Testo integrale con note e bibliografia

1. Conosco Riccardo da quando si laureò (1982) a Pisa, discutendo con Giuseppe Pera una tesi sui licenziamenti collettivi. L’iniziale frequentazione fu nelle austere sale della Sapienza, in cui sono accolti i libri dell’istituto fondato da Giuseppe Bottai e poi proseguito da Luisa Riva Sanseverino; sale allora animate, oltre che da Pera, onnipresente, da giovani autoctoni, anzitutto Oronzo Mazzotta, che veniva però da Lecce, nonché Riccardo Diamanti, ma anche da una colonia bolognese: Gian Guido Balandi e Marco Biagi oltre al sottoscritto (nel 1974 ebbi l’incarico ad Economia, dove prima insegnava Luigi Montuschi).
RDP era un giovane di grande garbo, colto, curioso e interessato al mondo, che parlava – in un tono basso, quasi mezza voce - con padronanza e ironia. Cessato nel 1985 il mio periodo pisano, le occasioni di incontro-confronto con RDP si rarefecero, ma divennero per così dire più personalizzate. Era percepibile che, oltre la cura della giurisprudenza e, monograficamente, del tema della sospensione del rapporto di lavoro, dentro Riccardo covavano le qualità di intelligenza e cultura di chi intende impossessarsi della materia e dei suoi snodi più profondi.
Nei quarantanni della sua attività scientifica RDP ha in effetti fornito una prestazione imponente, nel senso (non tanto e solo quantitativo, ma) di costituita in grande misura da scritti di pregio e qualità non usuali e sempre più ravvivati dalla varietà di approcci e visuali che Riccardo sperimentava nella continua ricerca di interpretazioni, fondamenti valoriali ed esplicazioni metodologiche . E nel contempo non si è risparmiato proprio in nulla, per la sua incontenibile esigenza di esprimersi ovunque la passione e il ruolo lo spingessero a fare dando sempre il meglio di sè. Come insegnante (associato a Siena nel 1992 e ordinario a Firenze nel 1999) ha fornito agli studenti una accuratissima didattica, assieme a valenti collaboratori, spesso sollecitando gli apporti competenti di colleghi esterni; ha contribuito attivamente ad eventi culturali; ha partecipato ad associazioni professionali e scientifiche, venendo eletto nei loro organi o anche presiedendole; ha concorso in modo fattivo ad iniziative di gruppo e/o, diciamo, di pressione scientifico-accademica; si è speso in conferenze, curatele e nel contributo ad opere collettive, rispondendo generosamente a tutto quanto ritenesse doveroso ; ha preso parte con continuità al dibattito giuslavoristico internazionale; ha operato per decenni quale avvocato di alto livello, dentro un’inedita struttura professionale; e, non ultimo, è stato un valido consigliere del principe in momenti difficili per la politica e le istituzioni italiane .
Un dispendio di energie insostenibile, come alla fine venne pure da pensare, dato che neppur nel corso della malattia e in mezzo a gravose terapie si era risparmiato.
Nel cocente dolore per la sua perdita sono stato preso dall’impulso di ripercorrere in toto il variegato e anche sussultorio viaggio che aveva compiuto. Non era un pensiero realistico, bensì d’affetto; né mi pento di questo zelo imprudente perché mi ha dato modo di conoscere per la prima volta svariati suoi scritti, nonché di approfondire in misura maggiore, anche se non bastante, numerosi altri scritti che già conoscevo. E anzi ringrazio Riccardo per il piacere personale che ho tratto dall’aver potuto ancora interloquire con lui in qualche «dove» aveva tanto riflettuto e inventato, con condivisioni anche emotive che tuttora arricchiscono lo standard della nostra comunicazione.
Con ciò resto tuttavia ben lontano dal poter padroneggiare l’insieme della sua opera e attribuirgli l’onore che merita: per una tale impresa occorre molto e molto di più! In breve, e tornando a noi, più che misurarmi con l’intero, incontenibile itinerario di scelte, di studi e di approfondimenti di RDP, nella presente occasione proverò a riferire qualche dato, pensiero, filone o accorgimento in cui si rivela la sua apertura intellettuale e si esprimono le sue visioni piene di cura e acutezza, azzardando di dire qualcosa pure sugli intenti e le ambizioni che lo muovevano e cioè sulla eredità, gravosa quanto irrinunciabile, che ci ha lasciato.

