Testo integrale con note e bibliografia

1. Elementi oggettivi del fatto tipico e indici di sfruttamento.
Il momento interpretativo ed applicativo dell’art. 603-bis c.p., sul contrasto ai fenomeni dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro, offre una inedita occasione di collaborazione tra penalisti e giuslavoristi (e, verrebbe da dire, soggetti delegati allo svolgimento delle indagini su fatti di potenziale rilievo penale). In particolare, gli indici che, ai sensi del c. 3, nn. 1-4, denotano la sussistenza del fatto tipico, richiamano istituti di diritto del lavoro, destinati a condizionare la comprensione della fattispecie di reato; e da leggere, nel contempo, alla luce della struttura e della ratio della norma incriminatrice. L’impressione, che si ricava almeno da alcune pronunce in materia , è che i tratti giuslavoristici della disposizione non siano ancora sufficientemente approfonditi. Il che potrebbe dar luogo a conflitti di valori nell’ordinamento giuridico. D’altro canto, lo studioso di diritto del lavoro non può non tener conto del fatto che i concetti della propria materia vanno qui considerati pure alla stregua delle finalità repressive perseguite dal legislatore.
Il n. 1 del c. 3, concernente la retribuzione (non) corrisposta al prestatore di lavoro, è poi di particolare complessità: la sua formulazione evoca questioni centrali (e mai pienamente risolte) che attengono all’istituto retributivo, come quella sul rapporto tra i principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza. Qualche ausilio ermeneutico può forse essere offerto, oltre che ovviamente dalla ratio dell’art. 603-bis c.p., dalla sua lettura evolutiva .
La primigenia versione prevedeva tra gli indici di sfruttamento “la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Le modificazioni introdotte ex lege n. 199/2016 hanno mutato “sistematica” in “reiterata”, precisando come rilevi la “corresponsione”; hanno affiancato all’attributo “nazionali” quello di “territoriali” , così meglio tenendo conto dei settori merceologici (in particolare, agricolo, ma anche edilizio ) in cui tale livello di negoziazione assume speciale rilevanza nella fissazione dei livelli salariali; hanno poi qualificato i predetti contratti come quelli “stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale” .
Si tratta di modifiche non irrilevanti, meglio comprensibili alla luce di quelle, ulteriori, apportate alla disposizione. In particolare, di quelle che hanno reso punibile, oltre all’intermediazione, lo sfruttamento diretto della manodopera da parte del datore o comunque dell’utilizzatore ; e che hanno espunto, per la configurabilità del reato di cui al c. 1, la necessaria presenza di violenze, minacce o intimidazioni, cosicché non esulano dall’area della punibilità le ipotesi in cui non possa comunque negarsi la libera determinazione consensuale delle condizioni contrattuali di lavoro, sebbene influenzata dalla situazione socio-economica del prestatore sfruttato. Ma neppure è trascurabile – seppure non sia trattato in questo contributo – un altro elemento oggettivo del reato, non più consistente nell’approfittamento dello “stato di bisogno o di necessità”, ma di “bisogno” tout court.
L’insieme delle novità introdotte nel 2016 rende così evidente la volontà del legislatore di ampliare il novero delle condotte penalmente rilevanti, anche a fronte della deludente esperienza applicativa del primo testo della norma, inadeguato alla repressione dei fenomeni soggiacenti.
Vero è che, sebbene come detto il n. 1 sia tutt’altro che perspicuo, non ogni difficoltà ermeneutica dovrà essere dal giuslavorista drammatizzata. Infatti, secondo l’orientamento maggioritario, il n. 1 del c. 3 pone non già, a sua volta, un ulteriore elemento oggettivo della fattispecie di reato, già compiuta nel c. 1; bensì, appunto, un mero “indice” dell’esistenza del fatto. Come più commentatori hanno rilevato, gli indici rilevano sul piano probatorio, con la funzione di temperare la possibile indeterminatezza della nozione di sfruttamento e di orientare perciò l’interprete nella fase applicativa .
