Testo integrale con note e bibliografia

1. Lavoro e sviluppo
La centralità del lavoro nella vita degli individui, i benefici dell’occupazione e i costi della disoccupazione, con le conseguenze non solo economiche sulle persone, sono temi ricorrenti nelle analisi di Amartya Sen, come testimonia anche la lunga collaborazione del premio Nobel con l’International Labour Organization (ILO). La concezione del lavoro di Sen è strettamente correlata alla sua ben nota teoria dello sviluppo, che va inteso non solo in termini di crescita economica, ma come promozione del progresso umano, delle condizioni di vita delle persone e delle opportunità reali che esse hanno di vivere la vita a cui attribuiscono valore. Le risorse economiche, i beni, il reddito di cui si dispone sono mezzi, certamente essenziali e irrinunciabili, ma la valutazione del benessere non può limitarsi a considerare l’ammontare complessivo di tali risorse, in quanto ciò che conta è quanto le persone riescono effettivamente a fare con le risorse a loro disposizione, ciò che comporta tener conto anche della loro diffusa eterogeneità e della loro differente capacità di conversione (Sen, 1994). La qualità della vita sarà allora colta in modo più adeguato, rispetto ai tradizionali indicatori della disponibilità di mezzi materiali (ricchezza e reddito), dalle nozioni di functionings e di capabilities: mentre i funzionamenti riflettono le acquisizioni effettive degli individui in ambiti fondamentali della vita, e sono quindi costitutivi del well-being, le capacità riflettono le libertà degli individui di scegliere funzionamenti cui essi ritengono di dare più valore, e sono quindi costitutive della libertà intesa come libertà ‘di essere e di fare’. Altrettanto fondamentale è il concetto di agency, che rappresenta la facoltà di agire del singolo in base ai suoi valori e obiettivi, che non necessariamente contemplano l’incremento del proprio well-being, dato che le persone non agiscono solo in vista del self-interest, ma anche motivate da ideali, simpatia e impegno (commitment) (Sen 1985, 185-92; Nussbaum 2003). In ultima analisi, è quindi l’espansione della libertà il fine primario e il mezzo principale per lo sviluppo, il quale consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che lasciano alle persone «poche opportunità di esercitare motivatamente la loro agency» (Sen 2000a, 6).
Sulla base di tali concetti fondamentali, si articola il rapporto tra sviluppo e lavoro, declinato dall’economista come una relazione biunivoca, per cui se, da un lato, il lavoro genera miglioramenti (o peggioramenti) delle opportunità di sviluppo per le persone, dall’altro, migliori condizioni di sviluppo umano spingono a migliori opportunità e ad una migliore organizzazione del lavoro. Il meccanismo di reciproca implicazione tra libertà e sviluppo, e di interconnessione tra libertà e capacità differenti, è ben rappresentato proprio dalla tutela del lavoro, che, se ben concepita, non comporta solamente la difesa dell’interesse di una persona in termini di reddito, ma le permette di inserirsi all’interno della società, dato che, secondo Sen, la libertà di partecipare all’interscambio economico ha un ruolo fondamentale nel vivere associato (Sen, 2000a).
2. Le dimensioni del lavoro
Infatti, come si evince dai Rapporti sullo sviluppo umano, ai quali il capability approach ha dato un contributo fondamentale, e in particolare dal rapporto sullo sviluppo umano del 2015 , dedicato interamente a Work and Human Development (UNPD 2015), il lavoro umano è, per un verso, ‘funzionamento’ importante per la realizzazione della persona e, per un altro, strumento indispensabile per acquisire maggiori capabilities, quelle maggiori opportunità e quella capacità di agency che consentono agli individui di aumentare lo spazio della libertà effettiva di scegliere cosa essere e cosa fare (Sen 2003, vii).
