Testo integrale con note e bibliografia

L’ultima volta che ebbi occasione di incontrare Riccardo Del Punta fu ai primi di luglio 2021, a Lucca, in occasione di un convegno su economia e diritto del lavoro, organizzato dalla Fondazione Giuseppe Pera. Nonostante l’usuale figura elegante, appariva affaticato (dalle cure) e un po’ curvo, come se portasse sulle spalle il peso della malattia; ma sempre fiducioso. Al di fuori dell’aspetto fisico, però, era lo stesso Riccardo che avevo conosciuto, e fortemente apprezzato, 10 anni prima, presso il Ministero del Lavoro, quando su mia richiesta venne a trovarmi per verificare, se avremmo potuto collaborare nella redazione della riforma del mercato del lavoro (c’è sempre un po’ di reciproca diffidenza tra giuristi ed economisti). Sentii, fin da subito, di potermi pienamente fidare: profondo conoscitore del mondo del lavoro e delle sue complessità, aperto al confronto sui vincoli e sulle compatibilità dell’economia; dall’eloquio cristallino, privo di dogmatismo e di pomposità ma sempre basato su solidi schemi concettuali per l’interpretazione dei dati e l’analisi comparativa dei processi e dei risultati. Sinceramente europeista. Con un tratto umano raro, un sorriso buono e un sottile umorismo che affiorava ogni tanto dalla rigorosa compattezza delle sue analisi. Nessuna delle parole qui espresse è esagerata. Tra le persone con cui ho avuto modo di collaborare nel mio periodo ministeriale, Riccardo è sicuramenti tra quelli che ho maggiormente stimato; una di quelle persone che ogni tanto la vita, come dono, ti dà modo di conoscere.
Su richiesta del Presidente Mario Monti - e in adempimento dell’impegno assunto con la BCE per la sostenibilità del nostro debito sovrano, preso di mira sui mercati finanziari - dovevo preparare “la riforma del lavoro”, funzionale ad aumentare l’occupazione e a migliorarne produttività e qualità, e dunque anche la remunerazione. Era il mese di gennaio 2012. Il compito fu subito ostacolato dall’ostilità dei sindacati, irritati per la riforma pensionistica appena approvata e dal desiderio della “strana” maggioranza che appoggiava il governo di riappropriarsi dell’azione politica, dopo il decreto “Salva-Italia”, votato perché occorreva “salvare il Paese” ma molto mal digerito: il centro-destra berlusconiano/casiniano, desideroso di rompere “lacci e laccioli” e liberalizzare il mercato, e il centrosinistra bersaniano (già allora con varie frange di opposizione interna, dai Fassina agli Orfini), preoccupato soprattutto di evitare la rottura con la CGIL di Susanna Camusso.
Sapevo di non disporre, all’interno del Ministero, di competenze specifiche in grado di aiutarmi a trovare il giusto equilibrio tra le ragioni dell’impresa e quelle dei lavoratori, un equilibrio reso peraltro alquanto instabile sia dalla “Grande Recessione” seguita alla crisi finanziaria mondiale, sia dall’elevato valore simbolico (“identitario”, si direbbe oggi) dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del quale tutti si attendevano o temevano modifiche dopo l’esplicita richiesta della BCE al Governo italiano di: “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. (Lettera della BCE al governo italiano, a firma di J.C. Trichet e di Mario Draghi, del 5 agosto 2011).
Chiesi a Mario Monti di potermi rivolgere alla Banca d’Italia per un supporto tecnico e ne ricevetti, tra gli altri, la raccomandazione di ricorrere, per la parte più giuridica, proprio al Prof. Del Punta. Riccardo accettò prontamente, e senza domandarmi se fosse previsto un compenso. Avrebbe peraltro ricevuto risposta negativa dato che, come mi ricordava sempre il mio Capo di Gabinetto, Francesco Tomasone - grande “servitore” dello Stato, al quale devo riconoscenza, a dispetto di tutto quanto spesso sprezzantemente si dice sugli alti burocrati - “non ci sono soldi, ministro” (allora il termine “ministra” non era ancora in voga). Riuscimmo a mala pena a rimborsargli le spese per le trasferte da Pisa a Roma ma tant’è: sono ancora tante, fortunatamente, le persone che non pensano solo o prevalentemente ai soldi e al potere quando sono chiamati a svolgere un compito pubblico!
