Testo integrale con note e bibliografia

1. Il passaggio dalla libertà sindacale alla stipulazione del contratto collettivo.

Mi ha fatto molto piacere l’invito a partecipare a questo dibattito, sebbene vi sia qualche aspetto singolare; infatti, mi si chiede quale impostazione dovrebbe assumere una nuova disciplina sull’efficacia soggettiva generale dei contratti nazionali, nonostante sia convinto dell’inopportunità di una sua introduzione, per la mia risoluta avversione all’attuazione dell’art. 39 cost.. Colgo l’occasione per spiegare in sintesi le motivazioni della mia idea, illustrata in modo più ampio nel mio ultimo libro . Questo contributo ne richiama alcuni contenuti.
La dialettica fra individuale e collettivo è il senso dell’attività sindacale e la sua giustificazione, in quanto “ciò che qualifica o identifica l’esperienza sindacale è l’essere per così dire, egocentrica o antropocentrica, in ordine sia ai fini sia ai mezzi: anzi, ripetesi, agli uni e agli altri insieme, e gli uni e gli altri rapportati al campo del lavoro” . Questa visione supera il concetto di rappresentanza del Codice civile, soprattutto a proposito dei prestatori di opere, in nome di un raccordo più complesso. Oggi, le tecnologie telematiche rilanciano il ruolo del dipendente all’interno del gruppo e, sebbene non vi sia controllo diretto sull’azione dell’agente negoziale in tema di contratto di categoria , ciò fa apparire il dialogo endosindacale come fenomeno articolato, non riconducibile al solo impianto del Codice civile, il quale non può esprimere in ogni suo risvolto la dimensione “antropocentrica” dell’azione collettiva .
Il futuro non sta nella legificazione e nella forzata semplificazione della dialettica propria del sindacato, con la selezione programmata di strutture chiamate a stipulare l’unico accordo efficace per ciascuna categoria. Se si mette in luce questa vocazione “antropocentrica”, si richiama la missione organizzativa di persuadere e non solo quella di comandare. Il comando stesso sorregge le finali determinazioni consensuali, ma, in caso di esercizio autoritario, mina la credibilità dell’organismo, comunque frutto della convergenza delle vedute e delle passioni dei componenti, a maggiore ragione di fronte all’evoluzione dinamica degli interessi . Non a caso, “il gruppo professionale, inteso come gruppo di lavoratori, che assume rilevanza giuridica, è solo quello che si organizza in sindacato” , sebbene questo debba guardare al mercato intero , ma in forza del suo essere soggetto e, cioè, del suo pensare a se stesso come coalizione libera, nata dalla scelta degli aderenti e cementata dal dialogo. L’incontro fra persona e gruppo ha luogo nel regolamento negoziale; la sua premessa non è la legge, ma la dinamica associativa, senza la quale la stipulazione sarebbe un vuoto simulacro, come accade per i contratti “pirata”, appunto espressione di organizzazioni non autentiche .
Né urta contro questa visione la presenza di forme di autorità nelle clausole normative , se non per altro per la loro inderogabilità, corroborata dall’art. 2113 cod. civ. e risultato della “gestione accorpata” , che presuppone la forza conformativa della regolazione consensuale. Tale spiegazione non è solo aderente alla storia dell’azione sindacale e ne giustifica il nascere , ma collega il potere negoziale con il suo presupposto, collocato nel sistema sociale e, fuori da qualunque concessione a ipostasi idealistiche, ancorato alla convergenza libera di vedute e non all’automatico prevalere del collettivo, confuso con il pubblico . Il rifiuto delle illusioni idealistiche riporta il sindacato alla partecipazione alle dinamiche civili, in quanto coalizione costituita dall’incontro fra persone e sedimentata nel suo agire dal ragionamento, cioè dalla rappresentanza come dialogo.
Come si osserva a ragione, “il profilo della vincolatività del contratto collettivo si sposta dal versante del datore di lavoro non affiliato all’associazione sindacale stipulante al lato del lavoratore ‘dissenziente’ rispetto a una contrattazione che non gli garantisce i trattamenti economici precedentemente goduti” . Entrambi i fenomeni sono stati presenti da tempo, ma il secondo acquista maggiore peso per la consolidata tendenza persino delle intese nazionali a sancire un peggioramento della regolazione consensuale . Rispetto a ogni incrinatura della coesione collettiva, ci si deve chiedere se il riferimento all’associazione come luogo della “gestione accorpata” e presupposto della stipulazione dell’accordo sia sufficiente a spiegarne la conclusione e a dare ragione della sua inderogabilità. La risposta è positiva se si ammette come essa trovi espressa regolazione nell’art. 2113 cod. civ. , mentre, per l’efficacia soggettiva, opera il diritto comune.

