Testo Integrale con note e bibliografia

Abstract
Il presente contributo si propone di analizzare la categoria generale dell’invalidità contrattuale, attraverso un’indagine, condotta alla luce dei prevalenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, della disciplina codicistica stabilita in via generale per il contratto, in cui vengono evidenziate le differenti ratio legis sottostanti alle due species costituite dalla nullità e dall’annullabilità. Successivamente si vedrà come la normativa giuslavoristica interviene sui predetti regimi, creando una fattispecie di invalidità ad hoc, contenuta nell’art. 2113 cod. civ., e un ulteriore regime derogatorio, attraverso la c.d. “prestazione di fatto” descritta dall’art. 2126 cod. civ.
All’uopo vengono evidenziate le ragioni che hanno indotto il legislatore a creare delle fattispecie di invalidità, c.d. “protezionistiche”, poste in deroga alla normativa generale, tendenzialmente connesse al principio del favor lavoratoris e alla necessità di riportare in equilibrio il rapporto contrattuale, come avviene, con mezzi differenti ma con la medesima finalità, per i contratti del consumatore e quelli propri del settore bancario, ove, in ragione delle c.d. “asimmetrie informative”, si è ritenuta necessaria la tutela del c.d. contraente debole.

This report analyzes the general category of the contractual invalidity, by survey of the prevailing doctrinal and jurisprudential guidelines related to the general contract regulations provided by the Italian Civil Code. This regulation underlines the different ratio legis behind the two types of contractual invalidity, which are nullity and voidability.
In a second stage we will see how labor law intervenes on the aforementioned regimes, by creating a particular case of contractual invalidity, regulated by the art. 2113 of the Italian Civil Code and a further derogation scheme, that is known as "factual performance" described in the art. 2126 of the Italian Civil Code.
For that purpose, this report also emphasizes the reason why the Legislator has created exceptions to the general regulation (so-called “protective nullity”), which is connected to the favor lavoratoris principle and the need to bring the contractual relationship back into balance. The same applies, by different meaning but with the same purpose, for the consumer and bank contracts, where protection of the weaker party is deemed necessary, because of the so-called information asymmetries

 

1. Cenni generali sulla fattispecie civilistica dell’invalidità. Nullità, annullabilità e analisi delle rispettive ratio legis. L’inefficacia come conseguenza dell’invalidità e le tecniche rimediali approntate dall’ordinamento:

