Testo integrale con note e bibliografia

1. Le intenzioni del legislatore nelle recenti riforme.
Nella sua breve storia il diritto del lavoro è stato caratterizzato da continui cambiamenti che hanno più volte indotto la dottrina ad interrogarsi sulla portata delle riforme via via succedutesi e sulle finalità da esse perseguite, sino a tentare di valutare le modifiche dello spirito e della ratio stessa della disciplina. Le riforme degli ultimi 20 anni, in particolare, hanno acceso un dibattito mai sopito in ordine alla loro natura e matrice, all’ideologia che le permea, ai valori che esse esprimono . La formulazione di un giudizio attendibile è probabilmente prematura, soprattutto alla luce del rapsodico susseguirsi delle novità, in un contesto economico e politico in continua evoluzione. E’, peraltro, possibile tentare di valutarne l’impatto concreto, specie alla luce del contributo della giurisprudenza, il cui grado di creatività ne ha sempre condizionato e tuttora ne condiziona l’estensione ed il significato.
Prendendo le mosse dal Collegato Lavoro (l. n. 183/2010), per proseguire con la riforma Monti-Fornero (l. n. 92/2015) e ancor più con il Jobs Act (l. n. 183/2014 e conseguenti decreti delegati), non sembra revocabile in dubbio che le intenzioni, neppure troppo sottaciute, del legislatore siano state quelle di circoscrivere i limiti ai poteri del datore di lavoro e di ridurre l’ampiezza del controllo giudiziale, nel tentativo di assicurare una ben maggiore prevedibilità delle decisioni, nel contempo valorizzando l’autonomia collettiva e individuale nella determinazione delle condizioni di lavoro e persino nella gestione del rapporto di lavoro.
A tale soluzione fanno in qualche misura da contrappeso l’estensione dell’ambito di applicazione delle tutele giuslavoristiche (art. 2, d. lgs. n. 81/2015) e, da ultimo, la riduzione della flessibilità in entrata col ritorno, dopo il primo anno, alla causale giustificativa per il contratto a termine e per quello di somministrazione di lavoro a termine (d.l. n. 87/2018, convertito dalla l. n. 96/2018). Ma, soprattutto, la giurisprudenza costituzionale e quella ordinaria hanno inciso in modo significativo, come si cercherà di dimostrare nel prosieguo, neutralizzando in parte le intenzioni del legislatore.

2. La limitazione del controllo giudiziale e l’affievolimento delle tecniche di tutela.
Il tentativo del legislatore di contenere l’intervento giudiziale è evidente specie in tema di licenziamenti a partire dalla legge n. 183 del 2010, che ne ha ristretto i poteri interpretativi e di controllo .
Infatti, da un lato, ha rinviato espressamente al potere qualificatorio della contrattazione collettiva e individuale, ma lo ha fatto con una formula più tenue rispetto a quella originaria , limitandosi a prevedere che “il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione” (art. 30, comma 2), ma non ne è vincolato.
D’altro lato, ha sancito il principio secondo cui il controllo giudiziale “non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”: un principio la cui portata innovativa è stata a lungo discussa, sino a quando non ha in qualche modo inciso sulla possibilità per i giudici di sindacare le finalità ultime delle scelte imprenditoriali, ed in particolare sul risparmio dei costi o sull’incremento dei profitti, ritenute irrilevanti rispetto all’effettività delle scelte organizzative che comportano la soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato . Il tutto senza trascurare l’introduzione di un secondo termine di decadenza destinato a ridurre i tempi dell’azione in giudizio.
Ma è con la legge n. 92 del 2012 che ha inizio quel processo di affievolimento delle tecniche di tutela che ha indotto la migliore dottrina a prospettare l’avvenuto mutamento del paradigma normativo del lavoro subordinato : un processo che il d. lgs. n. 23 del 2015 ha condotto alle sue estreme conseguenze circoscrivendo l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria ai casi più gravi previsti dagli artt. 2 e 3, comma 2.
Come ben noto, l’estensione dei poteri del datore di lavoro ha trovato fertile terreno di sviluppo nel Jobs Act anche con riguardo allo ius variandi ed al potere di controllo.