2. Il possibile sovvertimento di tale impostazione teorica e i suoi obbiettivi.

Per quanto sia articolata la teoria generale del negozio sindacale, la sua base è il radicamento del potere decisionale nell’associazione, luogo di confronto delle esigenze e di creazione dell’interesse collettivo; il nesso fra l’organizzazione e la rappresentanza spiega il potere negoziale della prima e ne giustifica il carattere collettivo, in relazione a obbiettivi comuni e frutto di una coesione concertata proprio a tali fini. La base del potere dell’organizzazione non è fuori dai suoi confini, ma nella libera adesione, poiché “la comprensione dei fenomeni dell’autonomia collettiva (…) esige modelli ricostruttivi meglio proporzionati alla natura propria di questi fenomeni, in rapporto alla loro specifica funzione di un agire indivisibile superindividuale” .
L’associazione esiste per la consapevole iscrizione alla base dell’attività degli organi dirigenti, riconosciuta e protetta , ma espressione della volontà dei datori e dei prestatori di lavoro, i quali si coordinano in modo stabile per creare un soggetto in grado di definire e tutelare in chiave negoziale esigenze che diventano collettive, tramite l’azione dell’organismo, a seguito di una valutazione dei corrispondenti uffici. In questo senso, la “gestione accorpata” è l’attività associativa, la quale investe problemi superindividuali, così affrontati nelle relazioni industriali, in forza della scelta di ciascuna impresa e di ogni dipendente , con la loro iscrizione . Ciò non implica alcuna dismissione di poteri in senso tecnico.
L’idea della “gestione accorpata” vuole saldare la libertà al negozio per il tramite della dimensione organizzativa e, cioè, creare un collegamento frutto delle decisioni spontanee comprese fra la nascita dell’associazione e la stipulazione dell’accordo. Ciò in nulla è ostile alla (limitata) regolazione positiva del contratto e dei suoi effetti, mentre si perderebbe questo nesso fra libertà e clausole normative se vi fosse un potere fondato per legge e basato sulla selezione dei soggetti in nome della rappresentatività . Non è indifferente l’imperniare il negozio su essa o sulla rappresentanza, poiché la prima soluzione implica il transito dalla libertà all’obbedienza, esperienza già presente nella nostra storia e in uno dei suoi momenti più bui, come il periodo corporativo.
Se si identificasse un accordo nazionale applicabile all’intera categoria, si introdurrebbero elementi imperativi nella stessa impostazione del negoziato. La difesa dell’art. 39 cost. è stata più volte tentata, ma senza successo, per il carattere incommensurabile delle ragioni individuali e l’impossibilità di una loro ponderazione, tanto meno in sede elettorale, poiché le aspettative sono inserite in pieno nella logica civilistica. Sorprende la tenace convinzione per cui la ricomposizione dei dilemmi sindacali sarebbe possibile … in uno spazio pieno di diritto e, cioè, con un intervento prescrittivo volto all’ulteriore consacrazione del matrimonio fra lo Stato e i gruppi e alla legificazione del contratto, come se avesse bisogno non della capacità di persuasione e di comprensione delle difficoltà dell’economia, ma di un ancora più diretto sostegno pubblico .
Forse è fondata l’accusa di eccessiva affinità dell’art. 39 cost. con le logiche corporative, o questa conclusione è controvertibile? Si può ricavare qualcosa dall’indicazione costituzionale? L’attuazione dell’art. 39 cost. renderebbe indispensabile una codificazione imperativa delle categorie, perché “il riconoscimento di tale potere di autodeterminazione alle organizzazioni sindacali avrebbe, comunque, presupposto la necessità (…) di criteri legali di soluzione di eventuali conflitti” , sebbene l’art. 39 cost. sia stato considerato compatibile con una concezione privatistica, come, a ragione, si è detto a proposito dei negozi recepiti ai sensi della legge n. 741 del 1959 .
L’art. 39 cost. non presuppone una logica pubblicistica e proprio la registrazione e la costruzione di un unitario procedimento, se anche rimanesse nell’alveo civilistico (e la risposta spetterebbe alla legge di attuazione), imporrebbe alle associazioni non tanto di sottostare ai controlli dello Stato, quanto di rispettare categorie merceologiche predefinite . Come è stato obbiettato a ragione, in una visione vicina a quella corporativa il sindacato è stato concepito dall’art. 39 cost. quale “organo della categoria” e “strumento per la tutela degli interessi dei soci e dei non soci”, mentre il suo “interesse primario” è quello di “difendere i soci, ossia se stesso e le proprie conquiste” .