Nell’ambito giuslavoristico, in virtù delle sue peculiarità anche sociali, la disciplina del contratto è connotata, sia da un punto di vista formale sia sostanziale, da notevoli divergenze rispetto a quella cosiddetta “di diritto comune” di cui agli artt. 1321 ss. cod. civ., tanto da indurre parte della dottrina (in tempi meno recenti) a sostenere la c.d. tesi “acontrattualistica” del rapporto di lavoro, secondo cui il fondamento dello stesso non è da rinvenire in un vero e proprio contratto in senso formale, ma in un rapporto giuridico di fatto che si instaura con l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione d’impresa; e ciò è tanto vero che i reciproci diritti e obblighi trovano la loro disciplina in norme di legge imperative, che si pongono al di fuori del contratto e che limitano in modo sostanziale e significativo il principio di autonomia di cui all’art. 1322 cod. civ.
Esemplificativa, in tal senso, sarebbe la definizione dell’art. 2094 cod. civ., secondo cui viene definito lavoratore subordinato chi “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa”. È di tutta evidenza la similitudine con altri istituti che, pur disciplinando rapporti inter partes fonti di reciproci diritti e doveri, e quindi fonte di obbligazioni ex art. 1173 cod. civ., sono da alcuni ritenuti rapporti acontrattuali; in proposito si richiama l’art. 1774 cod. civ., secondo cui “E’ mediatore colui ….” E l’art. 1936 cod. civ. secondo cui “E’ fideiussore colui….”.
Ed in tutti questi casi, partendo dalla definizione codicistica, si è ritenuto che la fonte idonea a instaurare il rapporto giuridico non sia da rinvenire in quella contrattuale, così come coerenziata nell’art. 1321 cod. civ.
La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza , di contro, hanno però ritenuto che la fonte istitutiva del rapporto di lavoro vada invece rinvenuta in un vero e proprio contratto in senso formale, definito come “benché connotato da divergenze significative rispetto al contratto di diritto comune, sia per i particolari profili giuridici che il legislatore è stato chiamato a disciplinare, sia per la necessità sociale di apprestare tutela al c.d. “contraente debole”.
Scopo del presente lavoro è quello di, in considerazione delle sopra accennate peculiarità del contratto di lavoro, evidenziare le differenze che connotano l’importante categoria dell’invalidità in ambito strettamente civilistico rispetto a quello giuslavoristico.
Come è noto, la nozione di “invalidità” contenuta nel Codice Civile non gode di un’univoca circoscrizione semantica; la dottrina ha da anni raggiunto la posizione secondo cui tale fattispecie configurerebbe un genus, le cui species principali sono costituite dalla nullità e dalll’annullabilità, mentre più dubbia è la riconduzione in tale nozione del vizio genetico di matrice giurisprudenziale rappresentato dall’inesistenza del negozio giuridico posto in essere dai contraenti.
Appare non trascurabile, ai fini di una compiuta analisi della categoria dell’invalidità, e per meglio comprenderne l’incidenza sulla normativa giuslavoristica e su quella “protezionistica” tout court (informata da finalità protettive ben diverse da quelle, caratterizzate da posizioni di maggiore equilibrio inter partes, che regolano il contratto generale ex artt. 1321 – 1469 cod. civ.) evidenziare sinteticamente la diversa ratio legis dei due vizi genetici costituenti le due sopra richiamate sub fattispecie dell’invalidità.
La nullità generale dei contratti, disciplinata dagli artt. 1418 ss. cod. civ., infatti, tende a riguardare sempre il negozio come regola, sanzionando negozi illeciti o immorali , o mancanti degli elementi essenziali inderogabilmente fissati dall’art. 1325 cod. civ. (ovvero delle caratteristiche che le norme successive impongono a detti elementi, a pena di nullità ), che rappresentano i tratti costitutivi del negozio, o almeno, del negozio giuridico secondo la mens legislatoris vigente ai tempi della redazione del Codice Civile.
Conseguentemente, la sanzione della nullità si appunta sul profilo oggettivo del contratto, inteso da una parte come il suo contenuto intrinseco e dall’altra come la sua funzione oggettivizzata (o, più semplicemente, causa in concreto); e ciò è tanto vero che la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, proprio riguardo all’applicazione della normativa protezionistica in materia bancaria e finanziaria, che non tutte le violazioni di norme imperative determinano la nullità del contratto, ma solo quelle che attengono all’intrinseco del contratto stesso.
La giurisprudenza ha così sostenuto che dalla violazione delle norme imperative poste a presidio del diritto all’informazione del risparmiatore e dell’investitore non consegue la nullità del contratto, proprio perché le stesse non “entrano” a far parte del contenuto del negozio ; per cui, in capo all’operatore qualificato, è configurabile un’ipotesi di responsabilità precontrattuale per violazione delle regole di condotta anteriormente alla conclusione del contratto stesso, essendosi in proposito chiarito che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 cod. civ. non è circoscritto esclusivamente alla fattispecie dell’ingiustificato recesso dalle trattative, ma costituisce una clausola generale che obbliga i contraenti a condurre le trattative in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti, e che obbliga ciascuna parte a comunicare all’altra ogni dato rilevante ai fini della conclusione del contratto.
A conferma della gravità del vizio in esame, vale la pena ricordare che l’azione di nullità, in deroga al principio generale secondo cui l’inerzia del titolare di un diritto prolungata nel tempo ne determina l’estinzione, non è soggetta al normale decorso della prescrizione, essendo infatti la stessa imprescrittibile ex art. 1422 cod. civ.; e la ragione dell’imprescrittibilità riposa anch’essa sulla gravità dei vizi che rendono nullo il contratto nei cui confronti l’ordinamento ritiene di reagire senza limiti di tempo.
Tale principio va ovviamente coniugato con l’ulteriore interesse, altrettanto meritevole di tutela giuridica, di salvaguardare l’acquisto a titolo originario della proprietà e di rendere certi i traffici giuridici mediante la loro cristallizzazione, per cui, provvidamente, il Legislatore al già richiamato art. 1422 cod. civ., ha previsto che, nonostante l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, sono fatti salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione dell’azione di indebito oggettivo.
Inoltre, la legittimazione all’esercizio dell’azione di nullità spetta a tutti i contraenti, ivi compreso quello che vi ha dato causa, e può esser rilevata dai terzi purché vi abbiano un interesse concreto ed attuale e, ancora in deroga al principio generale della domanda che governa il processo civile, può essere rilevata d’ufficio anche dal giudice, purché i profili che rendono nullo il contratto emergano dai documenti e dagli atti di causa .
Tale estensione della legittimazione trova la sua ratio legis nella necessità di tutelare anche i terzi, poiché un contratto nullo, violando, per esempio, principi di ordine pubblico, posti a tutela non solo dei contraenti ma della collettività in toto, potrebbe pregiudicare la posizione soggettiva di coloro che, non essendo parti del contratto, non avrebbero altrimenti un’adeguata azione volta a colpire e rimuovere gli effetti dello stesso, in mancanza di un’espressa legittimazione, disposta invece dall’art. 1421 cod. civ.; è quindi evidente che la nullità c.d. assoluta svolge una funzione di tutela a tutto tondo, a prescindere dalla posizione soggettiva e dallo status del soggetto cui il contratto invalido arreca nocumento.