Altrettanto indubbio è, però, che lo stesso indice sconti profili di indeterminatezza (si pensi all’espressione di “palese” difformità ), che potrebbero perciò conferire al giudice un’ampia discrezionalità nella valutazione della sussistenza e così inficiarne l’utilità, proprio in funzione di contenimento delle incertezze sulla tassatività della disposizione penale.
Quello che al momento, alla luce della prassi giurisprudenziale, tuttavia consente probabilmente di non enfatizzare simile rischio, è constatare come, nelle fattispecie concrete, in rari casi l’indice retributivo è l’unico considerato o ricorrente al fine di rilevare lo sfruttamento del lavoro . Sebbene, come è testuale nel c. 3, potrebbe essere sufficiente un solo indice per evincere il fatto, usualmente l’aspetto del trattamento economico concorre con altri. Soprattutto, con quello di cui al n. 2, sulla “reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”. Ciò non è un caso, se solo si pensa che l’adeguatezza del trattamento retributivo si valuta anche alla luce della quantità del lavoro prestato, dunque del tempo di lavoro. Il che spiega altresì come, già in sede di indagini preliminari, ciò che normalmente importa è l’accertamento della paga oraria, più che quella corrisposta nel più ampio e usuale periodo di riferimento utilizzato nel lavoro (regolare), come ad esempio la cadenza mensile.
Ma l’aspetto economico è anche sovente correlato alla sussistenza degli indici di cui ai nn. 3 e 4: questi pure, infatti, consistono anzitutto – oltre che in violazioni di diritti fondamentali del lavoratore – in indebiti risparmi sul costo del lavoro, proprio come, evidentemente, nel caso di retribuzioni palesemente inique.
Se a tutto ciò accostiamo la necessità di prova dell’approfittamento dello stato di bisogno – e della relativa conoscenza da parte dell’imputato – è possibile ritenere scongiurato il rischio, pure paventato, di immediate ricadute penali di meri illeciti civilistici o amministrativi, come, di per sé, sono quelli soprattutto riferiti agli inadempimenti circa il trattamento economico e la disciplina dell’orario di lavoro. Qui si osserverà solo come tale approfittamento dovrà, ad esempio, essere escluso nel caso in cui la mancata corresponsione delle retribuzioni dovute sia imputabile alla significativa difficoltà economica dell’imprenditore , persino quando questa derivi da una negligente conduzione dell’attività produttiva.
Del resto, la collocazione dell’art. 603-bis tra i reati contro la personalità individuale, e l’importante trattamento sanzionatorio correlato, debbono indurre a considerare rigorosamente la sussistenza dello sfruttamento, quale lesione di beni giuridici che oltrepassi una certa soglia di offensività .
Ciò premesso, resta che in giurisprudenza la valutazione della retribuzione è centrale nel giudizio sulla fattispecie e che simile aspetto, seppure come detto sia raramente esclusivo, sia quasi sempre implicato. In effetti, non vi è bisogno di dimostrare il carattere fondamentale dell’obbligazione retributiva nel rapporto di lavoro, anche in considerazione dei principi costituzionali che la presidiano. E non sorprende, allora, che essa sia posta come primo indice del fatto tipico e perciò meriti una attenta disamina.

2. L’oggetto del n. 1 del c. 3, art. 603-bis c.p.
E’ dunque indice di sfruttamento “la reiterata corresponsione di retribuzioni” chiaramente insufficienti o sproporzionate.
La sostituzione di “sistematica” con “reiterata” amplia dunque la portata della disposizione . Mentre infatti il primo aggettivo rimanda a una condotta costante, la reiterazione potrebbe per sé integrarsi già al secondo inadempimento e, appunto, non implica nemmeno l’abitualità, che avrebbe potuto costituire un livello intermedio di gravità. Tuttavia, sempre alla stregua della predetta collocazione dell’art. 603-bis e dell’elevatezza della pena, non potrà operare alcun automatismo.