Nell’art. 39 cost., il negoziato è diretto dallo Stato, non solo con la vigilanza, ma con la pianificazione delle categorie e la definizione delle forme del confronto, cioè del procedimento obbligato. Invece, “il significato più profondo del principio di libertà sindacale comporta non soltanto il riconoscimento del pluralismo organizzativo, ma anche, e di conseguenza, la tutela della libertà di ciascuna organizzazione di individuare o seguire interessi collettivi diversi” , e l’osservazione è ineccepibile . Poiché l’ordinamento deve accettare qualunque concezione dell’interesse collettivo, in quanto non preesiste, ma è il frutto delle determinazioni assunte da ogni associazione, la quale crea la sua visione strategica e la presenta al dibattito, non si comprende perché lo Stato dovrebbe codificare le categorie. Infatti, la libertà si esprime anche (e, forse, soprattutto) nel definire l’interlocutore e i rapporti individuali considerati da ciascun accordo.
La costruzione imperativa di un modello cogente di contratto e la selezione programmata dei destinatari limiterebbero l’autonomia del gruppo, il quale, al contrario, può decidere con chi debba negoziare. L’identificazione eteronoma delle categorie si tradurrebbe in una costrizione. In difetto, non si potrebbero regolare le procedure, che congloberebbero l’iniziativa sindacale, trasformata in funzione, perché governata dall’esterno in ordine all’oggetto, ai percorsi, agli interlocutori e anche ai fini, almeno in via indiretta. Non vale il pure intelligente tentativo di sminuire questa funzionalizzazione , insita nella programmazione immaginata dall’art. 39 cost..

3. L’attuazione dell’art. 39 cost. e la selezione delle categorie.

La selezione delle categorie è sempre il riflesso di una opzione politica sui confini dell’iniziativa contrattuale e, a tacere del controllo sulle associazioni, la trasformazione del negoziato in un procedimento implica la programmazione, come dimostra l’esperienza del lavoro pubblico. E’ necessario identificare un solo contratto perché possa avere efficacia generale, ma, a tale fine, le fonti eteronome devono chiarire su che cosa si possa negoziare, con quali interlocutori e in quale contesto. Non a caso, l’accordo in tema di impiego pubblico è in breve diventato un vuoto simulacro, dietro al quale si cela un disegno della stessa amministrazione, mai semplice garante delle intese, ma loro motore.
Se vuole attuare l’art. 39 cost. (purtroppo), il legislatore deve riconoscere che qualsiasi opzione sulla conformazione della categoria è in sé discutibile e sorretta dalla forza della legge, con l’inevitabile compressione dell’una o dell’altra aspettativa. A difesa dell’art. 39, commi secondo, terzo e quarto, cost., si è affermato che “qualsiasi sistema legale di attribuzione di efficacia generale al contratto collettivo determina effetti che incidono non soltanto nella sfera giuridica dei ‘non soci’, ma anche in quella delle organizzazioni sindacali non stipulanti e dei lavoratori che vi fanno parte, limitando, così, de iure e non semplicemente in via di fatto, la loro autonomia negoziale, e soprattutto la stessa fondamentale posizione giuridica riconosciuta dall’art. 39, comma primo, cost.” ; si aggiunge, “l’obbiettivo perseguito, sia pure con un meccanismo un po’ semplificato e di stampo illuministico, è in sostanza soltanto quello di garantire un contemperamento tra l’attribuzione di efficacia generale (…) e il principio di libertà” .