Conseguentemente, in base a una moderna concezione del contratto, cui, in applicazione dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. è stata attribuita anche una funzione latu sensu sociale, si può affermare che la nullità costituisce lo strumento attraverso cui l’ordinamento svolge un’attività di controllo normativo utile ad escludere dalla tutela giuridica quegli interessi perseguiti dalle parti che si pongono in contrasto con i valori fondamentali del sistema.
Di talché, una volta superata la concezione individualistica del contratto, con ciò ridimensionandosi il ruolo dell’autonomia privata ex art. 1322 cod. civ., la nullità si erge a “gendarme” dell’autonomia privata stessa, costituendo lo strumento attraverso cui selezionare la meritevolezza degli interessi delle parti rispetto ai valori perseguiti dalla comunità, al punto che l’ordinamento, ove quel riscontro sia negativo, non assegna ad essi alcuna tutela, ed anzi, assoggetta il “voluto” delle parti alla sanzione della nullità.
Le vicende patologiche inerenti, invece, le condizioni soggettive di uno dei contraenti vengono inquadrate sotto il profilo del vizio genetico dell’annullabilità, il quale, conseguentemente, può essere fatto valere solo dal soggetto nel cui interesse l’annullabilità stessa è posta.
Dalla appena esposta riflessione emerge l’idea, confortata dalla dottrina , che il vizio della nullità sia posto, in linea tendenziale, a presidio dei principi e dei valori che informano l’ordinamento giuridico statuale, laddove invece l’annullabilità si configura quale rimedio agli squilibri che si siano determinati tra gli interessi dei privati venuti a regolarsi attraverso la stipulazione del negozio giuridico, come si evince dall’analisi delle tre principali casistiche da cui discende il predetto vizio: conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato; incapacità (sia essa legale o naturale); vizi del consenso.
Se si accetta questa accezione, è possibile affermare che la tutela costituita dal rimedio dell’annullabilità risulta maggiormente conferente all’ambito giusprivatistico, i cui lineamenti fondamentali si sostanziano, come è noto, nell’autonomia delle parti, ossia nella libera determinazione delle condizioni economiche e giuridiche che identificano il punto di equilibrio per la conclusione del contratto, nonché nella sostanziale condizione di parità delle parti .
La premessa secondo cui l’annullabilità sarebbe la conseguenza della violazione di regole (attinenti, come detto, allo status soggettivo dei paciscenti) che, pur connotandosi come importanti per il vivere civile della collettività dei consociati, si indirizzano esclusivamente alla tutela di una delle parti, così svolgendo una funzione circoscritta alla tutela dei contraenti, laddove invece la nullità è posta a tutela di interessi generali cui l’ordinamento accorda massima preminenza (al punto da trascendere le parti contrattuali) è, del resto, evidente analizzando il differente regime in termini di efficacia (ossia: di produzione di effetti contrattuali) dei contratti affetti dai predetti vizi.
Infatti, il contratto nullo risulta improduttivo di effetti ab origine, come icasticamente individuato dall’antico adagio latino secondo cui: “Quod nullum est, nullum producit effectum”; il contratto annullabile, invece, è interinalmente efficace, ossia produce effetti fino al momento in cui sopravvenga l’eventuale sentenza costitutiva di annullamento, conseguente all’azione della parte titolare dell’interesse all’esperimento alla stessa, avente efficacia ex nunc.
Annullabilità e nullità rappresentano allora due differenti species del genus “invalidità”, e l’efficacia del contratto invalido rappresenterà la “cartina da tornasole”, la misura della gravità del vizio invalidante del contratto distaccatosi dal modello astratto designato a priori dal legislatore; la dichiarazione di nullità, ovvero il vittorioso esperimento dell’azione di annullamento costituiscono allora il momento di giudizio in ordine alla validità dell’atto, e alla sua conformità al modello astratto.
Si comprende allora come esista un forte nesso funzionale tra inefficacia (definita dalla dottrina come “qualità che il contratto presenta in quanto non produttivo degli effetti che normalmente dovrebbe produrre” ) e invalidità: quest’ultima, infatti, ha quale conseguenza l’inefficacia del contratto, poiché è solo attraverso l’inefficacia che l’invalidità può assolvere alla funzione rimediale che le è propria.
E tuttavia, l’inefficacia non attiene solamente ai contratti invalidi, essendo ben ipotizzabili fattispecie di contratti perfettamente validi eppure inefficaci (si pensi ai contratti sottoposti agli elementi c.d. accessori o accidentali: ad esempio, un contratto sottoposto a condizione sospensiva, in cui l’evento condizionante non si è ancora verificato; oppure un contratto di cui non sia ancora scaduto il termine iniziale): sarà allora opportuno distinguere tra un’inefficacia in senso ampio, che abbraccia tutte le fattispecie possibili, e un’inefficacia strictu sensu, circoscritta alle ipotesi di contratto invalido; o, se vogliamo, tra quelle che la dottrina ha definito inefficacia rimediale e non rimediale. In sintesi, e facendo cartesianamente riferimento alla categoria matematica dell’insiemistica, si può affermare che ogni contratto invalido è inefficace (con il limite per quel che attiene all’annullabilità della provvisorietà dei suoi effetti), mentre non ogni contratto inefficace è anche invalido.
Peraltro, al di là della differente imputazione temporale in termini di inefficacia rimediale corrispondente alle diverse fattispecie dell’invalidità, ben diverso è anche il regime delle tecniche di conservazione del contratto invalido: uno dei principi fondamentali in ambito giusprivatistico è, infatti, quello della conservazione del negozio giuridico, in ragione del quale il legislatore (e conseguentemente il giudice) cerca sempre di mantenere gli effetti del contratto invece di caducarli: ciò in quanto il negozio giuridico rappresenta il principale strumento di circolazione di beni, e, in senso più ampio, delle ricchezze nella società.
Tale principio, cristallizzato in sede interpretativa all’art. 1367 cod. civ ., rientra tra le norme qualificate dalla dottrina come regole di interpretazione oggettiva, costituendo un canone ermeneutico avente valenza assoluta e generale, che può e deve estendersi al di là dell’atto negoziale.
Su tale orientamento si è allineata anche la giurisprudenza maggioritaria, dovendosi considerare ormai anacronistiche le posizioni giurisprudenziali che attribuivano un valore meramente residuale a detto principio.
La medesima ratio, teleologicamente indirizzata a fare quanto più possibile salva la produzione degli effetti contrattuali anche quando vi sia un vizio non emendabile, è ravvisabile nelle norme inerenti alla presenza di contratti plurilaterali o con comunione di scopo che abbiano i crismi dell’invalidità (nelle due diverse declinazioni codicistiche che la compongono): così, l’art. 1420 cod. civ. statuisce che la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non è causativa della nullità dell’intero contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, ritenersi essenziale.