Infatti, la reiterazione offre comunque l’idea di un comportamento che si potrae nel tempo ; e, va ricordato, siamo pur sempre in presenza, non di un elemento oggettivo del fatto, ma di un indice da cui eventualmente inferire l’esistenza di una condizione di sfruttamento. Qui pure, dunque, occorrerà una valutazione ponderata e prudente di tutte le contingenze, particolarmente della presenza di ulteriori indici. Ad esempio, il ricorrere di altre gravi violazioni delle condizioni di lavoro renderà significativa anche una protrazione di cospicui inadempimenti retributivi di breve durata; viceversa, la loro evanescenza richiederà la verifica di un più sicuro lasso di tempo di infrazioni circa il trattamento economico dovuto.
L’utilizzo del termine “corresponsione”, introdotto nel 2016, richiede poi la prova delle effettive erogazioni patrimoniali, al di là delle risultanze circa gli eventuali accordi individuali. E’ infatti evidente che lo sfruttamento, come tale, inerisce alle condizioni materiali di svolgimento del rapporto di lavoro. La necessità di accertamento dei fatti concreti, del resto, si ricava anche dagli altri indici.
Non può pertanto essere decisiva, per sé sola, la prova di accordi illegittimi, nella duplice direzione: da un lato, la clausola contrattuale potrebbe nascondere, appunto, la reale condizione di sottoretribuzione del lavoratore; dall’altro, al contrario, coprire l’eventuale erogazione di corrispettivi non dichiarati ai fini fiscali e previdenziali . Perciò, in tale seconda evenienza, potrebbe non ricorrere l’indice di sfruttamento, nonostante la volontà cartolare, esclusivamente considerata, possa deporre in quel senso.
L’ultima considerazione suscita peraltro un ulteriore interrogativo. Posto che, spesso, lo sfruttamento avviene in condizioni di lavoro sommerso o irregolare , è ricorrente il mancato versamento dei contributi di previdenza sociale , ciò che notoriamente può ridondare in un danno pensionistico per il prestatore (anche per il carattere non assoluto del principio di automaticità delle prestazioni). Ci si domanda perciò se il giudice possa anche tenere conto delle evasioni od omissioni contributive. La risposta deve essere positiva, sebbene, da un punto di vista esclusivamente formale, qui non si tratti del primo indice di sfruttamento: infatti, l’obbligazione contributiva non può in alcun modo essere assimilata a quella retributiva. Semmai, l’ipotesi potrebbe essere riconducibile alle più generali “condizioni di lavoro” di cui al n. 4 . In ogni caso, come per lo più condiviso, il giudice può sempre evincere lo sfruttamento anche da circostanze diverse da quelle contemplate al c. 3 .
Il concetto di “retribuzioni” può poi intendersi in senso ampio, coerentemente, peraltro, con la nozione rilevante anche ai fini previdenziali e fiscali, come tutto ciò che sia dovuto o corrisposto in relazione al rapporto di lavoro . Del resto, lo sfruttamento, in quanto correlato allo stato di bisogno del lavoratore, dovrà accertarsi in base al complessivo trattamento economico erogato, ma tenendo conto di eventuali erogazioni in natura .
Così, non vi sono dubbi sul fatto che rileveranno non solo l’ammontare della c.d. paga base, ma anche delle restanti voci variamente denominate, come le indennità a diverso titolo dovute o corrisposte. Ancora, potranno risultare significativi i (mancati) rimborsi spese, seppure questi non siano ascrivibili al concetto di retribuzione, ma piuttosto a quello delle condizioni di lavoro.
E poiché conta il quantum del trattamento corrisposto o meno, costituiranno naturalmente indici di sfruttamento anche le detrazioni – frequenti nei casi di caporalato – operate in qualunque modo sulla retribuzione del lavoratore, al fine ad es. di remunerare il fornitore di manodopera, il somministratore di vitto, il locatore dell’alloggio, l’operatore del servizio di trasporto al luogo di lavoro .