Non è questo il luogo per rievocare i mesi difficili e molto contrastati della preparazione della riforma. A cominciare dalla richiesta, espressamente rivolta al governo dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, di ricorrere al disegno di legge invece che al decreto legge, il che rese ovviamente più arduo il cammino, giacché ciascuna delle forze politiche aveva interessi propri da difendere, bandiere da sventolare, mentre il collante inizialmente fornito dal timore della crisi finanziaria si era già fortemente allentato.
Mi permetto peraltro di rinviare a un mio scritto , dove ho cercato di raccontare obiettivi, difficoltà e anche limiti di quella riforma, sulla quale, peraltro, molto è stato scritto, e con opinioni opposte, da persone di specifica competenza giuridica; e non spetta a me commentarle.
Per quanto riguarda il ruolo Riccardo - e prescindendo ovviamente dai suoi importanti contributi al diritto del lavoro – vorrei invece qui richiamare un suo commento: “Genesi e destini della riforma dell’art. 18”, scritto con la consueta (rara) onestà intellettuale e pubblicato in questa rivista, nel luglio 2022, in occasione del decimo anniversario della legge 92/2012 . Un commento dal quale traspare tutta la consapevolezza degli innumerevoli trade-off economici e politici impliciti nell’ordinamento di una materia, come la disciplina dei licenziamenti, così intrisa di valori, convinzioni, consuetudini e anche luoghi comuni. E’ inutile ricordare come il testo finale non coincidesse con quello iniziale - più tecnico - predisposto, in gran parte su input suoi e di altre due figure di grande spessore culturale e apertura mentale che, in modi diversi, contribuirono a “forgiare” quella riforma: Pietro Ichino e Tiziano Treu, entrambi punti di riferimento di quella sinistra riformatrice e progressista che sembra oggi avere perso missione e senso di direzione. Ancorché le opinioni non fossero sempre coincidenti, ritrovavo sempre, anche nelle discussioni accese, il chiaro marchio di una “scuola” alta, di pensiero e di valori, necessaria premessa di ogni convergenza.
Ricordo le lunghe sessioni di lavoro, talvolta intervallate da una chiamata urgente o dall’eco di un attacco “al Ministro”. In questi casi, le parole di Riccardo erano sempre scarne; erano i suoi occhi a parlare, e capivi che ne ricavava un impulso a impegnarsi ancora di più per arrivare a un risultato per “migliorare per il Paese”, ma sempre senza enfasi, senza desiderio di apparire. Un modo quasi “sabaudo” di esprimere la sua solidarietà.
Il modello che ci ha ispirato era la flexcurity, anglicismo allora molto in voga, che indicava come obiettivo proprio un equilibrio stabile tra la ricerca di maggiore flessibilità nell’impiego della forza di lavoro, tale da favorirne la domanda, e una “giusta” protezione per il lavoratore, in modo da tutelarlo senza scoraggiarne l’offerta. Un ideale da interpretarsi, nella nostra concezione, soprattutto in chiave generazionale e di genere, essendosi, la flessibilità già introdotta (con il pacchetto Treu e, più ancora, con la riforma Biagi del 2003), trasformata nel tempo in precarietà, soprattutto a danno di giovani e donne - a dimostrazione di come anche leggi buone possano talvolta generare effetti opposti a quelli voluti dal legislatore; ed essendosi la rigidità concentrata, , soprattutto in un segmento del mercato del lavoro, coincidente con il gruppo dei “maschi adulti”.
