Testo integrale con note e bibliografia

Arbeit macht frei. Ciò che più ferisce nell’atroce sberleffo rivolto ai deportati che varcavano la soglia del lager di Auschwitz, a ben vedere, è che la proposizione in cui esso consiste può essere vera: esiste un lavoro nel quale la persona si realizza, un lavoro che produce e garantisce la sua libertà. Lo scherno sta nell’omonimia tra questo lavoro e il lavoro disumanizzante dello schiavo, della persona ridotta a strumento, o addirittura della persona che attraverso il lavoro massacrante viene uccisa. La perfidia nazista sta nell’uso di questa omonimia per irridere, con la menzione del lavoro nella sua accezione più alta, milioni di persone che proprio attraverso il lavoro nell’altra sua accezione, quella infernale, stanno per percorrere l’ultimo tratto del percorso loro riservato verso lo sterminio.
Il contrasto tra queste due accezioni opposte della nozione di lavoro ritorna nella vita e nell’opera di Primo Levi, forse il più grande tra coloro che hanno vissuto quello infernale e ne hanno scritto, per poi passare a scrivere pagine altrettanto intense e profonde sul lavoro che non solo salva la persona umana, ma ha la virtù di darle la felicità.
L’avere conosciuto direttamente entrambi consente a Primo Levi di far emergere di ciascuno l’essenziale. Il primo è il lavoro che non soltanto affatica mortalmente – questo è talvolta proprio anche del secondo – ma è progettato e inflitto per affermare l’inferiorità della persona che lo svolge, punirla, ridurla al rango di bestia:
“gli ignobili avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev’essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. […] tormento del corpo e dello spirito, mitico e dantesco […]”
(I sommersi e i salvati, p. 1086)(*).
In Se questo è un uomo (p. 61), Levi osserva che, quando questa è la natura del lavoro, anche il sorvegliante più benevolo tratta il lavoratore come una bestia:
[…] i Kapos […] alcuni ci percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico quasi amorevolmente, accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.
Nulla di nuovo sotto il sole: nel gelo di Auschwitz accade qualche cosa di simile a quanto è descritto nel libro dell’Esodo ((I, 11-14, 5, 6-9):
Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Rames. […] Si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli d’Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. […] In quel giorno il faraone ordinò ai sorveglianti del popolo e ai suoi scribi: “[…] Pesi dunque il lavoro su questi uomini” (Es. 5, 6-9).
Il lavoro come sofferenza (labor: fatica, travaglio, dolore) che si presta a essere inflitta come pena, come castigo. Che è, del resto, quello che il Siracide (XXXIII, 25-29) prescrive come il trattamento appropriato nei confronti dello schiavo:
Pane, castigo e lavoro per lo schiavo. […] Giogo e redini piegano il collo […]. Fallo lavorare perché non stia in ozio […] obbligalo al lavoro come gli conviene, e se non obbedisce stringi i ceppi.
Primo Levi osserva che per conseguire lo scopo di degradare la persona, di disumanizzarla, il lavoro-castigo “non deve lasciare spazio alla professionalità”. Deve essere pura fatica. Perché appena si crea qualche spazio nel quale possa manifestarsi un “saper fare” o addirittura un pensiero progettuale, anche il lavoro del deportato e persino quello del condannato allo sterminio assume in qualche modo il carattere opposto, quello del lavoro nel quale la persona umana si esprime e che nel Lager può addirittura costituire una via di salvezza, come fu per lui stesso. Leggiamo ancora ne I sommersi e i salvati (p. 1087)
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano a essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana.
E ancora (ivi, p. 1087):
Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso) un fenomeno curioso: l’ambizione del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicata da spingere a ‘far bene’ anche lavori nemici, nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per farli invece ‘male’.
*
Qui Primo Levi passa sull’altro versante dell’omonimia: il lavoro di cui parla in questa pagina è quello nel quale la persona umana si realizza arrivando addirittura ad attingervi la felicità. È quello di cui scrive, in un altro libro, che
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
La citazione, famosissima, è tratta da La chiave a stella (p. 1015): un libro che al lavoro in questa sua accezione diversissima dalla precedente è interamente dedicato. La chiave a stella è un vero e proprio inno al lavoro inteso come l’attività attraverso la quale la persona entra in contatto con il senso della propria esistenza, non soltanto perché in esso esprime tutta la propria intelligenza e creatività, ma anche perché con esso la persona si pone al servizio del prossimo, dedica se stessa all’umanità di cui si sente parte. In questo, il lavoro del chimico-scrittore Levi è perfettamente equiparato a quello dell’impiantista Faussone, il quale ne trae l’intenso
piacere del vedere crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso “forse un altro non ci sarebbe riuscito”
(p. 989).
Questo piacere prescinde totalmente dalla circostanza che il frutto del lavoro appartenga a chi lo ha compiuto o entri immediatamente nella disponibilità di un utilizzatore o beneficiario. Lo sguardo di Faussone sulla propria creatura è lo stesso del protagonista del Ponte sul fiume Qwai, citato da Levi in questa stessa pagina: il colonnello inglese prigioniero dei giapponesi che ha diretto i suoi compagni di prigionia nella costruzione di un ponte ferroviario in legno di squisita fattura e che, quando scopre i guastatori suoi connazionali che intendono distruggerlo, cerca di opporvisi per amore della propria opera. Se non fosse stato di nove anni posteriore alla pubblicazione de La chiave a stella, forse in questa pagina Levi avrebbe citato anche un altro film: Il pranzo di Babette, la cena sopraffina che la protagonista prepara per le sue padrone e i loro ospiti, ma in realtà per far rivivere almeno una volta, in un piccolo villaggio sperduto nel nord della Danimarca, il proprio talento raffinato di cuoca parigina, giungendo addirittura a spendervi tutti i propri averi per ottenere la perfezione, senza neppure goderne come commensale: dove la forza dell’amore di Babette per la propria opera è tale da sedurre e travolgere i suoi stessi beneficiari, inducendoli a superare le discordie che fino a quel momento li hanno divisi. Alle padrone che, quando i commensali se ne sono andati, la ringraziano di cuore rammaricandosi del fatto che abbia speso per quel pranzo tutto quello che aveva, Babette risponde con un sorriso felice: “Un artista non è mai povero”.