Resta da comprendere se, adoperando il termine “retribuzioni”, il legislatore abbia voluto escludere dalla fattispecie ex art. 603-bis c.p. le ipotesi inerenti ai rapporti di lavoro non subordinato. Anche gli indici ulteriori sembrano infatti visualizzare essenzialmente il lavoro dipendente : così, in particolare, con il riferimento alla disciplina dell’orario di lavoro e con la menzione dei “metodi di sorveglianza” . La medesima fattispecie è pure evocata da alcune espressioni del c. 1: “recluta manodopera”, “utilizza, assume o impiega manodopera”. Ancora, il generale impianto della l. n. 199/2016 (il cui art. 1 ha appunto modificato l’art. 603-bis c.p.) appare riferito unicamente al lavoro alle dipendenze altrui: si pensi alle disposizioni sulla Rete del lavoro agricolo di qualità, a quelle di supporto dei lavoratori agricoli stagionali o in materia di riallineamento retributivo in agricoltura .
Del resto, sebbene lo stato di bisogno, per sé, possa inerire a qualsiasi tipo di prestatore, caporalato e sfruttamento presuppongono o, almeno, determinano una situazione di assoggettamento tipica della subordinazione .
Nondimeno, per un verso dovrà osservarsi, seppure nel contesto di una norma penale, il principio di effettività del diritto del lavoro: vale a dire, non sarà decisiva la qualificazione del rapporto offerta dalle parti, che pure potrebbe risentire della disparità di forza contrattuale. Perciò, dovrà aversi riguardo allo svolgimento concreto del rapporto, per accertarne la reale natura e svelare forme dissimulate, ad esempio, di lavoro autonomo o a titolo gratuito .
Per un altro, a ben vedere, non paiono potersi escludere dalla protezione della norma penale fattispecie equiparabili a quella della subordinazione. E’ il caso dei prestatori eterorganizzati, ai sensi dell’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, i quali sono assoggettati – integralmente o almeno di principio – alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, in quanto i tratti caratterizzanti la prestazione rendono questa meritevole della stessa tutela del lavoro dipendente tout court.
La stessa giurisprudenza non ha dubitato, infatti, di applicare le disposizioni in commento in un noto caso di caporalato digitale, involgente i ciclofattorini mediante piattaforma . Lavoratori, cioè, che nelle prevalenti pronunce, quando non ritenuti subordinati, sono considerati eterorganizzati, con applicazione delle tutele del lavoro dipendente.
Di più, l’art. 603-bis c.p. potrebbe anche estendersi ai ciclofattorini autonomi di cui al capo V-bis, introdotto nel 2019 all’interno del d.lgs. n. 81/2015: pur autonomi, appunto, è per essi prescritta una tutela retributiva ad opera di specifici accordi collettivi o, in assenza, con riguardo a contratti collettivi per settori affini o equivalenti.
E, invero, come meglio si dirà, la stessa clausola di chiusura del n. 1 del c. 3, sulla proporzionalità del compenso, sembra utile in riferimento a questa tipologia di lavoratori.

3. I punti più controversi.
E’ singolare il riferimento contenuto nel n. 1 alla retribuzione difforme dai contratti collettivi “stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale”.
L’espressione “sindacati più rappresentativi” non è perspicua: non coincide né con quella di sindacati maggiormente rappresentativi, per lungo tempo utilizzata dal legislatore, né con quella di (contratti collettivi stipulati “da” o “dai” ) “sindacati comparativamente più rappresentativi”, di più recente, ma ormai pervasivo utilizzo.
Nessun dubbio sul fatto che l’intento del legislatore del 2016 sia di evitare che lo sfruttamento del lavoro possa trovare copertura nella contrattazione collettiva “pirata” e di provenienza sindacale dubbiamente genuina . Ma la formula richiede un approfondimento anche alla luce del pilastro della libertà sindacale di cui all’art. 39, c. 1, Cost., con il possibile, legittimo pluralismo delle esperienze di contrattazione collettiva ad esso conseguenti. Senza contare, poi, che non può sempre presumersi che i trattamenti di miglior favore per i prestatori di opere siano contenuti nel contratto collettivo c.d. leader .