In particolare il primo ha visto venir meno il limite più significativo costituito dal principio di equivalenza delle mansioni, cosicché può essere esercitato in orizzontale nell’ambito di ciascun livello di inquadramento: di conseguenza l’introduzione di limiti è rimessa alla contrattazione collettiva, cui è affidato il compito di raggiungere un punto di equilibrio tra libertà dell’impresa e dignità del lavoratore. Non solo: viene ammessa in modo più ampio rispetto al passato anche la possibilità per il datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni di livello inferiore in presenza di ragioni specie, ma non solo, di tipo organizzativo, la cui sindacabilità in sede giudiziale, nel caso di patti modificativi stipulati in sede protetta (art. 2103, comma 6, c.c.), è apparsa dubbia sin dall’inizio .
L’effettiva estensione del potere di controllo, infine, è risultata particolarmente controversa, anche se pare unanime il giudizio che ravvisa, da un lato, un evidente indebolimento della procedimentalizzazione (art. 4, comma 2, l. n. 300/1970) e, dall’altro, quale contrappeso, l’introduzione dell’obbligo per il datore di informare il prestatore di lavoro e di rispettarne la privacy (art. 4, comma 3), cosicché deve escludersi l’esistenza di una mera deregolamentazione con forte arretramento delle soglie di tutela dei lavoratori subordinati .

3. I ritardi della contrattazione collettiva.
Nel contesto sinteticamente illustrato, come anticipato, la contrattazione collettiva è stata chiamata a svolgere un ruolo tutt’altro che marginale in particolare in chiave di limitazione dello ius variandi del datore di lavoro. Tuttavia essa non ha nella sostanza inciso e si è dimostrata addirittura latitante in ordine alla modifica dei livelli di inquadramento, oltre che alla distinzione tra operai e impiegati, confermando quei sistemi di classificazione incentrati sulla qualifica convenzionale a fasce larghe (c.d. broad banding), cui fin dagli anni Ottanta aveva fatto largamente ricorso, che, alla luce della novella dell’art. 2103 c.c., lasciano un’ampiezza eccessiva ai poteri del datore di lavoro.
Ma anche in tema di licenziamento il nuovo comma 4 dell’art. 18, l. n. 300/1970 ha indirettamente conferito un ruolo rilevante alla contrattazione collettiva nella misura in cui ha circoscritto la reintegra ai casi nei quali il fatto contestato è dalla stessa punito con una sanzione conservativa: in altre parole, ha attribuito all’autonomia collettiva, al di là della tradizionale funzione qualificatoria delle fattispecie di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, anche la possibilità di contribuire all’individuazione dei meccanismi sanzionatori applicabili. Tuttavia, la riscrittura delle norme disciplinari dei contratti collettivi procede piuttosto a rilento e soltanto in alcuni accordi è stata introdotta una tipizzazione delle sanzioni conservative prima assente o è stata realizzata un’integrazione e specificazione delle previsioni già esistenti .
Quanto appena rilevato si inserisce in un contesto in cui l’autonomia collettiva si trova ad affrontare problematiche di sistema di assai difficile soluzione: la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, la definizione dei perimetri nell’ambito dei quali misurare tale rappresentatività, la proliferazione dei contratti collettivi conclusi per la medesima categoria o con ambiti di applicazione in tutto o in parte sovrapposti (rischio di dumping non solo retributivo, ma anche normativo), l’effettiva capacità del sistema contrattuale di garantire minimi salariali dignitosi, specie nei settori in cui è meno radicata la presenza delle associazioni sindacali dei lavoratori e delle organizzazioni datoriali. Districare tali nodi è tutt’altro che agevole, ma le soluzioni ai problemi concreti che si pongono ed alle vertenze, anche individuali, sollevate devono essere per forza di cose trovate .

4. La supplenza giudiziale in tema di retribuzione equa e sufficiente.
La supplenza giurisprudenziale è sempre stata inevitabile specie a fronte dell’esistenza di concetti fondamentali indeterminati, quali la giusta causa o il giustificato motivo o l’equivalenza professionale, contenuti in clausole generali o elastiche o in norme generali. Tuttavia, le lacune o la complessità della legge, di recente anche in termini di tecniche di tutela, e della contrattazione collettiva, ed i problemi sistematici che quest’ultima si trova ad affrontare rendono ancora più centrale il ruolo della giurisprudenza.
Si pone, ad esempio, in modo più drammatico rispetto al passato il problema della determinazione della retribuzione adeguata e la ben nota via giudiziale entra inevitabilmente in crisi nel momento in cui vengono meno i tradizionali punti fermi sui quali i giudici hanno fondato per decenni le proprie decisioni, ovvero in particolare la presenza, per ogni categoria, di un unico contratto collettivo sottoscritto dai sindacati più rappresentativi. Il “disorientamento” dei giudici” è assolutamente comprensibile, così come l’adozione di soluzioni diverse che tengano conto dei principi sanciti dalla Costituzione di equità e sufficienza della retribuzione, da un lato, e di libertà sindacale, dall’altro (artt. 36 e 39, comma 1).