La migliore approssimazione alla felicità su questa terra – ci avverte dunque Primo Levi – sta nell’amare il proprio lavoro, che sia lavoro intellettuale o manuale, anche il più umile; il lavoro del libero professionista o quello del lavoratore dipendente. Qui – forse inavvertitamente, perché non ha una formazione giuridica, ma forse invece consapevolmente – l’autore della Chiave a stella arricchisce di significato un precetto che compare già nella cultura della Roma antica: quello per il quale ogni obbligazione, e quella di lavoro più di ogni altra, deve essere adempiuta, oltre che con la diligenza tecnica richiesta dalla natura della prestazione, anche con la diligenza del bonus pater familias. Il significato di questo precetto, sul piano esistenziale prima ancora che su quello giuridico, è diffusamente ignorato nella cultura del lavoro di oggi.
La parola “diligenza” deriva dal verbo diligere, che significa amare. Affermare che ogni lavoro deve essere svolto con la diligenza del buon padre di famiglia ha dunque un contenuto pratico molto impegnativo: significa che chi lo svolge ha il dovere giuridico di farlo per la persona beneficiaria della prestazione, chiunque essa sia, nello stesso spirito e con lo stesso amore con cui un genitore lo farebbe per l’altro coniuge o per un proprio figlio. E – si osservi la raffinatezza del diritto romano fin dalle sue origini più antiche – non con l’amore di un genitore qualsiasi, che potrebbe essere un po’ sciatto o anaffettivo, ma con l’amore di un buon genitore!
Già questo è un precetto che, se venisse diffusamente rispettato, rivoluzionerebbe molti ambienti di lavoro e molti servizi. Ma Primo Levi ci invita ad arricchire ulteriormente di significato il canone della diligenza. Se vuoi che il tuo lavoro non soltanto adempia il tuo obbligo, ma anche ti avvicini il più possibile alla felicità – ci avverte – la diligenza con cui devi svolgerlo non è soltanto amore per la persona che ne è beneficiaria, ma è anche amore per il lavoro stesso che stai svolgendo.
Un amore che – per evitare il rischio di trascendere in idolatria – richiede anche quella capacità di distacco dal proprio lavoro, di ascolto silenzioso e di confronto col senso della propria vita, che nella cultura ebraica si esprime nel rispetto del riposo sabbatico.
*
Forse non tutti sanno che nel secolo ventunesimo il lavoro inteso nella prima accezione che abbiamo qui considerato è drasticamente vietato, a ogni longitudine e latitudine, dall’ordinamento dell’ONU: non mi riferisco tanto al divieto della riduzione della persona umana in schiavitù, quanto al principio fondamentale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, organo appunto delle Nazioni Unite, che dal 1998 vieta in modo assoluto “qualsiasi forma di lavoro forzato od obbligatorio” (forced or compulsory), anche come pena applicabile a persone detenute: anche in carcere il lavoro può e deve essere solo quello che ridà alla persona speranza e buona coscienza di sé, del proprio valore. C’è poi una norma dell’ordinamento europeo che vieta inderogabilmente non soltanto il lavoro che richiede sforzi dannosi per la salute di chi lo compie, ma anche quello che abbia soltanto tratti di monotonia e ripetitività incompatibili con il benessere psico-fisico di chi vi è addetto. Insomma, oggi in Europa il lavoro cui è adibito Charlot alla catena di montaggio in Tempi moderni sarebbe vietato. Così come è sicuramente contrario al diritto oggi vigente il modo in cui troppo spesso nelle campagne del nostro Mezzogiorno vengono fatti lavorare gli immigrati, condannati a un lavoro forzato, alla mercé dei loro sfruttatori, proprio in conseguenza del fatto che lo Stato nega loro il permesso di accedere al lavoro regolare.
Al contrario, secondo il diritto europeo e quindi anche il nostro ordinamento nazionale, tutto nell’azienda – dalla strumentazione all’organizzazione del lavoro – deve essere ergonomicamente concepito in funzione del benessere psico-fisico di chi vi è addetto. Ciò che, a ben vedere, può essere letto come un corollario del principio della diligenza del bonus pater familias, applicabile anche all’adempimento dell’obbligazione contrattuale dell’imprenditore nei confronti del dipendente: l’obbligo giuridico per l’imprenditore di creare nell’azienda le condizioni perché ogni persona che vi è inserita, dalla prima all’ultima, possa amare il proprio lavoro.
Detto questo, però, è ancora Primo Levi ne La chiave a stella (p. 1016) ad avvertirci che l’amore per il proprio lavoro dipende dalle circostanze esterne, dall’organizzazione e dall’ambiente, assai meno che da quanto alberga nell’animo della persona interessata:
Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena; ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.
Dove si conferma ancora una volta che le chiavi della felicità non dobbiamo cercarle fuori, ma dentro noi stessi.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.