Naturalmente, il precetto espresso nell’art. 1420 cod. civ. deve ritenersi applicabile solo qualora il contenuto del negozio sia concettualmente frazionabile in tante parti quante sono i contraenti, in guisa che sia possibile prescindere dalla partecipazione di uno di essi (ad esempio, in caso di un classico contratto di società ex art. 2247 cod. civ., il vizio che dovesse affliggere la partecipazione del socio di maggioranza, ovvero del socio che conferisse il brevetto sul quale ipoteticamente venisse edificata l’attività d’impresa collettivamente svolta, la nullità, ove non sanata mediante conversione in un contratto regolare secondo i requisiti di forma e sostanza prescritti dalla legge, importerebbe senz’altro il travolgimento dell’intero negozio giuridico), nel caso in cui questa non sia regolare.
Parimenti, l’art. 1446 cod. civ. prevede che, nei contratti plurilaterali, l’annullabilità che riguarda il vincolo di una sola delle parti non importa l’annullamento dell’intero contratto, salvo che la partecipazione di questa abbia, di nuovo, i crismi dell’essenzialità.
La differente gradazione di gravità intercorrente tra le sottocategorie che compongono l’invalidità trova corrispondenza in diverse tecniche individuate dal legislatore e finalizzate a mantenere in essere gli effetti negoziali programmati dalle parti.
Infatti, come la migliore dottrina ha rilevato , si assiste a un conflitto tra protezione dell’autonomia contrattuale e esigenze di sicurezza della circolazione dei beni: conflitto che viene diversamente risolto, atteso che la legge sacrifica le seconde e protegge le prime in caso di contratto nullo, mentre esprime un’opposta valutazione relativamente al contratto annullabile.
Ad ogni modo, quale che sia il vizio che rende invalido il contratto, il legislatore ha predisposto una serie di strategie rimediali finalizzate a preservarne, o, in taluni casi, a costituirne ex novo la validità, ed è in relazione agli strumenti di conservazione del contratto c.d. oggettivi che emerge in modo inequivoco la funzione di eterotutela della nullità rispetto a quella di endotutela dell’annullabilità; bastando all’uopo considerare che, mentre il contratto nullo è per espresso divieto di legge non convalidabile, quello annullabile può essere, al contrario, convalidato mediante l’implicita rinuncia all’esercizio dell’azione di annullamento da parte del soggetto legittimato ad esperirla (art. 1444 cod. civ.).
L’ordinamento civilistico conosce, come è noto, due rimedi per quel che attiene ai vizi inerenti al contratto nullo: la nullità parziale e la conversione del contratto nullo.
Il primo rimedio, disciplinato dall’art. 1419 cod. civ., prevede che la nullità di una singola clausola contrattuale comporti la nullità dell’intero negozio solamente se, in seguito alla formulazione di un giudizio di essenzialità svolto intorno alla clausola affetta dal vizio, risulti che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in assenza della clausola incriminata.
Innanzitutto appare opportuno circoscrivere semanticamente, in senso giuridico, la nozione di “clausola”: essa si identifica, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità , in un unitario elemento precettivo del contratto, suscettibile di articolarsi anche in una pluralità di disposizioni, purché concettualmente vincolate; sulla base di tali riflessioni si può individuare la clausola come un “atomo” del contratto, ossia un elemento irriducibile, insuscettibile di ulteriore scomposizione.
Nell’ordinamento italiano la previsione inerente alla nullità parziale costituisce una regola; pertanto, l’estensione della nullità della singola clausola all’intero regolamento contrattuale rappresenta un’eccezione, che, secondo quanto ricostruito dalla Corte di Cassazione in una pronuncia relativamente recente, deve essere provata dalla parte interessata .
L’indagine finalizzata a ricostruire l’essenzialità del contenuto della clausola rispetto all’intero disegno negoziale deve naturalmente seguire criteri di carattere oggettivo, avendo quale bussola l’utilità del regolamento contrattuale, che dovrà essere dichiarato nullo nelle ipotesi in cui gli interessi perseguiti dallo stesso non possano essere soddisfatti per effetto della clausola viziata, ovvero nelle ipotesi in cui vi sia un palese nesso di interdipendenza tra la clausola viziata e le altre clausole che costituiscono il corpo del contratto, secondo un’interpretazione giurisprudenziale coerente con il dettato normativo di cui all’art. 1419 cod. civ., nonché ai principi generali che informano il settore giusprivatistico , ed in particolare, secondo il principio ermeneutico di cui all’art. 1363 cod. civ., secondo cui le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, con la conseguenza che per ricostruire l’essenzialità della clausola il Giudice non deve tener conto soltanto della clausola in ipotesi nulla, ma anche dell’intero complesso delle pattuizioni per trarne la ratio in ordine all’essenzialità della stessa.
Il secondo comma dell’art. 1419 cod. civ. stabilisce poi che “La nullità delle singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”: è quanto avviene, a titolo esemplificativo e scolastico, nell’ipotesi di un corrispettivo contrattuale pattuito tra datore di lavoro e lavoratore subordinato che sia inferiore agli importi minimi (cosiddetta paga base o minimo tabellare) stabiliti in sede di Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro: in tal caso, la clausola inerente il quantum della retribuzione (e quindi, secondo un profilo strettamente civilistico, l’oggetto del contratto) verrà automaticamente sostituita dalla previsione contenuta nella fonte collettiva .
Ciò in quanto i minimi retributivi stabiliti dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, danno attuazione alla norma programmatica contenuta nell’art. 36 Cost. , secondo cui la retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, e deve in ogni caso essere sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
Mancando nell’ordinamento italiano una legge sul salario minimo (a dispetto dei periodici impegni dei partiti politici a predisporne una nuova, per tacere dei ripetuti tentativi effettuati nel XX secolo dal Legislatore post – codicistico, senza apprezzabili risultati ulteriori alla transitoria efficacia di un Decreto Legge successivamente non convertito ), al di là delle difficoltà inevitabili delle modalità attuative , al fine di rispettare il già citato dettato costituzionale, la giurisprudenza ha ricondotto il principio di “sufficienza” della retribuzione, nel concreto, ai minimi contrattuali previsti dalle fonti collettive, sanzionando con la nullità le clausole difformi peggiorative delle condizioni dei lavoratori subordinati, e con l’automatica sostituzione della relativa clausola e con la conservazione del contratto individuale di lavoro in tutte le rimanenti parti.
Lo stesso fenomeno si verifica con l’istituto del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 cod. civ., che fissa, quale limite di durata, tre anni per i normali lavoratori subordinati e cinque anni per i dirigenti, in ragione della maggior delicatezza delle mansioni ricoperte da quest’ultima categoria di soggetti: qualora il patto concretamente stipulato inter partes dovesse eccedere i limiti legislativamente imposti, la previsione verrà ipso iure ridimensionata, nell’ottica della tutela della parte debole del rapporto di lavoro, alla durata massima prevista dalla norma, ancora una volta con conservazione del titolo giuslavoristico.