A prescindere dall’opportunità dell’assegnazione al negozio di effetti generali, se anche si volesse condividere questa scelta della Costituzione, vi si troverebbe comunque il potere dello Stato di erigere un vincolante sistema di rappresentanza. Ciò si giustificherebbe in nome del governo pubblico del negoziato o, almeno, della pianificazione dei suoi metodi, poiché, se attuato, l’art. 39 cost. non regolerebbe solo l’efficacia del negozio, ma l’intera contrattazione e, anzi, partirebbe dalla costituzione delle organizzazioni. Si ribatte che l’art. 39 cost. si discosterebbe dal modello corporativo, non solo per la tutela della democrazia interna alle associazioni, ma per la valorizzazione del criterio maggioritario, tanto che muoverebbe “dal principio opposto” rispetto ai canoni corporativi, “cioè dal parametro numerico, e dalla democraticità dei sindacati, per giungere, attraverso la proporzione, alla rappresentanza unitaria, e solo così all’efficacia generale” . Del resto, sarebbe stata impensabile per la Costituzione una eccessiva aderenza alle logiche preesistenti e la difesa del metodo democratico e del vincolo maggioritario era inevitabile nel 1948. Tali garanzie sono un po’ flebili perché si possa negare la continuità con il passato. Questa non poteva essere assoluta e una cesura deriva dall’art. 39, primo comma, cost. . Tuttavia, i commi successivi hanno ascendenze corporative perché, nonostante il metodo maggioritario, postulano una costruzione legale del sistema di relazioni industriali.
La libertà è piena rispetto agli esiti del negoziato se esso è governato solo dalle concordi convinzioni degli stipulanti, a partire dalle modalità del confronto, fino ai suoi risultati, frutto di ragionamenti condivisi e non imposti. Non a caso, del dialogo fra i soggetti collettivi si è discusso in termini di ordinamento, almeno nel passato, e il suo valore fondativo è stato ravvisato nel consenso. Proprio su questo, cioè sulla libertà di decidere come si debba discutere, quali siano gli interlocutori e quali le traiettorie della dialettica, il diritto comune si discosta dall’art. 39 cost.; più significativo negli anni cinquanta e sessanta, tale divario sarebbe da difendere, come spazio di libertà. Per l’art. 39 cost., l’attribuzione dell’efficacia generale “anche nei confronti di (membri di) organizzazioni che perseguono (o possono perseguire) diversi fini egoistici è stata collegata a un procedimento volto a favorire la mediazione tra le diverse istanze e, soprattutto, volto a garantire, nei casi di insuccesso di questa ultima, che la soluzione del conflitto avvenga attraverso la verifica del diverso ‘peso rappresentativo’ di ciascuna organizzazione” . La centralità del procedimento obbligato espropria i soggetti collettivi di una delle tipiche forme della loro libertà, la scelta sull’attività, non solo sull’atto e, cioè, anche sul “farsi” delle finali decisioni.
Nell’attuazione dell’art. 39 cost., tale “farsi” sarebbe per intero attratto nella sfera dell’intervento statale, mentre non vi è libertà piena se non concerne l’intero comportamento, a cominciare dalle premesse del negozio, soprattutto se si considerano le continuative relazioni sindacali. Occorre evitare qualunque confusione fra il procedimento pubblico e l’autonomia privata. Nel primo caso, la funzione è disciplinata per legge e, presupponendo spesso il coordinamento di più centri decisionali, diviene la traiettoria dovuta di realizzazione del potere. Qualora vi sia contrasto fra i diversi uffici coinvolti, solo all’esito del procedimento si può assumere la determinazione, condizionata dall’osservanza di quanto previsto. Non soltanto l’amministrazione deve agire con razionalità, ma le regole sulla procedura incidono sulla decisione, e sia le norme sul “farsi”, sia quelle sulla determinazione ultima corrispondono a una selezione imperativa degli scopi, con indicazioni prescrittive vincolanti .
Se anche quelli dell’art. 39 cost. rimanessero contratti, sarebbero inseriti in un procedimento; non a caso, l’amministrazione dovrebbe garantire il rispetto della regola maggioritaria, come accade nel lavoro pubblico. Il fascino del negozio privato consiste nella sua integrale sottoposizione non a una disciplina cogente, ma alle decisioni strategiche dei protagonisti, non soltanto in ordine alla selezione dell’interesse finale, ma ai modi del dialogo, fuori da una procedura precostituita, se mai regolata con clausole obbligatorie, a opera degli stessi accordi.

4. L’inevitabile matrice corporativa di un intervento di attribuzione al contratto collettivo di efficacia generale.

La matrice corporativa dell’art. 39 cost. non coincide solo con la fiducia nel procedimento e con la definizione legale della categoria, ma con la convinzione per cui esisterebbe un oggettivo interesse e, secondo criteri maggioritari, questo potrebbe essere sancito in nome e per conto di tutti i prestatori di opere. Infatti, il nostro diritto ha espresso la “tradizione teorica della «collettivizzazione» del fenomeno organizzativo sindacale, configurato come soggetto a sé stante, dotato di una propria «alterità», come struttura rappresentativa, rispetto alla base degli organizzati”, tanto che “anche il sindacato, più che una esperienza di libero associazionismo, è teorizzato (…) come un fenomeno di rappresentanza (…) che assume una ragione di priorità, nell’organizzazione della tutela, come espressione di interessi solidali già in natura collettivi e indivisibili” .