Il mancato riferimento alla maggiore rappresentatività comparativa non può essere obliterato dall’interprete , tanto è significativo – e foriero di dibattito in dottrina e nella prassi – là dove è impiegato dal legislatore. Sicché, ai fini dell’applicazione dell’art. 603-bis c.p., la retribuzione parametro da cui evincere, in negativo, l’indice di sfruttamento non dovrebbe essere necessariamente rappresentata dal contratto leader. Sono fatte salve le ipotesi – però crescenti – in cui il trattamento economico, cui il datore è astretto, è esattamente quello dettato dai patti collettivi qualificati, come per il settore cooperativo , i lavoratori in distacco transnazionale per una prestazione di servizi , le prestazioni di lavoro nel Terzo Settore , i lavoratori eterorganizzati con applicazione di uno specifico accordo sindacale , i riders autonomi . Non è un caso: in questi settori il rischio di sfruttamento del lavoro è statisticamente non remoto e, perciò, il legislatore ha inteso offrire una più solida garanzia del diritto alla retribuzione, parametrata, appunto, non a qualsivoglia contratto collettivo, ma a quello principale nella categoria.
Occorre allora domandarsi quali, in concreto, debbano essere i contratti collettivi di riferimento al fine di riscontrare l’eventuale inadeguatezza del compenso erogato, penalmente rilevante. Si tratta di una individuazione non semplice, rimessa in primis ai soggetti che svolgono le indagini. Contrariamente al solito, il legislatore non menziona qui la contrattazione “di categoria”. Forse è la conseguenza, come detto, della stessa mancata menzione della rappresentatività comparativa, che appunto nella categoria andrebbe misurata.
Qui, comunque, soccorre la pluridecennale elaborazione giurisprudenziale sul reperimento del contratto collettivo parametro per l’applicazione dei principi in materia retributiva ex art. 36 Cost. Che si voglia o meno evocare l’art. 2070 c.c., il testo pattizio cui rivolgere l’attenzione non potrà che essere quello che contempla un ambito oggettivo comprensivo dell’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore . In caso di attività promiscue, si dovrà prescegliere il contratto collettivo relativo all’attività prevalente, se riscontrabile. Per attività distinte e autonome, si avrà riguardo al ramo in considerazione nel caso concreto.
Il punto di partenza dovrà pertanto essere costituito dall’oggetto dell’impresa, per risalire al contratto collettivo – meglio, alla possibile pluralità di contratti collettivi – per il settore. La ricerca è oggi peraltro agevolata dalla banca dati dei contratti del Cnel, in cui a ciascun testo sono associati i codici Ateco, per una più facile ascrizione dell’attività imprenditoriale a uno o (più sovente) più patti collettivi.
Si terrà anche conto, a tal proposito, del fatto che le relazioni contrattuali conducono spesso alla distinzione di discipline tra grandi e piccole e medie imprese; tra settori industriali e artigiani; tra settori for profit, cooperative e Terzo Settore.
Nondimeno, non può non osservarsi una certa superficialità della giurisprudenza ex art. 603-bis c.p. sul tema: raramente infatti nelle pronunce i giudici esplicitano sulla base di quale contratto collettivo abbiano rilevato l’inadeguatezza della retribuzione , essendo frequente il mero rinvio ai “contratti collettivi vigenti” (o espressioni analoghe) .
Individuati i contratti collettivi della categoria di riferimento, il n. 1 impone di selezionare quelli (nazionali o territoriali che siano) stipulati “dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale”.
Escluso – anche per i motivi di cui infra – il ricorso al criterio della maggiore rappresentatività comparativa, occorre, come detto, rilevare la diversa formulazione pure rispetto alla più tradizionale espressione di “sindacati maggiormente rappresentativi” che, come noto, include soggetti per i quali possa dimostrarsi un consistente numero di iscritti, la partecipazione alle trattative per la stipulazione di contratti collettivi, la diffusione equilibrata sul piano geografico, il frequente intervento per la composizione delle controversie di lavoro. Come si è sempre detto, è una formula aperta, adatta a includere anche nuove organizzazioni sindacali che conseguano i predetti requisiti.