Al concetto di “nullità”, riconnessa alla conservazione del contratto di lavoro subordinato, la legge ha, da ultimo, fatto riferimento anche nel D. Lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act) , circoscrivendo al suo art. 2 la nullità del licenziamento alle ipotesi in cui sia discriminatorio o intimato in forma orale, prevedendo in queste due fattispecie, il c.d. diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Se l’ipotesi di nullità prevista in caso di licenziamento orale altro non fa che ribadire i principi generali in tema di forma per cui un contratto (e quindi anche un atto unilaterale quale è il licenziamento, in virtù del richiamo di cui all’art. 1324 cod. civ.) è nullo se non riveste la forma prevista ad substantiam dalla legge, diversa è invece la previsione della nullità stabilita in caso di licenziamento cosiddetto discriminatorio.
In questo caso, infatti, il legislatore, prevedendo la nullità del licenziamento stesso, ha voluto introdurre una vera e propria “sanzione civilistica” al comportamento del datore di lavoro che, per ragioni non attinenti all’organizzazione d’impresa (e infatti non applicabili nelle organizzazioni di tendenza) o al comportamento del lavoratore (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) intende “liberarsene” per ragioni attinenti alla sua sfera personale che non si riverberano in alcun modo sul rapporto di lavoro (preferenze sessuali, opinioni politiche, religiose e sindacali).
In tal caso, pertanto, la nullità si discosta dalla funzione sua tipica che è quella di colpire un vizio proprio dell’atto, incentrando la sua funzione estintiva dell’atto incriminato sul profilo soggettivo del comportamento datoriale e sanzionandolo con l’obbligo di reintegra del lavoratore, con conseguente conservazione del contratto di lavoro.
Medesimo discorso si applica, ancora ed infine (ma gli esempi potrebbero essere molti altri), alla luce di quanto disposto dalla l. 392/1978 (cosiddetta “Legge Locazioni”), in caso di durata del contratto inferiore al termine minimo statuito per legge: il contratto verrà eterointegrato dalla previsione legislativa, con conseguente rideterminazione della durata ai termini fissati dal comma 4 dell’art. 27 della sopra menzionata fonte legislativa.
Non appare trascurabile il rilievo secondo cui le due ipotesi de quibus sono accomunate da un’inderogabilità, che sfocia nell’eterointegrazione forzata del contenuto del contratto, indirizzata per così dire solo verso il basso (in ambito giuslavoristico si parla di inderogabilità in peius): in ciò si può ravvedere l’intenzione del legislatore di derogare all’assolutezza del principio dell’autonomia contrattuale, con il vincolo teleologico di fornire una legislazione maggiormente protezionistica per la parte che, su basi empiriche ed astratte, viene individuata come quella “debole” del rapporto.
Per quel che riguarda invece la particolare natura dei vizi che rendono il contratto annullabile, dipendenti, come si è già sopra evidenziato, dalla condizione soggettiva (permanente o transeunte) di uno dei soggetti stipulanti, lo strumento di conservazione del contratto affetto da tale fattispecie affonda nella volontà della parte interessata a che il contratto continui a produrre effetti.
In tal caso è rimessa solo alla parte legittimata all’azione alla parte la valutazione sull’interesse o meno alla prosecuzione del contratto .
Per converso, l’art. 1423 cod. civ. predica come lo strumento della convalida non sia applicabile – fatte salve le ipotesi esplicitamente regolate dalla legge – al contratto nullo, per il quale le uniche tecniche di conservazione sono appunto la nullità parziale e la conversione del contratto nullo.
In proposito si sottolinea come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia correttamente argomentato con dictum vetusto ma ancora oggi ancora attuale, che, affinché le parti possano addivenire ad un nuovo assetto degli interessi, la cui efficacia è stata paralizzata da un vizio che comportava una nullità assoluta ab origine del contratto, il negozio deve essere rinnovato elidendo il vizio che lo inficia, e non già semplicemente riproposto: in altre parole, il contratto nullo viene ri-stipulato ex novo, mentre il contratto annullabile è convalidabile hic et nunc nella medesima forma che presentava il vizio idoneo a giustificare, in linea di astrazione, il giudizio di disvalore attribuitogli dall’ordinamento sotto il profilo della sua annullabilità.
Detto strumento, individuato dall’art. 1444 cod. civ., prende il nome di convalida, e ha natura giuridica di dichiarazione unilaterale e recettizia attraverso cui la parte, pur conoscendo il vizio che affligge il contratto, decide comunque di dargli esecuzione: la convalida, pertanto, altro non costituisce che una rinunzia da parte del soggetto legittimato – che deve essere sempre successiva e mai preventiva alla conclusione del contratto, in quanto richiede imprescindibilmente la conoscenza del vizio che lo rendeva annullabile– all’esperimento dell’azione di annullamento .
Sulla natura necessariamente successiva alla stipulazione del contratto della convalida – con riferimento ai vizi della volontà, ma riferibile per eadem ratio anche alle altre fattispecie causative dell’annullabilità – si è consolidato un significativo orientamento di legittimità , per cui non sarebbe astrattamente configurabile una convalida preventiva e generalizzata rispetto a negozi futuri, i cui motivi di annullabilità non sono ancora fisiologicamente potuti venire ad esistenza.
La convalida, come emerge dal tenore letterale della sopra richiamata norma codicistica, può presentarsi nella duplice tipologia di convalida espressa ovvero tacita.
Appare importante sottolineare che di regola la convalida espressa non deve necessariamente rivestire la forma scritta, in considerazione del ben noto principio di libertà delle forme, adottato dal legislatore con solo la previsione derogatoria della forma ad substantiam nei singoli casi espressamente individuati dalla legge, per la medesima finalità cui è informato il principio della conservazione del negozio giuridico, e cioè la necessità che gli scambi economici tra i soggetti privati possano godere della massima speditezza possibile, in un’ottica efficientista più volte incoraggiata dagli studi dell’analisi economica del diritto. La convalida dovrà invece rivestire la forma scritta allorché il contratto da convalidare sia un contratto formale, per cui la legge ne richieda la forma scritta a pena di nullità, per il ben noto principio secondo cui gli atti connessi a contratti formali sono anch’essi soggetti al requisito della forma.
Pertanto, salvo l’eccezione appena enunciata, non è richiesta alcuna forma sacramentale all’atto di convalida con cui la parte decide di dare definitivamente efficacia al negozio annullabile, risultando sufficiente che detta dichiarazione sia idonea a rendere evidente la consapevolezza del soggetto interessato del vizio che ha affetto il contratto sin dal momento della sua formazione; parimenti, dovrà emergere in modo chiaro il raggiungimento dello scopo da parte del soggetto contraente, e cioè la prosecuzione degli effetti del negozio da lui stipulato.
La convalida tacita, invece, si configura come un comportamento concludente che dimostra come la volontà del soggetto contraente sia incompatibile con la volontà di annullare il contratto viziato , dandovi spontaneamente esecuzione pur nella consapevolezza del vizio che ne potrebbe determinare la caducazione degli effetti.