Cosi alcune sentenze determinano la retribuzione dovuta ex art. 36 Cost. facendo direttamente riferimento ai trattamenti economici più elevati previsti dagli accordi firmati dai sindacati “storici”, considerati quelli che meglio garantiscono il rispetto di quanto previsto dalla norma costituzionale . Ciò si è verificato soprattutto nel settore della cooperazione, ove l’esistenza di una norma quale l’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, convertito dalla l. n. 31/2008, agevola e giustifica una tale soluzione. Ma ad analogo risultato si potrebbe pervenire anche negli altri settori, benché sul punto dottrina e giurisprudenza siano divise .
Peraltro, anche la maggiore rappresentatività comparata non è indice di sicura qualità dei contratti collettivi. Infatti, per difendersi dalla presenza di organizzazioni di dubbia genuinità gli stessi sindacati storici hanno firmato accordi al ribasso, con contratti collettivi che, in relazione a figure professionali analoghe o comunque assimilabili, stabiliscono trattamenti sensibilmente diversi. Anche in casi come questi la giurisprudenza ha incominciato a ritenere non adeguata la retribuzione fissata da contratti nazionali firmati da organizzazioni comparativamente più rappresentative in quanto sensibilmente inferiore al tasso-soglia di povertà assoluto individuato dall’Istat ed ai livelli retributivi previsti per posizioni professionali analoghe da altri contratti nazionali .
Alla stessa conclusione è talora pervenuta facendo leva sulla normativa contenuta nel codice degli appalti (art. 30, comma 4, d. lgs. n. 50/2016) disconoscendo l’applicazione del CCNL per le cooperative sociali sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil a favore del CCNL servizi ambientali, con riguardo alle attività di “spazzamento, raccolta, trasporto dei rifiuti urbani”, sul presupposto che esso disciplina effettivamente proprio il settore di riferimento dell’appalto .
Tuttavia, altre pronunce hanno rilevato che la misura decisamente inferiore del trattamento previsto da un contratto collettivo rispetto a quello disposto da un altro accordo non implica automaticamente contrasto con l’art. 36 Cost.: una sentenza ha rigettato il ricorso dei lavoratori nonostante la differenza consistente (27,5%) tra i contratti, in quanto “il giudice non dispone nel caso di specie di elementi sufficienti ad accertare la complessiva inadeguatezza del trattamento economico previsto dal CCNL censurato rispetto alla qualità e quantità dell’attività svolta dal ricorrente, e a superare la presunzione di conformità ai precetti costituzionali di un trattamento economico stabilito all’esito del confronto dialettico tra le parti sociali, tra cui due organizzazioni sindacali indiscutibilmente “comparativamente più rappresentative” (CGIL, CISL) proprio in relazione allo specifico settore della vigilanza privata non armata” ; in altri casi è stata sottolineata la necessità che sia specificamente allegata la violazione dei parametri dell’art. 36 Cost. , con indicazione delle circostanze di fatto utili al giudice per valutare l’adeguatezza della retribuzione e per effettuare un concreto apprezzamento anche “in relazione al complessivo trattamento previsto dalle contrattazioni collettive coinvolte e non già sulla base della semplice comparazione retributiva” . Del resto anche la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che la valutazione del giudice, “specialmente nell’ipotesi in cui la retribuzione inadeguata sia contenuta in un contratto collettivo, deve essere effettuata con la massima prudenza e adeguatamente motivata, giacché difficilmente il giudice è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” .

5. Gli interventi della giurisprudenza in tema di ius variandi e di potere di controllo.
Con riguardo ai poteri del datore di lavoro, sui quali, come in precedenza sottolineato, il legislatore è più incisivamente intervenuto, la giurisprudenza sembra avere un approccio non uniforme.
In tema di ius variandi, in special modo, si rivela meno creativa, nella misura in cui conferma l’interpretazione letterale dell’art. 2103 c.c., sancendo l’applicabilità del principio di equivalenza soltanto con riguardo a casi relativi a periodi del rapporto di lavoro in cui vigeva il vecchio testo della norma .