2. Viene anzitutto da fare qualche osservazione generale e trasversale. A partire dalla «scrittura» di RDP, dal suo modo di scrivere contrassegnato dalla chiarezza (carattere che il suo Maestro considerava indispensabile) e dall’eleganza per contenerne la problematicità; con incipit intrisi di fantasia e di intelligenza, per introdurre in modo imprevedibile un discorso spesso complicato e ipotattico, dovendo essere consono al tasso di difficoltà di quanto sceglieva di analizzare. Del resto in ogni realtà che muta, e quella lavoristica è mutata in termini radicali dagli anni ’80 del secolo scorso, si debbono delineare elementi, fattori e concetti, per i quali non c’è subito a disposizione il linguaggio occorrente.
Voglio dire che Riccardo era incline a valorizzare approcci o metodi inediti, a volte neppur appartenenti allo strumentario giuridico: per capire e far capire stava in agguato, non a caso, sempre alla ricerca di parole che significano il cambiamento e ancora mancano, e quindi per approfittare di una sorta di dumping cognitivo. Credo sia questa la ragione di fondo per cui, nelle sue esposizioni, RDP spesso introduce condizionalità, mediazioni, riserve, precisazioni a latere, digressioni personali, ecc. le quali infittiscono di subordinate il periodo e in generale rendono più complesso il discorso: snodi con cui nella consecuzione principale vengono introdotte varianti, o accennati argomenti analoghi, o alluse circostanze concomitanti, con tacita esortazione a tenerne conto. Spesso ne ho l’impressione che Riccardo voglia richiamare il lettore (azzardo che qualche volta, col tempo, si potrebbe dire il «discente»: ma non gli attribuisco intenti invasivi), quasi per esortarlo ad impossessarsi di cognizioni più profonde e mature, o comunque per affinare le componenti della sua comprensione.
Di questo andamento diciamo problematizzante, o cauto (che può tracimare in una palla al piede. ma in RDP si realizza in modo leggero e noncurante, per così dire di sghimbescio, quasi stilema coltivato - forse attraverso le sue intense frequentazioni letterarie: ma non mi arrischio a indicare predilezioni, né a fare supposizioni), preme mettere in risalto come, caricandolo di siffatti elementi collaterali il discorso risulti esplicativamente più ricco di possibilità: esso viene per così dire infarcito di «sottintesi» che Riccardo è più contento e tranquillo se non restano tali.
Grazie a tale atteggiamento, insomma, si introducono nel discorso aspetti opinabili, ma pure presumibili, o di ragionevole probabilità, che spesso concorrono a rendere più pertinente un assunto o più condivisibile una dimostrazione (e ciò sarebbe ancora più vero in un contesto - habermasianamente – di situazione comunicativa ideale: v. infra n. 5). Non è quindi casuale che, all’esito, l’argomentazione ne risulti munita di maggior attitudine persuasiva e riveli preziose connessioni con le tecniche normative e/o i valori istituzionali che erano emersi. Del resto fra linguaggi che descrivono nuove realtà e/o indicano nuovi valori e nel contempo sperimentano nuove metodologie, si istituiscono corrispondenze sinergiche; e a ciò non fa eccezione l’indagine nel campo giuridico in ispecie giuslavoristico .
Merita un’osservazione generale pure ciò che potrebbe definirsi l’apprendistato di RDP. E’ risaputo che una delle componenti più caratterizzanti della sua formazione scientifica sia la cura nella ricognizione della giurisprudenza e l’attenta verifica delle sue oscillazioni (atteggiamenti certo influenzati dalla vicinanza di un maestro come Pera) . Se all’esuberanza intellettuale di Riccardo l’accentuazione in discorso andava agli inizi un po' stretta, nel lungo periodo non l’ha mai trovata ingombrante: valorizzatore dei formanti che concorrono a strutturare il diritto del lavoro, sapeva bene che al fine della sua comprensione era imprescindibile la conoscenza più massiccia del diritto giudiziario (o se si vuole «vivente»). Per questa ragione la personalità scientifica di RDP è stata sempre caratterizzata da una curvatura e sensibilità speciali, che gli consentono di estrarre linee di fondo, o di possibile cambiamento, pure da (complessi di) decisioni per cosi dire in movimento, in una dimensione prospettica che è latamente apparentata con un intento nomofilattico .