 

2. L’invalidità nel diritto del lavoro: il difficile coordinamento con la disciplina contrattualistica generale e le esegesi dottrinali dell’art. 2113 cod. civ.:
La fattispecie che viene in primo esame ai fini dell’analisi del – talvolta complesso - coordinamento tra la disciplina generale dell’invalidità contrattuale e quella precipua della normativa speciale giuslavoristica è quella contenuta nell’art. 2113 del Codice Civile, che sancisce (testualmente) l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni aventi per oggetto i diritti (naturalmente deve trattarsi di diritti disponibili) del lavoratore, salvo che la procedura transattiva venga svolta in una delle sedi tassativamente elencate dalla norma stessa; nelle conciliazioni elencate dalla norma in commento vige infatti una presunzione secondo cui la posizione del lavoratore, storicamente e socialmente soccombente rispetto a quella del datore di lavoro, sia adeguatamente protetta per effetto in funzione di garanzia del soggetto terzo, la cui presenza è di per sé sola sufficiente a superare l’opposta presunzione di condizionamento del lavoratore nella formazione e nell’estrinsecazione della sua volontà. Tale ricostruzione, già desumibile dal tenore letterale della norma, è stato ulteriormente cristallizzato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Tale requisito procedurale si pone, pertanto, come limite applicativo alla disciplina enunciata dalla norma in esame.
L’aspetto di maggior rilievo ai fini della presente analisi concerne l’impiego, da parte del legislatore codicistico, del termine “invalidità”, il quale designa, come si è supra argomentato, una categoria generale e non un vizio specifico; pertanto, in considerazione della genericità del lessico legislativo, la dottrina si è interrogata più volte sulla consapevolezza del Legislatore nell’adozione di detta scelta terminologica.
La dottrina e la giurisprudenza dominanti, sul punto, si sono espresse nel senso di assimilare l’invalidità sancita dall’art. 2113 al generale regime dell’annullabilità, giustificando tale operazione analogica sia per effetto delle consonanze sotto il profilo della legittimazione ad agire (che spetta solo al soggetto interessato – nella fattispecie, il prestatore di lavoro -), sia sotto il profilo dell’efficacia, la quale, sia pure interinalmente, vige sino a che non venga pronunciato l’annullamento.
Non manca, tuttavia, chi ritiene che l’invalidità prescritta dall’art. 2113 cod. civ. costituisca una fattispecie a sé, un’ “invalidità speciale”, secondo alcune ricostruzioni giurisprudenziali , le quali motivano tale configurazione ponendo in primario rilievo le differenze, rispetto al generale regime dell’annullabilità codicistica, le differenze procedurali e nei termini d’azione.
Similarmente, si riscontra un orientamento dottrinale il quale, per le medesime considerazioni, tende a tenere separati il concetto di annullabilità civilistica e quello di invalidità proprio del corpus delle norme giuslavoristiche sancito dall’art. 2113 cod. civ.
Naturalmente, la norma scolpita dall’art. 2113 cod. civ. in esame ha un ambito d’efficacia circoscritto ai diritti disponibili del lavoratore, connessi a principi inviolabili sanciti a livello costituzionale e non suscettibili di essere compressi o rinunciati in alcun modo : si verrà a creare, pertanto, un doppio regime di invalidità in senso tecnico, costituito da un lato dall’invalidità speciale, ricondotta – come si è visto – dalla dottrina maggioritaria nell’alveo della generale annullabilità civilistica, pur con tutte le differenze in tema di vincoli procedurali e di termini d’azione, concernente gli atti di disposizioni effettuati su diritti effettivamente disponibili; dall’altro lato, in caso di atti di disposizione su diritti indisponibili, l’invalidità sottesa al negozio coinciderà con il generale vizio civilistico della nullità, con le sopra elencate differenze in ordine all’inefficacia rimediale (ex tunc, e non più ex nunc).
Il medesimo vizio della nullità, in deroga all’invalidità – inefficacia stabilita dalla norma de qua, è applicabile ad un’ulteriore ipotesi, vale a dire quella costituita dalla rinuncia preventiva, da parte del prestatore di lavoro subordinato, a diritti (qualunque ne sia la natura) che siano meramente futuri, eventuali e non precisati: la giurisprudenza si è infatti costantemente espressa nel senso che gli unici diritti che rientrano nel perimetro dell’art. 2113 cod. civ. sono quelli già maturati dal lavoratore, i quali devono configurarsi come concreti e specificamente individuati dal suo titolare che decide, nell’ottica del sinallagma contrattuale che costituisce la causa ex art. 1343 cod. civ. dell’accordo transattivo, di rinunciarvi a fronte delle rinunce effettuate dalla sua controparte, nelle sedi indicate dalla norma e con chiara individuazione delle rinunce e concessioni effettuate dalle parti.
Parimenti, deve ritenersi sottratto dal regime dell’ “invalidità – annullabilità” previsto dalla norma in esame l’accordo transattivo il quale, pur manifestandosi sotto la forma di una lecita serie di reciproche rinunce e concessioni, configura a tutti gli effetti un’elusione della normativa “protezionistica” approntata a tutela del prestatore di lavoro subordinato, potendo dunque essere qualificato come contratto in frode alla legge (o, secondo una certa giurisprudenza, per contrarietà alle norme imperative ), e pertanto nullo secondo quanto disposto dall’art. 1344 cod. civ.: si pensi all’ipotesi di un accordo transattivo inerente alla corretta qualificazione giuridica di un rapporto di lavoro, il quale venisse inquadrato come lavoro autonomo (e non come lavoro subordinato, contraddistinto, come è noto, da una serie di tutele quantitativamente e qualitativamente superiori) da una certa data in poi: atteso che nell’ordinamento italiano vige il cosiddetto principio di indisponibilità del tipo, avente valore costituzionale , per cui la situazione di fatto prevale sempre sull’astratta qualificazione del nomen juris effettuata dalle parti, una transazione relativa a diritti che siano meramente pro futuro deve considerarsi nulla, e dunque improduttiva di effetti ab origine.