Certo non si può escludere che il sindacato giudiziale, oltre che all’esistenza di un motivo illecito (soprattutto ritorsivo) o discriminatorio, possa estendersi al rispetto delle clausole di correttezza e buona fede specie a fronte di aree professionali eccessivamente eterogenee, al di là dell’operatività dell’obbligo (rectius onere) formativo. Ma ciò non comporta certamente il recupero della nozione di equivalenza.
In tema di potere di controllo i problemi interpretativi risultano maggiori, non soltanto nell’ambito dell’impresa digitalizzata, dove il lavoratore rischia di essere sottoposto ad una sorveglianza costante, ma alla quale comunque l’art. 4, l. n. 300/1970 resta applicabile.
L’interpretazione giudiziale di tale norma ha dato luogo a qualche oscillazione, ma appare sostanzialmente equilibrata e rispettosa della ratio e della lettera della stessa.
I profili più interessanti di intervento sono soprattutto tre.
Il primo attiene ai controlli difensivi a tutela del patrimonio aziendale. Come rilevato da una parte della dottrina , la Suprema Corte ha distinto tra controlli a difesa del patrimonio aziendale riguardanti tutti i dipendenti nello svolgimento della loro prestazione di lavoro, che li pone a contatto con tale patrimonio, da effettuare nel rispetto delle previsioni dell’art. 4, e controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili, in base a concreti indizi, a singoli dipendenti, benché ciò si verifichi durante la prestazione di lavoro, che, anche se effettuati con strumenti tecnologici, si collocano anche oggi all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4 in quanto non hanno ad oggetto la normale attività del lavoratore .
Più complessa risulta la ricostruzione del concetto di “strumenti di lavoro”, al cui riguardo si fronteggiano due diversi orientamenti. Da un lato, in linea con le statuizioni del Garante per la protezione dei dati personali e dell’INL alcune sentenze di merito hanno accolto un’interpretazione restrittiva, che si giustifica con la natura derogatoria dell’art. 4, comma 2 rispetto alla regola del comma 1: è strumento di lavoro soltanto il dispositivo o il software che risulti indispensabile al lavoratore per lo svolgimento delle mansioni. Così l’uso di whatsapp - da cui si evinceva che la lavoratrice aveva criticato il datore di lavoro - è stato inquadrato nell’art. 4, comma 1, perché considerato un programma “aggiunto” allo smartphone e non caratterizzato da un “vincolo di strumentalità” rispetto alla prestazione di lavoro . Alla stessa soluzione si è pervenuti con riguardo ad un software e alla casella di posta elettronica nella misura in cui, anche se hanno funzioni lavorative, sono idonei a consentire il controllo a distanza sull’attività lavorativa . Analogamente si è ritenuta illegittima la raccolta di dati tramite il proxy di navigazione di tipo “squid” installato presso il sistema informativo aziendale, in quanto consente di tenere traccia delle informazioni inerenti alle navigazioni degli utenti della rete aziendale .
Sul lato opposto, un diverso orientamento ritiene invece che lo strumento di lavoro sia tale anche qualora si limiti a facilitare, ottimizzare e semplificare il lavoro, pur non risultando strettamente necessario all’esecuzione delle mansioni .
Comunque correttamente emerge l’idea che la valutazione debba essere effettuata caso per caso e possa condurre a soluzioni diverse con riguardo agli stessi meccanismi o applicazioni, a seconda della metodologia di utilizzazione, stante la loro poliedricità funzionale (ad es., la posta elettronica è senza dubbio uno strumento di lavoro per un amministrativo, molto meno o per niente per il custode dei locali aziendali, per il quale può assurgere a strumento di controllo).
In ogni caso la giurisprudenza è costante nel valorizzare le due condizioni che legittimano l’uso degli strumenti in grado di consentire indirettamente un controllo sull’attività dei lavoratori: l’adeguatezza dell’informazione preventiva fornita ai lavoratori ed il rispetto dei principi di necessità, proporzionalità, adeguatezza, correttezza e trasparenza, richiesti dalla normativa sulla privacy.

6. La creatività della giurisprudenza e la controriforma in tema di licenziamenti.
E’ in tema di licenziamenti che, con una buona dose di creatività, la giurisprudenza ha adottato le soluzioni più restrittive circa l’estensione dei poteri del datore di lavoro.
Nella direzione di rafforzare la tutela del posto di lavoro la Corte costituzionale e i giudici ordinari si sono reciprocamente influenzati, specie con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da un lato incrementando l’importo dell’indennità risarcitoria dovuta e, dall’altro, recuperando la tutela reale, di cui viene nuovamente esteso l’ambito di applicazione.