L’art. 39 cost. è una espressione tipica della pretesa priorità del momento collettivo su quello individuale, non perché voglia un contratto con efficacia generale, ma in quanto lo immagina come risultato di una procedura; spogliate del governo del “farsi” del loro atto, le associazioni potrebbero o, meglio, sarebbero indotte a definire l’interesse nel perimetro di quello pubblico, espresso dallo Stato, garante del procedimento e dell’ordinato esplicarsi non della libertà, ma della discrezionalità. A prescindere dal fatto che, nella crisi della sovranità, è illusoria questa fiducia nella mediazione dell’amministrazione, l’art. 39 cost. rinuncia alla più allettante sfida della libertà, quella per la quale, a seguito dell’adesione del singolo, il gruppo è protagonista del suo destino e costruttore del reticolo di obblighi e oneri nei quali opera. L’art. 39 cost. rigetta quanto di grande e di pericoloso sta nell’edificare, ogni giorno, la propria posizione negoziale, fuori da un assorbente governo eteronomo dell’economia. Nelle sue manifestazioni autentiche, l’autonomia non sopporta procedimenti predefiniti .
L’imposizione della generale applicabilità degli accordi nazionali non porterebbe alla fine delle contrapposizioni, le quali trovano il loro presupposto in oggettive e diverse valutazioni economiche e sociali. Se il timore è quello del proliferare di contratti conclusi solo da alcune delle associazioni a maggiore rappresentatività , tale preoccupazione è ineliminabile e ciò dimostra quanto poco l’accordo possa essere paragonato a una fonte . Né il dilemma può essere superato con un irrigidimento delle pretese (e inesistenti) componenti legislative del contratto . L’invocare l’attribuzione dell’efficacia generale vorrebbe una semplificazione imperativa di temi complessi e la cui difficoltà deve essere accettata, non superata . Se le associazioni non riescono a identificare un solo testo sul quale convergere, non si capisce quali benefici si potrebbero trarre dalla logica maggioritaria, se non si raccoglie il consenso; di fronte all’interesse alla retribuzione e alla conservazione della collocazione professionale, non si pone un dovere di obbedienza, ma un potere individuale di partecipazione alle decisioni organizzate, e una selezione maggioritaria postula la non condivisibile preesistenza del gruppo come portatore di valori da contrapporre in una competizione elettorale e, all’esito, da sancire con un percorso di integrale carattere autoritativo .
Nel cercare un equilibrio con aspettative settoriali, ma private, il negozio non esprime esigenze pubbliche, ma solo superindividuali e, se si riferisce a valori collettivi, ma non generali, non corrisponde a un ordinamento politico, del quale non rispecchia le finalità . La mediazione sindacale denota quella dimensione privata (appunto, di collaborazione) da contrapporre alla concezione maggioritaria della cosiddetta legittimazione delle istituzioni . Esse non vogliono la sintesi cooperativa degli interessi, ma aspirano alla ricerca di chi assuma un ruolo di governo, estraneo alla stessa idea sindacale e ai suoi metodi.
Resta un divario fra un potere di regolazione basato sulla collaborazione e uno imperniato su responsabilità di governo; l’ordinamento politico, a fini generali, non può essere confuso con quello intersindacale (a volere concedere la sua perdurante esistenza), imperniato sull’accettazione diffusa del metodo dialogico e sul rispetto reciproco fra soggetti in posizione paritaria. Come il contratto non è una fonte , così il suo presupposto e, cioè, la dialettica fra le associazioni non ha luogo fra gruppi che ambiscano a un predominio elettorale . Esso avrebbe rilievo interno a ciascuna parte (ai datori e ai prestatori di opere), ma non porterebbe mai all’attribuzione della responsabilità decisionale a uno dei due interlocutori. E’ una intrinseca contraddizione una competizione volta a stabilire chi debba negoziare e non chi possa decidere .