In via di prima approssimazione, comunque, si può affermare come siano “più rappresentativi” i sindacati “maggiormente rappresentativi” (come ad esempio quelli presenti nell’assemblea del Cnel): questo riconoscimento, istituzionale o derivante dalla prassi giurisprudenziale, potrà soddisfare il criterio previsto dal n. 1.
Qui la norma deve però misurarsi con il principio di libertà sindacale. Non è infatti possibile negare la validità di un contratto collettivo stipulato da sindacati anche di modesta rappresentatività, salvo che si possa dimostrare o almeno presumere la mancata genuinità sindacale delle organizzazioni stipulanti. Certo, l’applicazione di tali accordi non potrà abilitare alle risorse pubbliche o di flessibilità, che sono condizionate all’utilizzo dei contratti collettivi principali, ma non può dirsi vietata: anzi, costituisce l’esercizio di diritti di libertà sindacale e contrattuale.
Non potrebbe pertanto integrare un indice di reato il ricorso a tali patti : ne va, come detto, del principio ex art. 39, c. 1, Cost. e della coerenza dell’ordinamento. Inoltre, applicando validi contratti collettivi, per quanto possano prevedere retribuzioni socialmente non adeguate, il datore sarebbe ragionevolmente convinto di esercitare una propria prerogativa, sicché sarebbe difficile configurare il dolo in relazione allo sfruttamento.
A ciò si aggiunga che, nel settore privato, difetta a tutt’oggi una anagrafe della rappresentatività , che consenta una certa conoscenza della consistenza delle organizzazioni sindacali. E’ ben vero che per la quasi totalità dei settori – grazie alle rilevazioni del Cnel, ora anche in base al codice alfanumerico dei contratti collettivi, legalmente prescritto – disponiamo del dato di diffusione dei contratti collettivi . Ciò, tuttavia, pur essendo utile al fine di applicare gli istituti che presuppongono la maggiore rappresentatività comparativa, non può dirsi sostitutivo della necessaria ponderazione del dato degli iscritti (ed eventualmente del consenso raccolto in occasione delle elezioni delle Rsu).
In sostanza, si può escludere l’idoneità del parametro retributivo, al fine di scongiurare la rilevazione dell’indice di cui al n. 1, nel solo caso in cui il datore applichi un trattamento palesemente iniquo alla stregua di un contratto collettivo stipulato da sindacati di comodo, ex art. 17, l. n. 300/1970, o comunque da soggetti di dubbia natura sindacale. Tali contratti potranno infatti considerarsi invalidi o inesistenti e, dunque, i relativi parametri retributivi non considerabili.
Certo, individuarli non è operazione semplice. Si tratta di constatare come simili organismi siano strutturati , se vantino una certa anzianità nel settore, se il contratto collettivo sia effettivamente preceduto da una fase di trattative che denoti una reale dialettica sindacale, se l’operato negoziale sia confrontato con la base degli iscritti, la qualità dei contenuti del contratto collettivo , ecc.
In definitiva, di norma il livello ultimo retributivo da considerare, per escludere la ricorrenza dell’indice n. 1, sarà quello di cui al contratto collettivo, che detti le condizioni economiche deteriori per i lavoratori, stipulato tuttavia da sindacati genuini.
Ciò, però, non significa che il peso rappresentativo delle organizzazioni non assuma alcuna rilevanza, altrimenti si renderebbe priva di senso la disposizione. Da un lato, il grado di discostamento dalle retribuzioni pattizie (la “palese difformità”) sarà diversamente tollerato in ragione della rappresentatività delle organizzazioni stipulanti. Dall’altro, la dubbia genuinità sindacale, quando non possa essere ragionevolmente acclarata, potrebbe tuttavia corroborare – sempre che ovviamente la retribuzione corrisposta, in ragione dei rispettivi contratti collettivi, sia considerabile inadeguata – la sussistenza dello sfruttamento, alla luce di una globale valutazione degli altri indici eventualmente sussistenti in concreto.