Proprio in ordine alle tecniche sanzionatorie, la Consulta ha posto in essere una vera e propria controriforma che rovescia la prospettiva liberista accolta dal legislatore. Ne esce un modello addirittura incoerente con gli intenti originari di quest’ultimo, tanto da potersi affermare che il mutamento del paradigma normativo operato dalle recenti riforme è decisamente inferiore a quanto inizialmente previsto.
Ciò vale soprattutto per gli assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali la reintegra viene estesa in tutti i casi di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, se si esclude quello della violazione dei criteri di scelta .
Diversamente deve argomentarsi per i lavoratori a cui si applica il d. lgs. n. 23/2015, per i quali la tutela reintegratoria resta un’assoluta eccezione operante – al di là delle ipotesi più gravi di cui all’art. 2 - nel solo caso di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, allorquando il fatto contestato non sussiste o non è disciplinarmente rilevante.
Al riguardo, peraltro, se è stato negato che sia incostituzionale la diversità di trattamenti connessa alla differente data di assunzione , non si può escludere che sia stato aperto un varco nel quale la Corte costituzionale potrebbe inserirsi per proseguire la propria opera restauratrice. In particolare la diversità di trattamento in caso di insussistenza del fatto su cui si fonda il licenziamento rispettivamente per giustificato motivo oggettivo e per giusta causa non potrebbe forse condurre ad una pronuncia demolitoria anche con riguardo all’art. 3, comma 1, d. lgs. n. 23/2015?
Del resto la più recente sentenza “monito” sull’art. 9, comma 1 relativamente al licenziamento nelle piccole imprese e limitatamente all’entità della indennità risarcitoria conferma che l’opera “riformatrice” della Consulta è tutt’altro che conclusa.
Nello stesso solco si pone la giurisprudenza ordinaria, che ha esteso la possibile applicazione della tutela reintegratoria dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, nel caso di licenziamento per ragioni soggettive. In particolare, abbandonando il proprio precedente orientamento restrittivo , la Corte di Cassazione ha ammesso la reintegra nelle ipotesi in cui l’illecito sia previsto da clausole elastiche o generali o da norme aperte, per le quali il contratto collettivo preveda una sanzione conservativa . Si tratta di una soluzione discutibile, per quanto tutt’altro che priva di argomenti a proprio favore , la quale finisce per rendere l’area della tutela reale più ampia di quella della tutela indennitaria, contrariamente a quanto voluto dal legislatore del 2012, se si considera che la maggior parte dei contratti collettivi contiene clausole di quel tipo allorquando tipizza i casi per i quali è prevista una sanzione conservativa: di conseguenza la tutela meramente indennitaria finisce per ricevere un’applicazione decisamente residuale.
Un tale allargamento della tutela reintegratoria si accentua se dalle tecniche sanzionatorie si passa a considerare le fattispecie: ciò nella misura in cui la giurisprudenza ordinaria talora adotta soluzioni restrittive in ordine alla legittimità dei licenziamenti intimati per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma è sufficiente ricordarne alcuni: il licenziamento di un dipendente, assistente responsabile nel reparto panetteria di un supermercato, che si era appropriato di bevande alcoliche e di alcuni alimenti al fine di consumarli durante l’orario di servizio, e che aveva negato inizialmente l’accaduto e poi addotto giustificazioni smentite da testimoni oculari ; il caso di un’operaia addetta a mansioni di portierato sorpresa a dormire nella sua automobile durante il turno notturno di lavoro in una zona in cui era assolutamente vietato il transito dei veicoli per motivi di sicurezza ; il licenziamento di un’addetta alle vendite rivoltasi ad un cliente in modo volgare e scortese nel periodo prenatalizio, sul presupposto che si è trattato di un episodio isolato, non notato dagli altri clienti o dai colleghi, tanto più che l’espressione utilizzata è parte del comune intercalare e la dipendente non aveva precedenti disciplinari .
Non va, inoltre, trascurato che, sebbene non in contrasto con quanto previsto dall’art. 30, comma 2, l. n. 183/2010, i giudici talora si discostano dalle previsioni contrattuali in favore dei lavoratori non rinunciando ad un’autonoma valutazione sulla idoneità di una condotta specifica a ledere irreversibilmente il vincolo fiduciario fra le parti . Al contrario, se i contratti collettivi contemplano sanzioni di tipo conservativo, non possono ritenere legittimo il licenziamento in base al principio per cui la legge è derogabile in melius dall’autonomia collettiva . Si tratta di un assetto “squilibrato”, che rischia di escludere la legittimità dei licenziamenti, il più delle volte con conseguente reintegra per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, a fronte di condotte anche eticamente censurabili.