Si afferma talvolta che il contratto nazionale avrebbe una struttura per sua natura unitaria , cioè che, seppure in carenza dell’attuazione dell’art. 39, commi secondo ss., cost., sarebbe preordinato alla regolazione di una categoria omogenea; la cosiddetta contrattazione separata sarebbe eccezionale, tanto sul piano giuridico, quanto su quello delle relazioni industriali, con una divergenza dal più lineare negoziato complessivo . Con una ricostruzione storica del contratto nazionale, del valore evocativo di tale attributo e della sua forza espansiva, si riporta all’accordo postcostituzionale l’obbiettivo qualificante di una regolazione omogenea dell’intera categoria, anche in forza delle intese interconfederali e del loro impatto conformativo .
La tesi è persuasiva solo in parte; se non sul versante dei prestatori di opere, la frammentazione della rappresentanza dei datori di lavoro è consueta e si collega al differente assetto delle imprese. Vi sono sempre stati più negozi per aziende di settori identici, con diversi accordi per imprese industriali, grandi e medio – piccole, artigiane, cooperative e, talora, divise dalla semplice adesione a organizzazioni differenti, come accaduto da molti decenni nel commercio. Per questa articolazione, il negozio non è stato unitario in senso pieno, a prescindere dal più recente affiorare di valutazioni contrapposte fra le associazioni tradizionali dei dipendenti.
Talora, le divergenze sul versante delle imprese sono state dovute a fattori non ideologici, ma di semplice disciplina interna o di scarso rilievo strategico, poiché le posizioni sono state abbastanza in linea. Tuttavia, tale aspetto conferma la centralità del criterio pluralista nell’affiliazione e gli accordi coesistono per aree merceologiche simili. Sul piano ricostruttivo, poco importa la recente, maggiore frammentazione , anche con la stipulazione separata da parte delle associazioni dei lavoratori. A prescindere dalla sua genesi e dalle sue motivazioni, il fenomeno è il riflesso della libertà, persino nella sua dimensione negativa, ed è fisiologico in un sistema basato sull’affiliazione spontanea.
Il sussistere di più accordi per la medesima categoria non è un disvalore , né è una novità e, se mai, ci si deve chiedere come il tema possa essere affrontato. Se si dimenticano gli auspici e si guarda alle condotte, la presenza di più contratti è un dato tradizionale e l’intensificazione del problema non si collega a situazioni emozionali o di irrazionalità nelle scelte, ma a diverse posizioni . L’idea per cui l’unità del contratto sarebbe la regola e la separazione l’eccezione può essere accettata solo con molta cautela e ha un impatto ridotto persino sul piano descrittivo. Né modifica il quadro lo spostamento del dissenso sul versante dei lavoratori, poiché la contrattazione è asimmetrica per effetti e presupposti e da sempre le imprese possono trattare e concludere intese da sole.
Quando si discute della cosiddetta separazione al momento della stipulazione, poco importa che ciò derivi da una determinazione degli organismi delle aziende o dei dipendenti. Il fenomeno resta uguale e si traduce nell’inesistenza di un interesse collettivo condiviso ed equiesteso alla categoria, quindi nella mancanza dell’accettazione completa di un solo testo. E’ analogo l’orientamento della giurisprudenza, per cui “non concretizza una condotta antisindacale il condurre le trattative in forma congiunta, di fronte alla richiesta di alcuni soggetti di essere sentiti a tavoli separati” . Vale anche l’idea contraria, per la medesima libertà, e l’unità del contratto nazionale è un auspicio desunto dalla prassi, ma non è una direttiva per l’interprete. La protezione della libertà si manifesta anche nell’inapplicabilità dello stesso negozio a tutte le imprese o a ciascun prestatore di opere, sulla scorta di decisioni incoercibili. Un criterio opposto comprimerebbe l’autonomia, e le sollecitazioni derivanti dai sistemi informatici e il loro abituale riferimento a un contratto restano a un livello organizzativo, senza alcun risalto ricostruttivo, poiché si può sperare che l’accordo sia uno, ma questo risultato non può essere né imposto, né suggerito, né agevolato con un intervento sui gruppi, in grado di perseguire le loro esigenze con il consenso degli aderenti.
La confusione fra pubblico e collettivo è un demerito e ciò asseconda propensioni errate delle organizzazioni sindacali, vista la loro attuale crisi. Chi rinunci al persuadere credendo di comandare con l’aiuto dello Stato corre il rischio o, meglio, deve constatare di avere mancato entrambi gli obbiettivi. Una sola strada può portare le associazioni dei datori e dei prestatori di opere lontano da una posizione marginale sempre più evidente nella civiltà italiana contemporanea, la consapevolezza del valore negoziale esclusivo dei loro atti e del fatto che lo Stato non è la soluzione dei problemi, ma è quello fondamentale per le imprese e i loro dipendenti.

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