Il lavoro concorre, dunque, alla costruzione di una società giusta: non solo come occupazione che consente al lavoratore di poter disporre di un reddito tramite il quale far fronte alle necessità personali e a quelle della famiglia, ma anche come legame sociale importante per realizzare il proprio progetto di vita, mettendo a frutto talenti e competenze, atti a fornire sia un contributo positivo alla società sia un perfezionamento della propria realtà personale. Quando il lavoro ha caratteristiche positive, aumenta indipendenza e sicurezza economica, migliora la possibilità di partecipare alla vita sociale e politica, accresce l’autostima e fornisce uno spazio importante alla creatività e alla capacità di proporre innovazioni. In una monografia scritta nel 1975 per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), Sen ha delineato quelli che ha definito i tre aspetti fondamentali del lavoro: la produzione, il reddito e il riconoscimento (Sen 1975). I primi due hanno a che vedere con il fatto che la disoccupazione porta alla perdita di produzione di beni e servizi per la società e alla privazione di redditi per i disoccupati e le lore famiglie, il terzo aspetto implica che ai disoccupati è negata la possibilità di soddisfare un bisogno umano profondamente sentito di riconoscimento sociale, rappresentando il lavoro una dimensione fondamentale della vita umana e un’esperienza sociale decisiva. Esso permette alla persona, come scrive Sen, di fondare la propria autonomia e di dare un’impronta all’ambiente circostante, introducendovi qualcosa di personale e di riconoscibile dagli altri, e strutturando così, al contempo, la propria identità personale (Sen 2000b).
3. Disoccupazione ed esclusione sociale
Per questo la disoccupazione, oltre che un problema economico, rappresenta un impoverimento del carattere sociale della vita e in ultima istanza un’offesa alla dignità umana: la mancanza di lavoro e di sostegno economico significa, in molte società, la riduzione di libertà in generale e la reale possibilità di passi indietro sul piano delle libertà di base, non solo di quelle economiche (Sen 1997a).
Sen sostiene, richiamando Aristotele, che una vita è impoverita quando si è impossibilitati ad esercitare attività che si ha motivo di scegliere, evidenziando che le persone, in particolare quelle povere, hanno buone ragioni per attribuire valore al non essere escluse dalle relazioni sociali: la deprivazione relazionale, oltre ad essere di per sé rilevante, è un fattore causale sia diretto che indiretto di ulteriori deprivazioni (Sen 2000b, 3-12). Una specificazione del rapporto tra modalità relazionali on the job e benessere è contenuta nel rapporto Stiglitz, di cui Sen è coautore: le relazioni sociali favoriscono una migliore valutazione della propria vita, essendo assodato che il declino di questi legami può incidere negativamente sulla vita delle persone anche quando le loro funzioni sono surrogate da alternative di mercato o di governo che aumentano il livello dell’attività economica (Stiglitz, Sen, Fitoussi 2010)
4. Capitale umano o Human Capabilities?
Nella stessa direzione ci porta la riformulazione del concetto di capitale umano operata da Sen e la proposta di sostituirlo con il concetto di capacità umana (Sen 1997). Il capitale umano viene usato dagli economisti per sottolineare l’importanza della qualità produttiva degli esseri umani nel processo di accumulazione del capitale: l’istruzione, la formazione, l’apprendimento di competenze sono considerati fattori che incidono positivamente sulla produttività. Come sottolinea Sen, però, si tratta di una concezione parziale, limitata al ruolo delle persone nell’ampliamento delle possibilità produttive. Le human capabilities comprendono il capitale umano, ma hanno un senso più ampio e complesso: si tratta della capacità delle persone di vivere quelle vite che hanno ragione di apprezzare e di allargare la quantità e la qualità delle opzioni reali. In questo senso, ciò che è ritenuto capitale umano ha valore di per sé, al di fuori della logica economica della produzione di merci: l’istruzione, per esempio, conferisce capacità di comunicare, di partecipare al discorso pubblico, di prendere decisioni consapevoli, migliorando direttamente le condizioni di una ‘vita buona’ (Sen 1997, 1959). La scelta se mettere l’accento sul capitale umano o sulle capacità riflette una distinzione che è riconducibile a quella classica tra mezzi e fini: «Il riconoscere che le qualità umane hanno un ruolo nel promuovere e sostenere la crescita economica non ci dice, nonostante la sua grande importanza, niente sul perché noi vogliamo la crescita economica» (Sen 2000a, 294-95). Quindi strategie di promozione dello sviluppo umano, che prevedono grande attenzione alla formazione e all’istruzione, hanno senz’altro un impatto positivo sulla qualità del lavoro, la quale, come è ormai evidente, se da un lato aumenta l’efficienza dei sistemi produttivi, dall’altro attiva circoli virtuosi per lo sviluppo, che rendono importante concentrare energie e risorse sul rafforzamento della dignità del lavoro (Chiappero Martinetti e Sabadash 2014; Leonardi 2009; Musella 2021; Robeyens 2006).