Si trattava pertanto di continuare la strada già intrapresa, e fortemente raccomandata dalle istituzioni internazionali come l’OCSE, per superare le segmentazioni nel mondo del lavoro e la divisione tra garantiti, da un lato, e marginalizzati ed esclusi, dall’altro e realizzare un mercato del lavoro “inclusivo e dinamico” (come, ambiziosamente, è scritto nell’articolo 1 della legge 92/2012). Eravamo, peraltro, ben consapevoli che le buone norme possono favorire il raggiungimento di questi obiettivi, ma da sole non bastano: per evitare che restino lettera morta o producano effetti contrari agli obiettivi, occorre che esse siano condivise, che “vivano” nella società e contribuiscano a cambiarne, nella corretta direzione, i comportamenti. Forse nessuna riforma come quella del lavoro, tocca altrettanto in profondità tutta la società, famiglie, imprese, scuola e istituzioni, con i loro diversi, spesso opposti, interessi.
La riforma, articolata e complessa, si sviluppò lungo quattro direttrici principali:
i. maggiore stabilità in entrata, con le norme sull’apprendistato, per migliorare il raccordo tra il mondo della formazione e quello del lavoro; sui tirocini, in modo ridurne l’abuso; sui contratti atipici e sulle “false” partite IVA per sfoltirne il numero;
ii. minore rigidità in uscita, con la riforma dell’art. - 18 volta ad allineare la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi agli standard europei - e la creazione di un rito processuale “ad hoc”, caratterizzato da termini ridotti e regole di svolgimento più snelle;
iii. ammortizzatori sociali, tutela del reddito del lavoratore e contrasto alla povertà, con una riformulazione degli strumenti assicurativi e di sostegno al reddito e la creazione di ASpI/mini-ASpI (poi trasformata in NASpI dal Jobs Act) e dei fondi di solidarietà bilaterali;
iv. politiche attive e servizi per il lavoro, con la predisposizione di un disegno generale per la formulazione e la gestione delle politiche attive, eterne “non pervenute” (se si escludono alcune regioni del Paese) nell'operato pubblico in materia di lavoro, anche a causa di una insoddisfacente divisione dei compiti tra lo stato centrale e le Regioni.
Dire che la riforma sia stata poco bene accolta è certo un eufemismo. Anche di questo, con un po’ di amarezza, abbiamo spesso parlato con Riccardo, che mi invitava a guardare oltre la meschinità del “personalismo” delle critiche: senza disconoscere le debolezze dell’impianto normativo, le giudicava parte della “realpolitik”. Critiche aspre sono arrivate da destra per la riduzione della flessibilità in entrata senza neppure l’ampliamento di quella in uscita, con la sostanziale abolizione dell’art. 18; e da sinistra, che all’opposto vi vedeva un “eccesso di flessibilità”, varco per un inasprimento dello sfruttamento dei lavoratori e, nella modifica dell’art. 18, una demolizione dell’impianto normativo a loro protezione dei lavoratori. Due visioni opposte, inasprite forse non tanto da una diversa ideologia, quanto dalla durezza della Grande Recessione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria.
Nessuna riforma è però una bacchetta magica capace risolvere con immediatezza ed efficacia i problemi per i quali è stata predisposta. In particolare, la riforma del mercato del lavoro non è lo strumento ideale per combattere gli effetti occupazionali della recessione. Senza un quadro macroeconomico di crescita, di ricerca e innovazione, di istruzione diffusa e crescente, è difficile creare occupazione, che sia non solo “nuova” ma anche “buona” . Il suo scopo è invece di rendere possibile un percorso seguendo il quale si risolvono gradualmente almeno i problemi più acuti; un percorso di recupero di produttività che apra nuove vie allo sviluppo, ma anche, e direi soprattutto, di recupero della dignità del lavoro, di adeguata e continua formazione professionale, di mobilità vissuta come un’opportunità e non come infelice necessità. L’equità e l’efficacia, però, non sono soltanto il frutto di norme, ma anche, e forse soprattutto, di comportamenti virtuosi da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori – entrambi sia come singoli, sia come organizzazioni - e più in generale di tutti i cittadini, tutti coloro i quali concretamente e consapevolmente riescono a vedere nelle scelte di oggi le condizioni per un migliore domani. Tale realizzazione richiede però un’azione a vasto raggio, la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, la costanza e la determinazione nel perseguimento di risultati che non possono non essere che di medio termine.
Era questa la visione che ispirava non solo gli studi e l’insegnamento ma la pratica quotidiana di Riccardo Del Punta.

 

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