4. Quando la retribuzione è “palesemente difforme”?
Tentato così di individuare il parametro collettivo utile, occorre comprendere quando la corresponsione sia “palesemente difforme”. Non sembra potersi dubitare, anzitutto, che il carattere palese attenga, non all’evidenza della prova, ma al quantum erogato : altrimenti, vi sarebbe il paradosso di mandare esenti i casi in cui la dimostrazione del trattamento insufficiente consegua ad un complesso accertamento dei fatti.
Non è strano che il legislatore non abbia meglio quantificato il discostamento penalmente rilevante: qualunque soglia sarebbe stata inadeguata a fronte della varietà e delle specificità di ogni singolo caso. Inoltre, conta sembra ribadire come il n. 1 costituisca un mero indice probatorio, sottoposto al vaglio giudiziale insieme agli ulteriori indici eventualmente sussistenti.
D’altro canto, l’interprete è inevitabilmente portato a interrogarsi se i dati ordinamentali offrano qualche criterio orientativo, per un più sicuro utilizzo dell’indice. E, qui, ci si trova dinanzi a un dilemma ben noto ai giuslavoristi.
L’art. 603-bis c.p. richiama in sostanza, mediante il rinvio alla contrattazione collettiva, sia il criterio della retribuzione sufficiente , sia quello – espressamente – della (mancata) proporzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Come noto, nella giurisprudenza ex art. 36 Cost., il primo si è sempre ritenuto assorbito dal secondo: la retribuzione proporzionata – secondo le quantificazioni operate dai contratti collettivi in considerazione dei livelli di inquadramento dei prestatori – anche si presume sufficiente, perché posta da soggetti stipulanti per conto delle categorie rappresentate.
In fondo, simile rapporto parrebbe qui confermato. La clausola di proporzionalità chiude la disposizione (con l’espressione “o comunque”), per cui – si potrebbe dire, parafrasando – l’insufficienza è assorbita dalla sproporzione. Correlativamente, per le ragioni dette, il trattamento conforme a contratti collettivi genuini non potrà dirsi sproporzionato ai fini della norma penale.
Semmai, la complicazione deriva da una discrasia: mentre per la giurisprudenza la retribuzione costituzionalmente conforme è quella corrispondente al solo minimo tabellare – con l’eccezione dei casi, come il settore cooperativo, in cui coincide con l’integrale trattamento retributivo del contratto leader – il n. 1 menziona più in generale le retribuzioni corrisposte in modo difforme dai contratti collettivi, con apparente implicito riferimento al complesso delle clausole retributive. Ciò, tuttavia, renderebbe per assurdo aggravata la responsabilità penale rispetto a quella civile: per evitare l’esito paradossale, dovrà allora assumersi unicamente la “paga base” come termine di comparazione. Ovviamente, il giudice dovrà anche tenere in conto le ipotesi di sospensione del lavoro con diritto alla retribuzione, ma di fatto non remunerate, come i giorni di riposo o ferie o di assenza per causa di malattia .
In effetti, le pronunce mostrano per lo più di attenersi ai minimi contrattuali, quelli, seppure senza esplicita menzione, stipulati dalle storiche, maggiori organizzazioni sindacali. Altre decisioni si spingono a considerare la mancata corresponsione di altre voci, quali indennità di lavoro straordinario, notturno, festivo o relative alle caratteristiche delle mansioni .
Ancora, posto che il giudice penale valuta il complessivo quadro indiziario, potrà far tesoro anche delle precisazioni operate dai giudici del lavoro, i quali vagliano talora l’adeguatezza del compenso pure alla luce di altre circostanze, come la zona geografica, il numero di dipendenti, la qualità dell’impresa. Con effetti dunque in bonam partem per il datore che, per queste ragioni, non abbia ragguagliato gli emolumenti – purché in misura ragionevole – alle previsioni collettive.