5. Lavoro dignitoso e politiche del lavoro capability oriented
In conclusione, al fine di dotare gli individui di maggiori libertà sostanziali, sono senz’altro necessarie profonde modifiche nel rapporto tra politiche pubbliche e lavoro, cui può essere di valido supporto un ampio impiego del paradigma delle capacità e progetti di riforme capability-oriented.
Applicare il capability approach al mercato del lavoro, allo stesso modo in cui è stato applicato al welfare umano in generale, ci obbliga a guardare alla ‘qualità’ del lavoro piuttosto che meramente alla ‘quantità’ di lavoro, cioè al tasso di occupazione. È questa la direzione che ci indica la prospettiva seniana e verso cui è necessario muoversi, nonostante tutte le difficoltà che possono emergere, ad esempio, nel tentare di definire la qualità del lavoro o di ‘sintetizzarla’ in un indicatore che poi possa essere utilizzato per le decisioni di politica pubblica.
Le funzioni del mercato del lavoro sono una sorta di veicolo e di collegamento tra le politiche economiche e sociali, da un lato, e le loro ricadute sul benessere degli individui, dall’altro. In effetti, una politica economica ben progettata genera crescita economica che di rimando crea lavoro e determina i livelli di salario, ma determina anche un range di altri fattori associati con l’impiego, come le condizioni di lavoro, che influiscono sulle capacità individuali e sul welfare. Gli effetti della politica economica si trasferiscono quindi sul benessere dei singoli proprio attraverso la qualità del lavoro. Il tipo di lavoro specifica un ampio ventaglio di altri entitlements che, pur non essendo gli unici, influiscono fortemente sulla qualità della vita complessiva della persona, dimostrando come la variabile lavoro costituisca una parte importante del capability approach. Se analizziamo il mercato del lavoro da questa prospettiva, le caratteristiche del lavoro diventano importanti quanto il fatto in sé dell’avere un’occupazione, secondo una visione comprensiva e inclusiva di tutti gli aspetti del lavoro stesso .
La qualità del lavoro è importante non solo per ragioni di benessere individuale, ma anche per il ruolo che riveste per l’intera società. Il lavoro è uno ‘spazio’ fondamentale, per usare un’espressione di Sen, nel quale l’ineguaglianza manifesta se stessa, non solo attraverso i tassi disoccupazione, ma anche attraverso le caratteristiche stesse del lavoro: variazioni nella qualità del lavoro portano ad ineguaglianze di salario e a diseguaglianze nell’ambito della sicurezza e dei vantaggi sociali. Inoltre, come evidenzia F. Stewart (Stewart 2000), incoraggiare la qualità dell’impiego della forza lavoro favorisce l’uguaglianza sociale, la quale a sua volta incrementa la crescita economica e aumenta la coesione sociale. Lavori di alta qualità sono generalmente anche più produttivi e richiedono da parte dei lavoratori un alto livello di competenze, cosa che stimola positivamente la crescita economica, la produttività e lo sviluppo, contribuendo a generare più capacità per l’intera popolazione. Tutto ciò mostra come sia troppo semplicistico pensare al mercato del lavoro solo in termini di tassi di disoccupazione e di livelli di salario, come solitamente avviene: vendere la propria capacità lavorativa in un modo o nell’altro è per la maggior parte delle persone l’unico input a propria disposizione nel potere di scambio (e ciò è particolarmente vero nei paesi in via di sviluppo) (Sehnbruch 2004). È vero che Sen, pur riconoscendo i vantaggi associati al lavoro diversi dal reddito (come l’opportunità di avere un lavoro che permetta la propria autorealizzazione), ha sottolineato principalmente il contrasto tra la condizione dell’occupato e quella del disoccupato. Ma la rilevanza che egli attribuisce alle caratteristiche fondamentali del lavoro e la necessità che esse vengano integrate nel suo approccio sono evidenti: in un discorso tenuto all’International Labour Conference a Genova, nel giugno 1999, Sen ha riconosciuto l’importanza del concetto di ‘decent work’ coniato da Juan Somavia, il direttore generale dell’ILO. Questo concetto considera