Va poi aggiunto che anche nel periodo iniziale, di grande cura e attenzione per la giurisprudenza, le questioni analizzate da RDP non sono di poco conto. Oltre agli istituti o rivoli che si collegano alla sospensione del rapporto di lavoro (malattia, comporto, ferie, permessi, aspettative, cure idrotermali, fasce orarie di reperibilità, ecc.) esse si riferiscono a: licenziamenti (individuali, specie economici, e collettivi), criteri di scelta, cassa integrazione guadagni, parità di trattamento, appalti di manodopera, divieto di interposizione, esternalizzazioni, lavoro temporaneo, part-time, contratto a termine, ecc. ecc. E queste tematiche, e/o altre di pari importanza nell’ossatura problematica del diritto del lavoro, hanno continuato ad essere all’attenzione di RDP, in una permanente corroborazione di ciò che potrebbe chiamarsi il suo zoccolo duro.

3. Nel mezzo dei cambiamenti economico-politici globali che investono l’intero pianeta, negli anni ’90 si acuisce comunque in RDP pure la propensione ad affrontare tematiche di considerevole rilievo e a cogliere, nel diritto del lavoro nostro e/o almeno europeo, circostanze o fattori che meritano di essere collocati in contesti più complessivi pure di tipo extragiuridico. Invero, in una serie di scritti, che indico senza analizzarli partitamente , compaiono tematiche, aspetti od interrogativi dalla cui analisi sortisce una accumulazione anche disordinata di intelligenti tasselli. Fino a quando, andando ben oltre tali scorribande, per completare il puzzle esaltandone il punto focale, nel 2001 compare un saggio, denso e colto, articolato in progressioni piene di acutezza ed equilibrio, che affronta in modo deliberato «il dialogo metodologico» fra diritto del lavoro ed economia.
L’economia e le ragioni del diritto del lavoro è un inno alla necessità dell’apertura cognitiva del diritto del lavoro al sapere economico e resterà una pietra miliare, tanto che lo stesso RDP dichiara, ventanni dopo, di continuare ad ispirarsi ai principi o criteri enucleati in quel saggio (v. infra, 7). Stante la molteplicità e diversificazione delle scuole economiche, in esso Riccardo identifica come interlocutore, per una oculata preferenza, non la teoria neoclassica, con speciale rifiuto per gli assunti considerati estremistici di Friedrich von Hayek, ma – e tralascio le progressioni analitiche di avvicinamento – la versione neo-istituzionalistica della teoria economica accreditata da Ronald Coase e Oliver Williamson. Con l’occhio così volto alla visuale dell’economia dei costi di transazione, RDP si esercita poi in una impegnativa ricerca di «compromessi equilibrati fra libertà ed eguaglianza, rischio e solidarietà, efficienza e socialità», che nella discussione dei decenni precedenti sono le coppie in tensione i cui termini debbono essere conciliati se non armonizzati. Specie nel suo concludersi, infine, traspaiono nel saggio notazioni che non disdegnano di assecondare la «tendenza alla riscoperta della dimensione individuale, che sembra la cifra dominante del secolo appena cominciato» .
Non che da noi fossero mancate, negli anni precedenti, prese di posizione, o anche opere strutturate, in cui cause e/o conseguenze economiche, o fallimenti del mercato venivano correlate al funzionamento delle norme giuslavoristiche, ovvero utilizzate per dotare di senso effettuale la loro interpretazione. Basti pensare alle pertinacia di Pietro Ichino nell’avvalersi a tali fini di teorie o concezioni economiche – come quelle dell’occupazione (insiders-outsiders) o sul carattere monopsonistico del mercato del lavoro - per ricavare argomenti, se non ricostruzioni giuridiche esplicate da, e pure esplicanti, effetti salariali o occupazionali . E infatti, nel saggio in esame, RDP riconosce che ricostruzioni come quelle di Ichino (a volte insieme al fratello Andrea) consentono approfondimenti, con cui corroborare o smentire pure affermazioni o dimostrazioni di ordine giuridico. Ma con le quaranta, magistrali, pagine di Riccardo, si produce una ripercussione che, oltre a consolidare il valore di impostazioni siffatte, sanciscono un passaggio di fondo che incide in qualche misura sullo stesso mainstream lavoristico: a questo viene invero sbattuta in faccia l’esigenza indifferibile di stabilire un reale confronto con il pensiero economico, imponendo di sciogliere il dilemma pro o contro a favore del primo corno.
