Testo integrale con note e bibliografia

I tanti lettori di Riccardo Del Punta avranno sicuramente fatto caso che una delle parole più diffuse nei Suoi scritti sia “disagio”. Ed era pure l’espressione più adoperata negli interventi ai convegni, ovvia-mente con la “G” slittata tipica dei toscani.
“Disagio” è un’espressione che dà voce ad un sentimento e che fa appello al sentire, ai precordi che stanno prima ed oltre la razionalità del discorso giuridico.
Non è casuale dunque che le prime righe del Suo manuale di di-ritto del lavoro, che costituisce in qualche modo la summa del Suo pen-siero, siano attraversate dal medesimo sentimento: «il diritto ingenera di frequente, in chi lo studia e lo pratica, un latente senso di disagio (c. mio), l’origine profonda del quale si annida, probabilmente, nella perce-zione di una fondamentale inautenticità (c. dell’a.) dell’esperienza che si è soliti fare del diritto» .
Era ed è il segno della serietà e dell’onestà del Suo modo di avvi-cinarsi al diritto in genere ed al diritto del lavoro in specie.
La provvisorietà dei risultati acquisibili attraverso la riflessione giuridica era, non a caso, testimoniata dall’attitudine al dialogo con le tesi diverse dalle Sue e con la disponibilità a rimettere in discussione le proprie idee in presenza di argomenti ritenuti decisivi. È proprio per questo che Riccardo avvertiva tutta l’inquietudine (il disagio per l’appunto) a fissare una volta per tutte e definitivamente un punto fer-mo acquisito.
Al centro della Sua riflessione c’era ovviamente il diritto del lavo-ro, ma, mai come nel Suo caso, si può dire che la Sua attenzione si sof-fermasse sul fenomeno del lavoro visto in una dimensione più ampia, in cui il diritto doveva necessariamente dialogare con altre scienze sociali, a partire dall’economia, ma senza in alcun modo trascurare la filosofia, la storia e la sociologia.
Il lavoro veniva quindi studiato come fenomeno culturale com-plesso da contemplare anzitutto, data la Sua vocazione, nel prisma del discorso giuridico, ma senza obliterarne i vari piani di incidenza, a parti-re da quello etico e valoriale.
È una prospettiva che in qualche modo ribalta il punto di vista assunto in una riflessione del nostro comune Maestro, Giuseppe Pera , il quale si chiedeva in che misura fosse al contrario il diritto a penetrare nella cultura di altre scienze sociali, e ne ritrovava l’influsso nella storio-grafia, nella storia delle dottrine politiche, nella scienza della politica ed ovviamente nelle scienze economiche «nonché, variamente, in quella “scienza” che oggi è à la page, cioè nella sociologia» .
Invece nella prospettiva del diritto secondo Del Punta «l’interprete si trova disperso … in un mare magnum di criteri molteplici e, soprattutto, eterogenei, tanto da costringerlo a indossare lenti bifoca-li, che gli consentano di rivolgere lo sguardo alle familiari terre del si-stema giuridico, ma anche di spingerlo oltre».
A quello stesso interprete già il diritto in generale chiede «di met-tere definitivamente a fuoco la cosa nominata dal testo, vale a dire il problema che il testo ha mirato a risolvere, il che può fare solamente utilizzando, a seconda delle necessità e delle personali inclinazioni, le proprie conoscenze di natura storico-politica, sociologica, economica, filosofica, psicologica, medica ecc.» .
A maggior ragione, nella nostra e Sua area di interesse, egli è «chiamato a tener conto delle acquisizioni desumibili da altre scienze sociali, che assumono a oggetto di analisi i fenomeni presi in considera-zione dal diritto del lavoro, e che aspirano, a giusto titolo, a dire la loro sulle premesse di valore o sulle conseguenze sociali di date scelte nor-mative, influenzando così – a valle di tali scelte – gli stessi processi in-terpretativi» .
È in questo modo ed utilizzando questo metodo che, lungi dall’inquinarsi il discorso propriamente giuridico, il diritto del lavoro si apre ad apporti esterni che paradossalmente ne salvaguardano ancor meglio la positività.
Nelle parole estrapolate dal Suo testo universitario dunque vi è già in nuce un programma di lavoro che è anche un metodo, il Suo me-todo. Si può dire che Riccardo Del Punta, pur controllando incompara-bilmente il metodo giuridico, è al contempo consapevole della sua rela-tività.
Egli è perfettamente consapevole che l’apertura alle altre scienze sociali, cioè la scelta di fondare i paradigmi giuridici fuori dal diritto po-sitivo, su punti di vista esterni al diritto, comporta di necessità una sva-lutazione del grado di convincimento del discorso giuridico, che è anche alle origini della perdita di centralità del ruolo stesso del giurista quale mediatore sociale, che è stato sostituito, come vediamo tutti i giorni, dall’incalzare di altre presenze più rumorose e motivate (sociologi, eco-nomisti, politologi, etc.).
Tale consapevolezza non si traduce però in una sconfitta cultura-le: «il grande campo delle scienze umane – quali il diritto, l’etica, la filo-sofia – è … il regno delle prove razionali ma non dimostrative, che ri-mangono affidate al reperimento e al confronto pubblico, nello spazio comunicativo più libero e più ampio possibile, di buone ragioni. La verità del diritto è, pertanto, una verità debole, che si colloca sul piano del convincente/non convincente, più che del vero/falso, e che si pone, di conseguenza, come una verità sempre provvisoria ed esposta alla ridi-scussione» .
In sostanza – pensa e dice – anche il mondo dei valori, cui il di-ritto (del lavoro) va ascritto a pieno titolo, può contenere ragionamenti dotati di una qualche, se pur provvisoria e rivisitabile, oggettività. In-torno ad essi può aprirsi una discussione ra¬zionale, non lontanissima da quella che ha corso nell'ambito delle scienze esatte .
Come Massimo D’Antona, Riccardo «è consapevole, in buona so-stanza, della indispensabilità di uno statuto forte per il giurista, anche se ne avverte tutto l’immane peso e le difficoltà; uno statuto che, nella Sua visione, deve essere deontologico prima che epistemologico» .
Insomma il programma di lavoro leggibile in filigrana nella intro-duzione del Suo manuale illustra un progetto metodologico che, pur ri-fiutando le tradizionali categorie ermeneutiche, è consapevole della ne-cessità di selezionare con rigore opzioni interpretative alternative a quel-le suggerite dal diritto classico e soprattutto di farne discendere con coerenza i necessari sviluppi argomentativi.
Come si vede – e come è riflesso in tutta la Sua produzione scientifica – questa impostazione consente a chiunque un controllo cri-tico degli enunciati sia quanto alla metodologia cui essi fanno capo, sia quanto a svolgimenti conseguenti.
Sarebbe quindi riduttivo considerare Riccardo come un giurista, sia pur eminente. Egli era piuttosto uno “scienziato sociale” che ha sa-puto far dialogare il diritto con i saperi altri, pur mantenendo una non comune sensibilità per i problemi cruciali della scienza giuridica. Il che acuisce il rimpianto per quanto avremmo potuto ancora apprendere dal Suo magistero.

 

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