TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La questione della definizione dei cosiddetti perimetri contrattuali (vale a dire dell’ambito di applicazione di ogni contratto collettivo) e della conseguente misurazione della rappresentanza sindacale e datoriale, ai fini della contrattazione collettiva, assume ormai un’importanza vitale. Anzitutto, ciò perché il sistema di relazioni industriali italiano è, da tempo, profondamente interessato da fenomeni di pluralismo competitivo tra associazioni sindacali sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro. Particolarmente rilevante è l’aspetto della frammentazione della rappresentanza datoriale che vede affacciarsi nuove associazioni – come da ultimo nel settore della vigilanza privata – che, talvolta, mirano a partecipare alle trattative per il rinnovo dei contratti tradizionali; oppure, più frequentemente, a creare un nuovo sistema contrattuale parallelo a quello già esistente ovvero che ritaglia un ambito più circoscritto o più ampio rispetto a quest’ultimo. Tensioni non irrilevanti si riscontrano nello stesso sistema contrattuale confederale. Qui, infatti, vi sono alcuni contratti collettivi nazionali con un campo di applicazione di carattere trasversale e onnicomprensivo (come il ccnl multiservizi e il ccnl servizi fiduciari e vigilanza); e che contengono trattamenti retributivi alquanto bassi (talvolta al di sotto della soglia di povertà). E così, essi, di fatto, realizzano una concorrenza “al ribasso” nei confronti di altri contratti collettivi nazionali, dello stesso sistema confederale, nei settori di specifica pertinenza di quest’ultimi (specie nella logistica, igiene ambientale, alimentare, edilizia)
Questo disordine contrattuale produce effetti deleteri, rendendo sovente complesso individuare il cosiddetto contratto collettivo leader abilitato a gestire i rinvii legali alle determinazioni dell’autonomia collettiva e che costituisce il punto di riferimento delle molteplici normative legali che prendono in considerazione il contratto collettivo sottoscritto da soggetti “qualificati”, come appunto i sindacati comparativamente più rappresentativi. Infatti, il suddetto criterio selettivo, ormai tradizionale, basato sulla formula della maggiore rappresentatività comparata, può entrare in crisi in assenza di una preventiva e chiara delimitazione dell’ambito e cioè del perimetro entro cui va misurata la suddetta maggiore rappresentatività comparata. Tali incertezze sono altresì enfatizzate dalla possibilità, poc’anzi segnalata, che le categorie contrattuali siano disegnate discrezionalmente (ovvero, absit iniuria verbis, in via opportunistica) da parte dei soggetti sindacali stipulanti il relativo contratto collettivo.
Sicché, a causa della compresenza, nello stesso ambito di applicazione, di contratti collettivi con costi del lavoro differenti, il contratto collettivo diventa strumento di concorrenza tra imprenditori e perciò di dumping sociale (salariale e normativo). Così, il contratto collettivo non riesce più a svolgere la sua tradizionale funzione anticoncorrenziale, vale a dire a togliere il costo del lavoro dalla concorrenza. Il risparmio ottenuto dall’applicazione di un contratto collettivo cosiddetto “al ribasso” non deriva soltanto dalla parte economica di quest’ultimo, ma anche dalla sua stessa parte normativa che è, in genere, costruita ricopiando le previsioni minime della legge (senza alcuna deroga migliorativa) e, talvolta, più o meno correttamente, derogando in peius alle disposizioni della fonte legale.
Emerge, pertanto, la tensione, tra il principio di libertà sindacale e la razionale necessità di un unico contratto collettivo ad efficacia generale per le attività economiche omogenee. È ovvio, infatti, che solo l’unicità del contratto collettivo garantisce appieno la sua funzione storica di togliere il costo del lavoro dalla concorrenza; nonché evita che la competizione tra le imprese si scarichi sul fattore lavoro. Cosa che invece non si verificherebbe, e difatti non si verifica, se, nello stesso settore, operassero contratti collettivi con costi del lavoro differenti e quindi in concorrenza tra di loro.
Di fronte a tali problemi è sempre più oggetto di dibattito l’opportunità di una legge sulla rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva, e che quindi vada al di là dell’opera meritoria delle parti sociali più rappresentative, codificata negli accordi degli ultimi anni: accordi i quali scontano il limite della loro efficacia limitata alla cerchia degli aderenti. Di recente, sono stati elaborati vari progetti legislativi provenienti anche dal mondo del sindacato dei lavoratori.
Ovviamente qualunque elaborazione legislativa deve confrontarsi con il modello di contrattazione collettiva ad efficacia erga omnes dell’art. 39 Cost. A questo proposito, la domanda delle domande è quale equilibrio sia possibile rinvenire tra il principio di libertà sindacale di cui al comma 1 dell’art. 39 Cost. e l’inevitabile effetto autoritativo scaturente dall’eventuale attuazione della seconda parte della medesima norma costituzionale. Questo è il punto più delicato. Inoltre, appare ragionevole ritenere che una scelta legislativa di tale natura, che ribalta un assetto consolidatosi nella costituzione materiale, debba essere, in qualche modo, concertato con i grandi soggetti sindacali storici. In effetti, non sembra concepibile un intervento legislativo sul sistema di relazioni industriali che, proprio perché incide sulla libertà sindacale (seppure, a ben vedere, su una visione totalizzante della medesima), non sia condiviso dai soggetti sindacali storicamente e inequivocabilmente più rappresentativi.
I passaggi ineludibili di un qualsiasi intervento legislativo sono sicuramente almeno due. Il primo è la definizione dei cosiddetti perimetri contrattuali: il disegno delle categorie contrattuali e cioè dell’ambito di applicazione di ogni contratto collettivo e, correlativamente, dello spazio entro cui si misura la rappresentatività degli attori collettivi legittimati a partecipare alla negoziazione del medesimo contratto. Il secondo passaggio, una volta delimitati i perimetri, attiene all’individuazione di criteri affidabili per la misurazione della suddetta rappresentatività. Ma su quest’aspetto già esistono molteplici spunti provenienti dalla stessa pratica delle parti sociali, dalla legislazione, dalla prassi amministrativa, dalla giurisprudenza nonché da una consolidata esperienza comparata. A ciò va aggiunto l’importante lavoro del Cnel che ha messo in campo – anche grazie all’introduzione, da parte del legislatore, del cosiddetto codice alfanumerico unico dei contratti collettivi - un importante censimento dei contratti collettivi, in modo da individuare quelli più applicati e perciò siglati dagli attori più rappresentativi.
Il dibattito è così tuttora aperto. Ma l’urgenza di provvedere è davanti agli occhi di tutti, sebbene adottando le cautele necessarie per coniugare i principi di libertà e democrazia sindacale con la contrapposta esigenza di un sistema di contrattazione collettiva solido e ben funzionante. La logica, infine, induce a ritenere che vada comunque evitato che esasperate e unidirezionali enfatizzazioni del principio di libertà sindacale producano solo frutti avvelenati a danno dei lavoratori e, anche, dei datori di lavoro socialmente più responsabili.

Le linee guida poc’anzi riportate sono, ovviamente, meramente indicative. Resta nella piena discrezionalità degli autori scegliere il taglio con cui impostare il proprio contributo quanto alle tematiche del titolo del dibattito/focus menzionato in epigrafe.

 

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