 

 

3. La prestazione di fatto. Rapporto tra la disciplina speciale di cui all’art. 2126 cod. civ. e quella generale della nullità:
L’art. 2126 cod. civ. introduce, in aggiunta alla fattispecie della nullità esposta nel primo capitolo del presente contributo, una disciplina speciale del medesimo vizio genetico, declinando il regime generale alle peculiarità del settore giuslavoristico, improntato, come è noto, al generale principio del favor praestatoris.
Le prestazioni presidiate dalle nullità descritte dalla sopra richiamata norma prendono il nome di “prestazioni di fatto”, in considerazione del differente regime in tema di conseguenze giuridiche rispetto a quello generale.
Infatti, derogando a quanto stabilito dall’art. 1418 cod. civ., secondo cui il contratto nullo fa sorgere in capo ai contraenti l’obbligo alla restituzione di quanto dovuto in base al regolamento contrattuale, la norma in esame sancisce, nell’ottica della protezione della parte debole del rapporto, la corresponsione del corrispettivo della prestazione effettuata, poiché le energie spese dal lavoratore non potrebbero in alcun modo venirgli restituite: ciò comporterebbe un ingiustificato arricchimento a vantaggio del datore di lavoro.
La norma si conclude con la previsione contenuta nella parte conclusiva del primo comma, che fa salvi i casi in cui la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa del contratto di lavoro: in questo caso la posizione del lavoratore, che ha scientemente dato il suo consenso in ordine alla stipulazione di un contratto posto in violazione delle norme inderogabili, dei principi di ordine pubblico e dei principi del buon costume, perde ogni meritevolezza e ogni tutela, rientrando così nel generico alveo della nullità del contratto, che, come si è visto, è teleologicamente indirizzata a garantire la corrispondenza tra il “dover essere” astrattamente predicato dall’ordinamento e l’ “essere” del regolamento negoziale concretamente posto in essere dalle parti.
Come è stato correttamente evidenziato dalla giurisprudenza, l’art. 2126 citato non intende equiparare il rapporto di lavoro invalidamente costituito a quello regolare, bensì è teso a disciplinare gli effetti ormai realizzatisi in un rapporto che ha già materialmente avuto esecuzione inter partes, cui viene riconosciuta efficacia, derogando dunque al principio di retroattività ab origine tipico della nullità generale dei contratti, che in questo caso verrebbe a configurare al contempo un’indebita locupletazione per il datore di lavoro e un ingiustificato depauperamento (di tempo, denaro ed energie) per il lavoratore, cioè il soggetto cui teoricamente la legge dovrebbe fornire maggiori tutele, fatti salvi, come detto, i casi in cui il lavoratore decade dal beneficio di dette tutele in ragione della sua cooperazione in ordine alla realizzazione di una prestazione avente caratteri di illiceità.
Se ciò certamente ha valenza per quanto riguarda il lavoro subordinato nel settore privato, come pacificamente emerge dalla collocazione nel Titolo II del Codice Civile (destinato alla disciplina del lavoro nell’impresa), l’orientamento giurisprudenziale dominante ha optato per un’interpretazione analogica – estensiva anche al settore della pubblica amministrazione ; gli effetti, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, si estendono anche agli obblighi pensionistici e previdenziali , per effetto del principio dell’automaticità delle prestazioni previdenziali sancito dall’art. 2116 cod. civ.
Proprio la ratio protettiva verso il lavoratore subordinato si pone a fondamento, sia pure attraverso una tecnica ermeneutica a contrariis, della ragione per cui la Suprema Corte di Cassazione, con pronunce anche piuttosto recenti, si sia espressa in senso negativo circa la configurabilità della disciplina dell’art. 2126 cod. civ. rispetto ai lavoratori autonomi (e, conseguentemente, parasubordinati, come i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o la fattispecie del lavoro a progetto, abolita a decorrere dal 25 giugno 2015 con l’entrata in vigore del D. Lgs. 81/2015).
Esaminando la casistica giurisprudenziale, si evince come la prestazione del giornalista non iscritto al relativo albo professionale rientra nella fattispecie generale descritta dalla norma oggetto di analisi, per non derivare in senso stretto da un’illiceità inerente alla causa né all’oggetto del contratto di lavoro , tenendo sempre ben presente che lo stesso è un contratto sinallagmatico a effetti obbligatori, il cui oggetto è costituito dalla prestazione lavorativa del lavoratore subordinato (e, per contro, dall’erogazione della retribuzione, diretta e differita, da parte del lavoratore) e quindi specificamente nelle sue mansioni, e la cui causa (nella ormai consolidata accezione di funzione economico – sociale svolta dal contratto stesso) risiede nello scambio (recte: sinallagma) tra le due prestazioni evidenziate.