A me pare infatti che, dopo, nella discussione giuslavoristica risulti sempre più inadeguata l’assenza di consapevolezza che ne sia componente essenziale pure quanto attiene al funzionamento dell’economia, con riguardo sia dell’efficienza dell’impresa, sia delle ripercussioni che ne derivano per il mercato del lavoro. Nella trattazione di questioni di tal fatta, inoltre, mi pare che, dopo, diventi sempre meno ammissibile l’approssimazione, o la supponenza, ovvero un atteggiamento che porti a sottovalutarle; magari affermando la preferenza, se non preminenza, di metodologie giuridiche, diciamo, più ortodosse, consuete e inesorabilmente «spiazzate»; o anche, più specificamente, riaffermando la preferibilità di conservare al diritto del lavoro la curvatura hegelo-marxiana che gli garantisce la primogenitura politica, ma che alla lunga lo rende insensibile a cogliere e decifrare il cambiamento di quegli anni. Sciogliendo quel dilemma nel senso auspicato da Riccardo, insomma, si avvia un primo passo molto significativo verso la configurazione di una epistemologia del diritto del lavoro.

4. Forse eccedo nel suggerire uno spartiacque, un prima/dopo: ma ormai da anni il lavoro stava veramente cambiando, e in modo diseguale e sparigliato, assieme alle facce di un mondo globalizzato che lo esprimeva nella sopraffazione neoliberista, eppur arrecando ricchezza e producendo qualche vantaggio nei paesi poveri che approfittano del dumping. Mentre nel nostro giuslavorismo, di fronte alla flessibilità, di cui si invocava smaccatamente l’aumento in nome della efficienza economicahe, si era eretta, in nome invece dell’eguaglianza, un’idea conservativa della protezione che salvaguardasse, se non accentuasse, la tecnica della inderogabilità collaudata da storia e politica. In una tale contrapposizione, semplificando, emerse un neppur silente, e comunque palpabile, dissenso ideologico, che rese palese il contrasto che si approfondiva fra «due sinistre»: pure a questo riguardo si potrebbe parlare di un prima e un dopo, alludendo questa volta allo spartiacque della uccisione di eminenti colleghi.
Di tale movimentata e drammatica storia - che va dal protocollo Giugni del 1993 al periodo del berlusconismo dentro il nuovo millennio e comprende gli omicidi di Massimo D’Antona e di Marco Biagi (con in mezzo il Libro Bianco e, poi, il varo della legge a Marco intitolata) - Riccardo è stato partecipe profondo ed equilibrato, nel senso che ha bensì sollevato critiche. ma senza settarismi, esplicando e valorizzando quel che essa (storia-cronaca) esprimeva di plausibile ed accettabile . Egli partecipò, tra l’altro, al Commentario al cd. decreto Biagi che coordinai presso l’editore Zanichelli : iniziativa che, oltre ad un qualche valore accademico-scientifico, ebbe una valenza lato sensu politica, in quanto intendeva pure mostrare come, nella nuova legislazione intitolata a Biagi (e, prima, nel «Libro bianco») ci fosse del buono (che Riccardo, avendo in mente il quadro europeo, chiama intento di «modernizzazione»), in mezzo al migliorabile e pure, come sempre, al «malfatto» .