Diversamente, come ben noto, in tema di giustificato motivo oggettivo la giurisprudenza ha in modo deciso sancito l’insindacabilità delle ragioni ultime delle scelte organizzative del datore di lavoro (in particolare la ricerca di maggior profitto) , ma non si può negare che l’ampiezza dell’onere di repêchage, esteso a mansioni o posizioni affatto eterogenee, rende tutt’altro che agevole il licenziamento nelle imprese di medio-grandi dimensioni, con conseguente diritto alla reintegra, ancora una volta per i soli lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.

7. La necessità di un nuovo intervento legislativo.
Nel contesto appena descritto appare evidente la necessità di un intervento legislativo.
Al riguardo il giudizio è ormai largamente condiviso relativamente ai problemi che affliggono il sistema sindacale e la rappresentanza. In particolare, le risposte che le parti sociali hanno cercato di elaborare autonomamente per risolvere le numerose problematiche in precedenza ricordate non sono da sole efficaci. Si impone, di conseguenza, un intervento del legislatore in grado, se non di estendere erga omnes direttamente l’efficacia dei contratti collettivi, alla luce della mancata attuazione dell’art. 39, seconda parte, Cost., quanto meno di individuare quali parametri di riferimento minimo, non solamente ai fini contributivi, e quindi al di là del settore delle cooperative, le previsioni degli accordi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Nello stesso tempo vanno rafforzati i meccanismi di rilevazione della rappresentatività, magari attraverso la mutuazione dell’apparato di regole concordato tra le parti sociali in sede interconfederale, ove pure dovrebbero essere elaborati gli indispensabili meccanismi di determinazione delle categorie contrattuali. Si impone, in definitiva, una nuova legislazione di sostegno non più soltanto dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, ma altresì della contrattazione collettiva, anche quale risposta al problema della povertà nel lavoro.
In tema di licenziamenti, invece, un intervento legislativo andrebbe particolarmente meditato e presuppone una scelta di fondo in termini sia di chiarezza e di pulizia tecnica, che di eventuale modifica sostanziale delle soluzioni applicabili, espressione di scelte politiche .
Nonostante il precedente del settore pubblico, non sembra proponibile che il legislatore intervenga sulle tecniche di controllo, salvo rendere vincolanti le previsioni dell’autonomia collettiva, in riforma dell’art. 30, comma 2, l. n. 183/2010.
Al contrario, in tema di meccanismi sanzionatori, il legislatore è tenuto a rideterminare l’importo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 9, d. lgs. n. 23/2015 dopo il “monito” della Corte costituzionale. Per identità di ratio dovrebbe farlo anche relativamente all’indennità di cui all’art. 8, l. n. 604/1966, quanto meno per i lavoratori con anzianità di servizio inferiore a 10 anni ed ai datori di lavoro che nel complesso non occupino più di 15 dipendenti, in entrambi i casi tratteggiando “criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati” .
Più in generale l’individuazione del tipo di tutela, ben più che la determinazione dell’importo dell’indennità risarcitoria, non dovrebbe essere lasciata in modo così rilevante alla giurisprudenza, garantendo alle parti un grado accettabile di prevedibilità.
Peraltro, i vincoli di sistema, che la Corte costituzionale ha tracciato restringono fortemente gli spazi di operatività del legislatore: infatti, da un lato, sul piano della tutela indennitaria, il risarcimento va determinato tenendo conto della specificità del caso concreto per l’esigenza di personalizzazione del danno subìto dal lavoratore, che deve essere “necessariamente equilibrato”, e garantire una “compensazione adeguata” ; dall’altro, vanno rispettati i principi di eguaglianza e di ragionevolezza e va evitata l’eterogeneità dei trattamenti tra i due tipi di causali . Ciò induce a ritenere che una soluzione “certa” e compatibile con i principi costituzionali sarebbe quella di prevedere sempre la reintegra per i vizi sostanziali e per quelli procedurali più gravi (quale, in particolare, il decorso di un tempo eccessivo dalla piena conoscenza del fatto al licenziamento) o, paradossalmente, al contrario, di non prevederla mai.
A seconda della soluzione adottata andrebbe finalmente determinata per legge la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti di lavoro, che ancora una volta non può essere affidata alle oscillazioni giurisprudenziali .

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