Viceversa, difficilmente potrà operare in sede penale la prospettiva inversa: quella, cioè, per la quale i giudici hanno talora disconosciuto la conformità costituzionale della retribuzione di un contratto collettivo, persino comparativamente più rappresentativo , considerando ad es. la soglia di povertà in una determinata zona. Fermo l’illecito civilistico, in un simile caso sarebbe probabilmente arduo sostenere l’esistenza del dolo in capo al datore, che abbia fatto affidamento su un contratto collettivo confezionato da sindacati genuini e, di più, qualificato.
Si è detto che il grado di discostamento – cioè il quantum di diminuzione tollerato – potrà variare in forza delle parti stipulanti. Usualmente, i contratti collettivi sottoscritti dagli organismi più rappresentativi contemplano condizioni più favorevoli per i rispettivi destinatari . Pertanto, una condizione di sfruttamento presupporrà qui una attenta valutazione del carattere “palesemente difforme” del compenso corrisposto .
Viceversa, il trattamento erogato in deroga, anche in piccola misura, al contratto deteriore e magari concluso da sindacati di dubbia rappresentatività, potrebbe ipso facto integrare il primo indice di sfruttamento.
Probabilmente, stabilire una misura di valutazione oggettiva più precisa non è possibile . L’idea di ricorrere ad esempio alla soglia limite del 50% rispetto al minimale retributivo giornaliero, individuata dal legislatore per i contratti di riallineamento retributivo , oltre che contenuta in una disciplina superata , non è detto che potrebbe attagliarsi ai casi ex art. 603-bis c.p. Quell’esperienza, infatti, concerneva pur sempre vicende di emersione volontaria (e così incentivata) dal lavoro irregolare, perciò accompagnata da specifiche previsioni collettive di favore per il datore.
Né sembrerebbe pertinente ipotizzare una soglia limite corrispondente a quella di povertà, magari meglio articolata su base territoriale secondo le risultanze statistiche: oltre a risultare probabilmente troppo penalizzante per i lavoratori, condurrebbe ad obliterare la proporzionalità del trattamento. Infatti, lo sfruttamento è pur sempre da valutare, nel caso concreto, in base alle mansioni svolte e dunque al loro diverso valore: il rinvio ai contratti collettivi non può non intendersi anche alle relative scale retributive .
Resta di dubbia utilità la clausola di chiusura sulla mancata proporzionalità, per la quale, tra l’altro, non si comprende se qui pure debba ricorrere il carattere “palesemente difforme”. In altri termini, non è chiaro se quest’ultima espressione sorregga anche la parte di disposizione del n. 1 che segue alla virgola, o se il livello “comunque sproporzionato” rilevi in sé, senza che occorra il palese discostamento.
Posto che, nella struttura della stessa disposizione, assume posizione centrale il confronto con i contratti collettivi, il carattere sproporzionato potrebbe al più rilevare per settori non coperti da contratto collettivo. Ma si tratta di ipotesi difficilmente verificabile, per la pervasiva presenza di accordi apparentemente per ogni settore . A meno di non ritenere il criterio utile per casi limitati, come quella dei riders autonomi, i quali hanno diritto a un compenso minimo anche in assenza di previsioni collettive specificamente dedicate . L’idea, invece, che l’indice di sproporzione possa valere per il lavoro coordinato e continuativo o tout court autonomo, normalmente privo di accordi collettivi e scarsamente presidiato da tutele legali inderogabili, sconta il problema, come detto, di comprendere se simili fattispecie più in generale siano passibili di sfruttamento ex art. 603-bis c.p.
Al più, potrebbe allora leggersi la clausola di chiusura in base a quanto sopra rilevato circa la diversa rilevanza della retribuzione posta dai contratti collettivi in ragione delle parti stipulanti. Quando il contratto collettivo non sia concluso da soggetti di sicura rappresentatività, e presenti tutele economiche deteriori, il trattamento peggiorativo corrisposto dal datore, seppure con lieve discostamento, potrà ritenersi (palesemente) sproporzionato, e dunque integrare il primo indice.
Ciò, fermo restando che ricorrono casi in cui il corrispettivo è talmente irrisorio da non lasciare dubbi sulla sussistenza di un eclatante sfruttamento .

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