ogni aspetto dell’impiego, ad esempio le condizioni di lavoro, i diritti, la contrattazione sociale, gli obiettivi personali e l’autorealizzazione, tanto quanto le più tradizionali misure, come il reddito. Il lavoro dignitoso ‘implica ben più che l’avere un lavoro, significa avere l’opportunità di ottenere un lavoro buono e produttivo in condizioni di libertà, sicurezza e dignità umana’ (ILO 1999). Si tratta dunque di un concetto che ben si integra nel capability approach di Sen, in quanto considera non solo la possibilità di una persona di impiegarsi (occupabilità), ma un ampio ventaglio di aspetti associati con il lavoro cui l’individuo ha ragione di attribuire valore. A dire il vero, un’applicazione fedele del capability approach al lavoro dovrebbe andare anche oltre ad una pur ampia definizione quale quella di ‘lavoro dignitoso’ formulata dall’ILO, come ha ben sottolineato Kirsten Sehnbruch (Sehnbruch 2004). Il suo contributo può manifestarsi innanzitutto nell’inclusione di quei fattori che influenzano la capacità dell’individuo di convertire le caratteristiche di un particolare lavoro in un set di funzionamenti acquisibili. Per esempio, perdere il lavoro in un paese dell’Unione Europea, con un’alta fornitura di sicurezza sociale, non è come perderlo in un paese in via di sviluppo come il Cile, dove essa è praticamente assente. Ecco, quindi, che il capability approach potrebbe includere anche le condizioni specifiche dell’individuo nell’equazione, in particolare il numero dei membri della famiglia che dipendono da chi lavora, e infine anche la libertà che l’individuo ha di convertire queste peculiari caratteristiche in un set di funzionamenti . Ma, ciò che più preme sottolineare, è che ridisegnare la nostra idea di lavoro all’interno del framework dell’approccio seniano trasforma il concetto di lavoro dignitoso in una proposta basata sui fini piuttosto che meramente sui mezzi: i lavoratori diventano essi stessi i fini, sostituendo in questo ruolo il reddito o il tipo di lavoro che fanno. Se decidiamo di considerare la qualità del lavoro secondo il capability approach, il concetto di lavoro dignitoso verrà strettamente collegato con ‘le capacità e i funzionamenti generati da un lavoro’, capacità e funzionamenti che l’individuo ha buone ragioni di valutare. Questa definizione è la diretta conseguenza dell’applicazione del capability approach al lavoro: si tratta di una definizione inclusiva, che definisce l’impiego in una maniera che riflette le sue implicazioni oltre la generazione di reddito nei termini più ampi possibile e che applica una differente prospettiva al mercato del lavoro rispetto a quella abitualmente considerata. Nel sui scritti, Sen sovente menziona alcune capacità generali che l’individuo ha buone ragioni di valutare, oltre a quelle di base necessarie alla sopravvivenza. Tra le prime, egli indica la capacità di apparire in pubblico senza vergogna, e poi le capacità di essere adeguatamente nutriti di avere una dimora e di essere in buona salute: il lavoro fornisce un set di capacità assolutamente paragonabile a questi esempi e tutti gli studi sugli effetti della perdita di lavoro sull’individuo dimostrano che il lavoro ci procura una serie di fattori diversi dalla basic income, la quale ci offre semplicemente la sopravvivenza. Elementi come il rispetto di se stessi e l’autostima, la crescita personale, l’integrazione e la partecipazione sociale sono solo alcuni dei funzionamenti chiave generati dal lavoro, oltre a quelli più basilari dell’essere nutriti, dell’avere una casa, dell’essere in salute e del poter contare su un’entrata futura assicurata (ad esempio la pensione, un’assicurazione sull’invalidità e sulla disoccupazione), fattori che non dipendono esclusivamente dal reddito.
Nonostante, tenendo conto di queste considerazioni, ci si possa formare una idea della qualità del lavoro, vi è tuttavia molta difficoltà a darne una definizione precisa e ad applicarla. Nessuna pubblicazione dell’ILO dedicata alla discussione sul ‘lavoro dignitoso’ contiene una definizione esaustiva e specifica del concetto, né suggerisce un metodo per misurarlo.