Nel contempo, anche in quegli anni RDP prosegue a collezionare tessere esplicative, o integrative dei nodi di fondo (o collaterali ad essi), che il saggio del 2001 aveva fatto emergere , arricchendo l’habitat in cui matura, fra l’altro (non posso dar conto di tutto) un ulteriore ragguardevole saggio che ne costituisce sia la continuazione che il completamento. Ribadendo la necessità che il diritto del lavoro debba «ammettere l’economia al tavolo dei suoi formanti», in Epistemologia breve del diritto del lavoro RDP affronta le teorie proceduraliste di Jürgen Habermas, in un difficile tentativo di integrarne il pensiero nel rinnovamento epistemologico del diritto del lavoro. Il discorso è di ingegnosa eleganza: assumendo che l’asserita «crisi» (da krinein) del diritto del lavoro abbia una portata «anche teorica, avendo messo a nudo la [sua] incapacità di adeguare le proprie strutture cognitive e valutative», RDP ipotizza che abbia bisogno di una «torsione kantiana», dopo che il motore culturale hegelo-marxiano ha «istillato nella coscienza giuslavoristica la convinzione e la tranquillità morale di stare dalla parte giusta del processo storico».
Da questo contesto politico-filosofico, che tratteggia con maestria definendolo «intrigante», Riccardo sviluppa una raffinata, quanto ardua progressione argomentativa, sfociante nella definizione habermasiana della «situazione comunicativa ideale»: quella che dovrebbe patrocinare, o almeno favorire, l’avvicinamento alla verità che è consustanziale ad una democrazia procedurale . Auspicando come molti che un giorno il processo comunicativo si strutturi sulla base di un siffatto paradigma discorsivo, voglio rendere però il disincanto con cui Riccardo relativizza la sua impegnativa ricostruzione. Egli scrive: «Di questa teoria proceduralista, che rappresenta il massimo di fondazione trascendentale che Habermas reputa attingibile nell’epoca del politeismo dei valori e del pluralismo degli interessi, non si dimenticano qui le aporie né i limiti, che una vasta letteratura critica non ha esitato a denunciare, tanto da lasciare l’impressione finale di uno splendido fallimento teorico» .

5. Di fronte alla varietà dei suoi molteplici e stimolanti scritti vien da pensare - l’ho già congetturato - che RDP si considerasse tenuto a (avesse l’ambizione di) offrire il suo apporto ovunque o quando sentisse che era opportuno o utile, impegnandosi al massimo nella prestazione fornita. Grandi o piccole che fossero le cose, doveva sempre dare il meglio di sé: così era nella sua indole e il farlo, comunque, lo gratificava. A ben vedere tale inclinazione è il risvolto di una dote intimamente assimilata - quella dell’apertura all’ascolto di tutti senza che implicasse acquiescenza a ciò che non condivideva (e a cui, anzi, a volte reagiva ). In quanto intellettuale, studioso, accademico, e insomma privilegiato nella possibilità e capacità di conoscere, mi pare che qui Riccardo interpreti con una sorta di umiltà ambiziosa il dovere di ogni cittadino scolpito nel 2° comma dell’art. 4, Cost.
Un siffatto coinvolgimento mi pare emergere anche, ad esempio, quando approfondisce autori, giuristi o non, per commentarli, o per assimilare quanto esprimono, o ancor più per afferrare la valenza della loro opera per il diritto del lavoro. Non mi riferisco a prefazioni di libri, genere da lui non molto praticato , ma a recensioni che di frequente assumono una completezza così accurata e penetrante da trasformarsi in studi oltremodo impegnativi (chiamiamole recensioni-saggio). Non posso soffermarmi sugli scritti che presentano questo carattere , ma occorre almeno dedicare qualche osservazione alla «proposta di lettura del pensiero di Amartya Sen in una prospettiva giuslvoristica» perché consente un piccolo, e insufficiente, riferimento alla problematica dalle capabilities .
Con il cd. capability approach - promosso, semplificando, fin dagli anni ottanta del secolo scorso dal duo Martha Nussbaum e Amartya Sen (che, pervero, patrocinano due impostazioni per molti aspetti diverse: ma non mi attardo) - si intende un cambiamento radicale nei modi o criteri di valutazione del benessere umano e degli stati o fattori che lo costituiscono; una configurazione innovativa che è di particolare rilevanza giuslavoristica in quanto appare superare la dimensione reddituale, o per così dire monetaria, nonché i fattori di efficienza cui è correlata, che nel welfarismo hanno avuto una portata, se non esclusiva, predominante.
