ma soltanto che siano simili ; e, ancora, impone che la comparabilità delle situazioni sia valutata non in astratto, ma in concreto alla luce di tutti gli elementi che caratterizzano la fattispecie, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi, nonché, eventualmente, dei principi e degli obiettivi del settore cui tale normativa nazionale appartiene .
Applicando questi principi, la sentenza CGUE del 12 dicembre 2019, sulla premessa che l’apporto demografico degli uomini alla previdenza sociale è necessario quanto quello delle donne, conclude pertanto che gli uomini e le donne si trovino lì in una situazione comparabile per quanto riguarda la concessione dell’integrazione della pensione di cui trattasi. Da qui, l’incompatibilità con l’ordinamento europeo della norma nazionale che esclude gli uomini dal trattamento dell’integrazione alla pensione per il contributo demografico apportato con la genitorialità minima necessaria dei due figli.
Parità di trattamento fra i sessi e legittime deroghe.
Premesso, quindi, che ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7, il principio della parità di trattamento non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna a motivo della maternità, la giurisprudenza della Corte va confermando la riserva, a favore degli Stati membri, del diritto di mantenere in vigore o di istituire norme destinate ad assicurare tale protezione, garantendo un trattamento differenziato alla donna, a cagione della speciale condizione biologica durante e dopo la gravidanza ed a protezione della particolare relazione madre-bambino nel periodo immediatamente successivo al parto
In questo stesso senso pare utile citare anche la sentenza CGUE nella causa C. 463-19 del 18 novembre 2020 che, pronunciandosi sul diritto ad un supplemento di congedo per maternità per le lavoratrici madri (e non per i padri), ne ha dichiarato la compatibilità con l’ordinamento europeo (ed in particolare con la direttiva 2006/54/CE) solo se il trattamento supplementare, per come concepito dal legislatore, sia riconducibile alla condizione di gravidanza e maternità (e quindi non invece al diritto dovere del genitore verso il figlio), con accertamento che spetta al giudice nazionale verificare e che questi deve condurre «prendendo in considerazione, in particolare, le condizioni di concessione di detto congedo, le modalità e la durata del medesimo nonché il livello di protezione giuridica ad esso connesso». Lì la questione nasceva da una controversia nazionale instaurata a seguito del rifiuto da parte di Caisse primaire d'assurance maladie de la Moselle (Sindacato CFTC del personale della Cassa primaria di assicurazione malattia della Mosella) di concedere al padre di un bambino, il congedo previsto dall'articolo 46 del contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti previdenziali, dell'8 febbraio 1957 per le lavoratrici che si prendono cura in prima persona del proprio figlio.
Il pronunciamento CGUE si inserisce nel solco della stessa distinzione tra maternità e genitorialità, affermando che la differenza di trattamento tra uomini e donne è compatibile con la direttiva 2006/54 solamente se è diretta a tutelare la madre con riguardo tanto alle conseguenze della gravidanza quanto alla sua condizione di maternità, vale a dire se è intesa a garantire la protezione della condizione biologica della donna nonché delle particolari relazioni che quest'ultima ha con il proprio figlio durante il periodo successivo al parto (e non meramente la sua qualità di genitore). Altra cosa è invece l’educazione dei figli per la quale la condizione di un lavoratore di sesso maschile e quella di un lavoratore di sesso femminile sono comparabili ed equivalenti, con la conseguenza che in tale ultimo caso non possono trovare giustificazione misure intese a realizzare la protezione delle donne in qualità di genitori, se garantite solo alle donne.
Peraltro il discrimine tra donne e uomini che lavorano, in ragione della diversa e vulnerabile situazione della madre, stabilito dalla direttiva e confermato nella sua interpretazione dalla Corte di Giustizia, non esclude la legislazione di miglior favore anche a beneficio degli uomini, come è ad esempio la disciplina introdotta dal D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che, anche in applicazione dei principi basilari stabiliti dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, ha esteso al padre lavoratore la fruizione di alcuni istituti riservati originariamente alla madre lavoratrice, per ridistribuire equamente gli oneri genitoriali e ridurre l’effetto pregiudizievole per la donna della sua maternità.
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Da ultimo non pare inutile una riflessione incidentale sui poteri ed i limiti del giudice nazionale nel valutare e percorrere l’istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte Europea: una volta segnalata al giudice nazionale l’esistenza di un potenziale conflitto fra diritto interno e norma europea è obbligato il giudice a rinviare la questione alla corte di giustizia? Sul punto, Cass., sez. lav., 7.8.2020 n. 16855 ha ben chiarito che «non è configurabile alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale…» sicché «il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di Giustizia la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini del decidere ovvero quando ritenga di essere in presenza di acte clair». Più in generale ha affermato CGUE 245.4.2012 n. 571- «…spetta al giudice nazionale valutare sia la necessità di ottenere una pronuncia in via pregiudiziale sia la rilevanza delle questioni oggetto del rinvio». Dunque, nel caso di specie il giudice nazionale spagnolo avrebbe potuto (rectius dovuto) rilevare autonomamente l’infondatezza e l’irrilevanza della questione prospettata, stante l’inesistenza della condizione di diversità di genere tra le situazioni raffrontabili e, quindi, l’inapplicabilità al caso di specie della direttiva 79/7, senza necessità del rinvio pregiudiziale alla CGUE.

 

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