L’ambizione di riflettere più aspetti possibili delle caratteristiche del lavoro per misurarne la qualità incontra molte critiche da parte di chi considera che un approccio più semplificato (ma anche più riduttivo) sia più praticabile e in ultima istanza più utile. Si noti che un dibattito simile è emerso riguardo la misurazione dello sviluppo umano e del benessere, ed è stato ampiamente discusso in letteratura, specialmente con riguardo alla formulazione dell’HDI (Human Development Index), proposto per la prima volta nel 1990. Nella sua prefazione a Reflections on Human Development di ul Haq’s, Paul Streeten scrive che il merito maggiore dell’HDI è stato quello di aver evidenziato l’inadeguatezza di altri indici, come il PIL (Haq 1995), e lo stesso Sen ha più volte rivendicato la necessità di non espungere dall’analisi dati significativi solo in quanto più difficilmente misurabili. Lo stesso discorso dovrebbe valere riguardo ad un indicatore della qualità del lavoro. Il capability approach di Sen è stato ampiamente riconosciuto e apprezzato proprio per aver finalmente allargato il dibattito sullo sviluppo da misure basate solo sul reddito procapite ad un più ampio ventaglio di indicatori, al cui miglioramento gli individui hanno ragione di attribuire un valore, e l’inclusività e l’ampiezza del suo approccio non hanno impedito che fosse applicato nella pratica, cosicchè si considera ormai normale che parlando di sviluppo economico sia indispensabile includere altre variabili, nello specifico variabili che potenziano le capacità individuali (educazione, longevità, ecc.). Ebbene, dato l’importante impatto del lavoro sulla qualità della vita e sul well being individuale, gli argomenti di Sen appaiono altrettanto rilevanti per il dibattito sul mercato del lavoro. Allo stesso modo per cui il reddito pro-capite è una misura riduttiva del well being, il tasso di disoccupazione è una misura troppo povera per catturare lo sviluppo e lo stato di salute del mercato del lavoro e fallisce nel considerare ogni altro aspetto del lavoro che non sia l’occupabilità o l’accesso allo stesso. Questi argomenti ci mostrano quanto il capability approach ci obblighi a focalizzarci su un concetto di lavoro più ampio, e conseguentemente ci mostrano come le politiche del mercato del lavoro sono o dovrebbero essere parte di ogni politica dello sviluppo che miri a potenziare la capacità (Del Punta 2016).
Il capability approach ci obbliga a farci domande diverse riguardo all’occupazione di quelle consuete: non possiamo semplicemente considerare il tasso di occupazione effettiva e la sua evoluzione, ma dobbiamo domandarci se tutte le persone che vogliono lavorare sono in grado di farlo. Questo significa prendere in considerazione anche chi è inattivo, chiedendoci se il disoccupato ha la capacità di reintegrare se stesso nel mercato del lavoro senza rimanere bloccato in un segmento di occupazione precaria. E se, anziché avere di mira semplicemente il tasso di occupazione, consideriamo la qualità del lavoro, ad esempio i funzionamenti e le capacità che esso genera, guardando a ciò che gli individui possono ottenere con un dato insieme di caratteristiche del lavoro, dobbiamo necessariamente tenere in conto i loro bisogni e le loro condizioni personali, identificando così davvero lo sviluppo umano con la libertà sostanziale degli individui e spingendoci al contempo ad interrogarci su quali sono i mezzi che abbiamo bisogno di coltivare nella società per ottenere certi fini.
È innegabile, del resto, che «nella sua quintessenza la libertà individuale è un prodotto sociale» (Sen 2000a, 36) e che le stesse capabilities individuali dipendono in vari modi dalle interazioni sociali, dai tipi di vincoli che su di essa esercitano gli assetti sociali, dalle istituzioni esistenti e dal loro modo di funzionare, come ben sintetizza Sen nel titolo del suo testo La libertà individuale come impegno sociale (Sen 1999).
In modo speculare, d’altra parte, l’approccio delle capacità prevede il ruolo attivo e partecipativo dei soggetti individuali nel promuovere la realizzazione dei propri obiettivi, in quanto membri della società e agenti responsabili. Tale concezione ribalta la visione tradizionale dei destinatari delle politiche sociali come fruitori passivi e fornisce le basi per una concezione di welfare state attivo. (Sen 2000a, 25). Il rafforzamento dell’agency, mediante processi di empowerment tesi al controllo delle proprie vite, risulta essere la condizione per poter incidere sulle stesse strutture sociali. Ma poiché le capacità nel lavoro sono collegate ad altre che maturano e si perfezionano al di fuori del mercato del lavoro, le politiche occupazionali dovranno tenere conto anche di aspetti che esulano da tale mercato, quali la salute, l’inserimento in reti sociali, le condizioni abitative, l’accesso alla mobilità, l’eventuale discriminazione nella divisione sociale del lavoro. Ebbene, il paradigma delle capacità si presenta come un utile strumento che permette di riconoscere, a partire dalle differenze, aspetti e bisogni connessi all’occupazione e tra loro fortemente correlati, ma solitamente trascurati. Si noti che mentre tendenzialmente le politiche sociali si concentrano sugli stati ‘di essere’, l’approccio delle capacità considera insieme stati ‘di essere e di fare’, cosicchè il lavoro come ‘fare’ diventa parte integrante delle molteplici attività della vita in vista della realizzazione degli obiettivi cui si dà valore (motivo per cui l’esito finale delle policies potrà non essere necessariamente il medesimo per tutti i beneficiari).