La considerazione delle capacità, invece, impone di spostare l’attenzione sui «funzionamenti», che sono gli stati, per lo più interconnessi, o le attività di una persona: ciò che un individuo aspira ad essere, o a fare, ovvero è capace di essere o di fare. Si tratta di dimensioni elementari, come godere di una buona salute, o addirittura essere felici, avere autostima, o un lavoro soddisfacente, o una buona istruzione, o ancora contare su un buon nutrimento, ecc. ecc., Orbene, se essere in grado di fruire di queste opportunità è individuato come una componente delle proiezioni personali, la capacità è una dimensione apparentata, o vicina, all’essere l’oggetto di un diritto, aprendosi quindi per ogni individuo la sconfinata possibilità di esserne titolari.
In conclusione, sanza farla lunga, l’approccio in esame sarebbe un arricchimento, e anzi un rovesciamento, dei modi consueti di redistribuire vantaggi e di allocare risorse. Ma nonostante la sua attrattività la ripercussione dell’approccio sul piano giuridico mi pare allo stato piuttosto impalpabile. Resta invero da risolvere (hic Rhodus, hic saltus) il problema forse più formidabile: individuare, o escogitare, il meccanismo normativo, o la tecnica applicativa, che consente e/o raffforza l’imputazione al singolo dei benefici e delle posizioni che conseguono alla affermazione di un siffatto, ben condivisibile, valore.
Quando scrive di questo argomento pure RDP incontra un altissimo tasso di difficoltà nel farsi capire; ma non può non cercare di sviscerarlo perché, nella sua ricerca a largo raggio, era inevitabile il confronto con Amartya Kumar Sen . Riccardo non si tira indietro quando deve chiarire i pensieri più ardui e innovativi - e insomma, bisogna dire il vero: là dove altri (ricomprendo fra essi il sottoscritto) stentano ad avere il coraggio di mettersi in gioco e, se occorre, di fare i conti con chi appare veramente in grado di incidere sulla realtà delle cose.
L’approccio delle capacità, la cui realizzazione è parte indisponibile dell’eredità di Riccardo, esige un intenso approfondimento; e molti, spero, vi impiegheranno tempo e acume.

6. L’idea di cosa Riccardo volesse fare, di quali fossero gli obiettivi del pensiero che veniva dipanando e chiarificando, è stata in lui sempre (o fin dal 2001, la data spartiacque) molto chiara ed esplicita. Nella falsariga, consueta e prediletta, del dialogo fra diritto del lavoro e scienza economica, e in vena di autocitazioni (dalle quali è sempre rifuggito), per escludere (ancora una volta) che «una regola giuridica possa trovare un valido fondamento solamente in considerazioni di efficienza», RDP ebbe a puntualizzare: «l’essenza della razionalità (o ragione) giuridica, segnatamente giuslavoristica è di essere una razionalità di sintesi che assorbe la razionalità economica in un quadro di riferimento più ampio» [corsivo del 2019] .
Questo concetto di una «razionalità di sintesi», posseduta nella sua «essenza» dal diritto del lavoro, viene ulteriormente replicato nel Manifesto redatto nel 2020 con Caruso e Treu, nel quale si legge: «La razionalità giuslavoristica non deve essere contrapposta ad altre razionalità, economiche o altre, ma deve concepirsi come una razionalità di sintesi che benefici del fatto di essere il terminale di un ampio novero di informazioni provenienti dalle varie forme del sapere sociale» .
Vi è, in questa insistenza sulla razionalità di sintesi, la massima espressione dell’orgoglio giuslavoristico: dentro e intorno al «lavoro» e all’«opera» si coagula come in un crogiolo l’intero «sapere sociale», che quindi trova in essi (lavoro e opera) il «terminale» per discuterne ( ). Pure cosa si debba intendere per «sapere sociale» Riccardo ha provato a dirlo, nonostante la latitudine quasi ingestibile dell’espressione: basta leggere il luminoso Capitolo III (della Sezione Prima del Manuale), intitolato «Diritto del lavoro e scienze sociali», dove è condensata una completa e ammirevole silloge di quel sapere esorbitante.