4. Possibile assimilazione tra le nullità di protezione e nullità giuslavoristica:
Come è noto, già da tempo la dottrina si è espressa sulle possibili comunanze tra la figura del consumatore e quella del lavoratore subordinato.
In entrambe le fattispecie, infatti, il tradizionale equilibrio sussistente tra le parti contrattuali viene a mancare per effetto di una fisiologica disparità economica e sociale, congiuntamente al divario in termini di conoscenze in ordine alla conclusione delle operazioni giuridiche, di talché la legge effettua una serie di operazioni “ortopediche” teleologicamente indirizzate a ristabilire un equilibrio di sorta nel rapporto contrattuale.
In tale contesto, la nullità – c.d. di protezione – e la conseguente inefficacia si pone quale strumento di grande utilità per il legislatore nel sanzionare negozi che, per la vessatorietà delle clausole in essi comprese, accentuano lo squilibrio inter partes: viene pertanto effettuata, in seguito al cambiamento di sensibilità sociale che ha accostato, nel corso degli anni, la posizione del lavoratore (“storicamente” tutelata) anche quella del consumatore, con ampie deroghe rispetto alla regolamentazione generale codicistica.
Ed infatti diversi istituti tratti dal diritto civile sono stati stravolti nella loro disciplina tipica proprio allo scopo di poter ridurre il più possibile quel potenziale squilibrio contrattuale che di norma intercorre tra la figura del consumatore e quella del professionista, scopo precipuo della materia consumeristica in quanto normativa avente carattere protettivo.
Una delle principali forme di tutela proprie del codice del consumo è costituita dall’introduzione di un elenco che riporta le clausole contrattuali considerate vessatorie, indicate agli artt. 33, 34 e 36 cod. cons., tutte sanzionate con la menzionata nullità di protezione; tale specificazione è volta ad indicare che la nullità tipica del codice del consumo si discosta da quella civilistica per la sua eccezionalità, coniugando in sé sia caratteristiche proprie della nullità ex art. 1418 e ss., sia tratti essenzialmente propri.
Innanzitutto il positivo esercizio dell’azione di nullità della clausola vessatoria comporta la sua esclusiva caducazione mantenendo tuttavia in vita il contratto; la nullità di protezione, infatti, non travolge l’intero negozio, ma conserva gli obblighi rispettivi delle controparti, con esclusione ovviamente di quelli specifici della clausola vessatoria espunta. In questo modo il legislatore ha voluto caratterizzare la nullità di protezione come uno strumento di riequilibrio contrattuale , dotando di un’efficacia relativa un istituto che mentre nel diritto civile ha una funzione propriamente distruttiva degli effetti contrattuali, nel codice del consumo, invece, svolge una funzione prettamente riequilibratoria-punitiva nei confronti del professionista che ha abusato della propria posizione imponendo un contratto squilibrato al consumatore; il professionista infatti da una parte perde il vantaggio che gli offriva la clausola incriminata, ma dall’altra non gode dell’effetto “esdebitativo” dagli obblighi contrattuali assunti: il legislatore ha inteso pertanto assicurare il mantenimento degli effetti del contratto in favore del consumatore, piuttosto che l’integrale caducazione di tutte le clausole del negozio , cosa che avrebbe paradossalmente danneggiato proprio la parte che si vuole tutelare.
Tale disciplina consumeristica, in parte ricalca quella di cui all’art. 1419 cod. civ., in quanto conserva anch’essa il contratto eliminando soltanto la clausola nulla, ma in parte se ne discosta in quanto viene precluso al giudice, ai fini della conservazione del contratto, di svolgere un’indagine sulla reale volontà delle parti a voler concludere il negozio anche in mancanza della clausola vessatoria, che quindi non riveste mai, ex lege, il carattere di essenzialità; agire diversamente, infatti, avrebbe significato far travolgere di nullità l’intero contratto a danno del consumatore, posto che difficilmente si avrebbe avuto una volontà a stipulare quel negozio privo della clausola vessatoria da parte del professionista; è evidente quindi la funzione protezionistica della disposizione de qua.
La nullità ex art. 36 cod. cons., proprio per la sua caratteristica di porsi a protezione della parte debole del contratto, è altresì caratterizzata da un ulteriore aspetto peculiare: la relativa azione può essere invocata esclusivamente dal consumatore o d’ufficio dal giudice, se la pronuncia opera a favore del contraente debole.
Se per la legittimità dell’azione a favore della parte debole del contratto, con esclusione per il professionista che, invece, può solo subire l’azione, non sono sorti dubbi in dottrina, in merito alla rilevabilità d’ufficio, la dottrina si è interrogata su come questa possa convivere con il principio di totale libertà accordato al consumatore che può valutare se mantenere la clausola o eliminarla potestativamente ; e infatti, se la rilevabilità d’ufficio nella nullità tradizionale risponde alla necessità di salvaguardia di un interesse proprio della comunità nella sua accezione più ampia, la nullità cosiddetta di protezione si rivolge, a contrario, ad una collettività specifica e ben individuata, di talché una rilevabilità d’ufficio sembrerebbe sproporzionata e, in definitiva, non rispondente all’intento di permettere la massima libertà al consumatore di valutare la clausola vessatoria secondo la corrispondenza ai propri interessi, e quindi di mantenerla nel corpo del contratto nel caso essa sia ritenuta più vantaggiosa .
La ratio che sottintende alla scelta del legislatore di attribuire anche al giudice la possibilità di intervenire, valutando la legittimità della clausola anche in un’ottica consumeristica, deriva dalla considerazione che anche in questo caso rimanga preminente la tutela di un interesse pubblico, seppur portato da una categoria determinata di individui ; insomma, anche una stretta cerchia di soggetti è, in ogni caso, depositaria di interessi che sono sovraordinati agli interessi personali degli individui stessi, e tali valori fondamentali devono poter esser sempre protetti dall’ordinamento .
La dottrina, pertanto, individua in questa norma di protezione, quale oggetto di tutela, un cosiddetto ordine pubblico di protezione , e cioè una collettività specifica considerata dal legislatore debole e che necessita pertanto di una specifica formulazione normativa predisposta ad hoc , senza tuttavia negare rilievo ai principi fondamentali di ordine pubblico, nonché dell’interesse generale al corretto funzionamento delle regole del mercato ; in sintesi la nullità di protezione, sotto il profilo della rilevabilità d’ufficio, ricalcherebbe, senza derogarla la disciplina di cui all’art. 1421 cod. civ., previsto per la nullità in materia civile .

 

 

 

 

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