Le capabilities, quindi, vanno valorizzate non in quanto mero strumento che permette agli individui di adattarsi alle variazioni del mercato del lavoro, ma in quanto espressione della libertà attiva nella vita e nel lavoro, capace di contribuire a dare un’impronta al mercato stesso. Anche le politiche del lavoro, di conseguenza, dovrebbero adattarsi ad un tale concetto dinamico e processuale, ed essere quindi misurate sulle traiettorie della vita e del lavoro individuale (Sen 1997b).
Se dunque si intende attribuire un ruolo di primo piano al paradigma seniano nella formulazione delle politiche del lavoro, sarà necessario tenere in conto sia la libertà nel mercato, che comprende la scelta di lavorare o meno e di quale lavoro fare, che la libertà nell’attività lavorativa, che riguarda le opzioni relative alla mobilità, alla formazione nel corso della vita, alle competenze professionali. Solo in questo quadro si coglie il lavoro come agency, in quanto ancorato alle concrete possibilità di vita e all’autonomia di scegliere un lavoro che abbia un valore, e anche, in alcune fasi del ciclo di vita, il ‘non lavoro’: ciò non significa necessariamente optare per l’ozio, ma, per esempio, impegnarsi in un lavoro di cura, d’impegno sociale, di studio e di formazione, cioè in attività che contribuiscono a creare valore e che costituiscono elementi essenziali nella costruzione in comune di un welfare state attivo.
L’obiettivo di politiche così concepite è innanzitutto promuovere una vasta gamma di capacità umane, mirando non solo a compensare situazioni di svantaggio economico, ma a stimolare modifiche strutturali in ambiti centrali della vita collettiva: il focus dell’attenzione si sposta dal particolare posto di lavoro al potenziale del lavoratore, passaggio che indica l’acquisizione di una visione positiva del lavoro e delle azioni finalizzate a sostenere l’empowerment delle persone, diversamente dal welfare passivo, che concepisce il lavoro come mera occupazione, fonte di reddito e di diritti (Pennacchi 2021). Le considerazioni che stanno alla base di questo slittamento di prospettiva non sono solo quelle utilitaristiche per cui una persona attiva lavorativamente non necessita più di assistenza e concorre, invece, con il suo reddito, a sostenere la ricchezza della nazione; si tratta, più in generale, secondo il suggerimento di Sen, di valutare le policies mettendo al primo posto ciò che esse fanno per rendere ‘buona’ la vita dei cittadini, secondo variabili focali più complesse, che tengano conto degli interessi e delle necessità concrete dell’individuo, ma anche dei suoi ideali, oltre che del suo senso di obbligazione e di responsabilità. Ci pare, allora, che il vero fattore di discontinuità rispetto al mainstream economico, e quindi l’apporto guadagnato dal capability approach alla concezione del lavoro, sia dato, in ultima analisi, dall’approdo, in esso implicato, ad un fondamento antropologico più ampio e articolato, che guarda all’uomo come essere ‘multidimensionale’, mosso da molte motivazioni e dalla tensione verso valori e progetti, dei quali il lavoro rappresenta, non di rado, componente fondamentale. Se, invece, il lavoro non è considerato un valore per le persone (e per l’intera società), ma solo una necessità, gli interventi che vengono immaginati risentiranno di una tale concezione riduttiva del suo significato umano, indicativa, più in generale, di una ristretta prospettiva antropologica (Mocellin 2016). Alla luce di ciò, l’attuazione del capability approach in questa direzione può essere rappresentata proprio da una conversione delle politiche verso un lavoro inteso come valore personale e sociale, fattore decisivo dello sviluppo: «Gli esseri umani, avendone l’occasione, si impegnano attivamente a forgiare il proprio destino e non si limitano a ricevere passivamente i frutti di un qualsiasi programma di sviluppo, anche ben congegnato» (Sen 2000a, 58)

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