In effetti, l’obiettivo di fondo della elaborazione scientifica di RDP è una ininterrotta ricerca intorno alla complessità giuslavoristica per munirla di una epistemologia, ovvero, più semplicemente, è l’erezione di una «filosofia del diritto del lavoro» . Che il lavoro, e l’opera, siano realmente le cose più importanti per l’esistenza umana?


7. Ma può ancora dirsi questo? E’ ancora plausibile una simile affermazione? Riccardo pervero si interroga pure su una questione siffatta, che apre a campi oltremodo impegnativi, e con avvicinamenti attraversando itinerari impensabili.
«Di che cosa va in cerca l’uomo? Che cosa lo affligge? Qual è la sua malattia, alla quale neppure sa dare un nome» . Con queste domande inizia il saggio su Giorgio Gabersceik, psicoanalizzato con emozione, disincanto e sensibilità anche (duramente) politica, per interrogare così pure se stesso. Perlustrando quarantanni di produzione poetico-musicale geniale, messa tutta al setaccio per non tralasciare nulla, come si fa parlando con un venerabile amico quando ci si confronta su situazioni di vita, delusioni, valori e ideologie .
Nel dialogo, demistificando miti, il lavoro diventa «esso stesso una maschera, al riparo della quale continuano a scatenarsi le pulsioni elementari del culto dell’immagine e del dominio sul prossimo»; finchè «nel buio del più cupo pessimismo … si accendono all’improvviso bagliori di speranza» e si presenta «il sogno di un rinnovamento profondo dell’uomo e della sua capacità di abitare, in modo vitale ed autentico, questo mondo» (ormai confondo chi parla, se Riccardo o Giorgio). Di certo è Gaber a cantare, alla fine: «perché l’individuo non muore, resiste fra tanto frastuono e si muove nel dubbio, che in fondo è da sempre il destino dell’uomo… e riprova l’antica emozione di avere le ali» .
Chi di noi sarebbe riuscito a scrivere un saggio letterario, di commento poetico, ma in sostanza giuslavoristico, su Giorgio Gaber? Solo un fuoriclasse poteva farlo. A proposito: era di destra o di sinistra? Chiederselo è quasi una balordaggine, anche trentanni fa. Neppure rispetto a Riccardo vien da chiedersi se è di destra o di sinistra, o se lo fosse trentanni fa, quando in Versilia sentiva il canto. Subito avvertiamo che, come per Gaber, la domanda non ci azzecca: anche se in proposito qualche idea può venire in mente. E’ interessante che Riccardo abbia sentito il dovere e/o il piacere, in tre occasioni ( l’ultima molto recente), di interessarsi del come la pensasse Bruno Trentin, ovvero di penetrare cosa stesse dietro alla sua inquieta insoddisfazione .
E’ però tempo di concludere il profilo minimo che mi ripromettevo, anche se non la finirei mai di esporre, al di là di volanti supposizioni, le ragioni dell’importanza di quanto RDP ha provato a trasmetterci in questi anni, dando ripetuti e insistiti scossoni alla materia. Anche se non sono riuscito a riflettere a sufficienza sulla produzione più recente di Riccardo , che è inevitabilmente più sofferta per l’incedere del male, ma non meno lucida e acuta e anzi, mi pare, ancora più equilibrata e matura. In essa vi è sempre una compatta e sicura articolazione del suo multiforme sapere, ma a volte affiora non dico un certo pessimismo, né tanto meno rassegnazione, bensì piuttosto l’esigenza di un ultimo ribadimento assertivo, in cui insinuare pure una relativizzazione dell orgoglio giuslavoristico (perché il lavoro e l’opera forse non sono tutto per l’esistenza e non è detto che, nel dubbio, non scopriremo di avere le ali).
Il lascito di RDP è enorme e ancora dilatabile: sta a noi trarne suggerimenti e indicazioni per incrementarlo con la dotazione di ulteriori concetti, interpretazioni e metodologie che forniscano al diritto del lavoro la forza necessaria per resistere e sopravvivere in un mondo in cui le disuguaglianze, le inefficienze e le povertà sono diventate tanto intense da risultare insostenibili, se non distruttive.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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