Testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione: profili di storia dell’OIL
Per quanto non ne mancassero i sostenitori già nei decenni precedenti, l’idea di una legislazione internazionale sul lavoro cominciò ad affermarsi con la grande fase di industrializzazione che investì l’Europa negli ultimi decenni del 19° secolo.
La diffusione delle nuove industrie siderurgiche, meccaniche, chimiche ed elettriche, e l’introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo, nei trasporti e nelle comunicazioni, accrebbero fortemente l’interdipendenza fra le economie europee, incrementando di conseguenza anche la mobilità del lavoro. In un contesto caratterizzato dall’introduzione dei primi meccanismi di assicurazione sociale, apparve sempre più necessario istituire forme di coordinamento che permettessero di estendere ai migranti i diritti garantiti ai lavoratori nazionali. Contemporaneamente, le spese per l’assicurazione sociale mostrarono di incidere in modo crescente sui costi di produzione, riducendo la competitività delle imprese interessate e spingendo così all’introduzione di misure protezionistiche.
Una legislazione internazionale del lavoro che spingesse a un’armonizzazione delle normative nazionali cominciò quindi ad apparire la via adatta per disinnescare tale meccanismo, favorendo la tendenziale parificazione dei costi sociali e neutralizzandone quindi l’impatto sul gioco della concorrenza.
Per questo nei decenni precedenti la prima guerra mondiale in diversi paesi europei nacquero associazioni e si tennero conferenze mirate allo sviluppo di una legislazione internazionale del lavoro.
La principale di tali conferenze, alla quale parteciparono rappresentanti di undici paesi europei, si tenne a Berna nel 1906, e adottò due convenzioni internazionali, una delle quali – che limitava il lavoro notturno per le lavoratrici – sarebbe stata in seguito recepita dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) .
A convincere i governi europei dell’opportunità di istituire un organismo permanente furono però la Grande Guerra e le sue conseguenze.
Innanzitutto perché alla fine del conflitto appariva evidente il ruolo giocato dal protezionismo nell’alimentare il nazionalismo, e quindi nel determinare lo scoppio della guerra stessa, e vi era consenso unanime sulla necessità di rimuovere ogni possibile ostacolo alla costruzione di un sistema di libero scambio. In secondo luogo perché i partiti socialisti e i sindacati avevano contribuito fedelmente allo sforzo bellico in tutti i paesi coinvolti, in cambio della promessa di maggiore inclusione nel gioco politico nazionale e di politiche incisive per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
Una promessa che i fatti di Russia dell’ottobre 1917, e la loro influenza sulle masse popolari del resto d’Europa, avevano reso ineludibile per le classi dirigenti europee.
Per questi motivi i governi riuniti alla conferenza di pace di Parigi decisero di dar vita all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che, insediata a Ginevra, avrebbe costituito uno dei due pilastri internazionali del nuovo assetto di pace, accanto alla Società delle Nazioni.
Scopo istituzionale dell’OIL era l’approvazione di convenzioni internazionali in materia sociale e lavorativa, che gli stati membri avrebbero poi dovuto ratificare e applicare al proprio interno. In questo modo l’organizzazione riprendeva gli obiettivi delle summenzionate iniziative pre-belliche, puntando a stimolare un avanzamento parallelo delle legislazioni sociali nazionali che rispondesse alle esigenze delle classi popolari senza incidere sugli equilibri competitivi.
Ma lo stimolo allo sviluppo della normativa sociale ora intendeva anche rispondere al messaggio rivoluzionario proveniente dalla Russia, contrapponendogli una via al benessere e al miglioramento delle condizioni di vita che non fosse in conflitto con gli orientamenti della democrazia liberale.
Il richiamo alla giustizia sociale, presente nell’atto costitutivo dell’OIL, aveva innanzitutto questo scopo. A rivelare più di tutto gli intenti “stabilizzatori” dell’organizzazione era però la composizione tripartita dei suoi organi decisionali.
Sia l’organismo plenario, la Conferenza internazionale del lavoro, che l’organo di governo ristretto, il Consiglio di Amministrazione, erano infatti composti da rappresentanti dei governi, delle associazioni imprenditoriali e delle forze sindacali dei paesi membri, secondo una scelta volutamente mirata a contrapporre un principio di collaborazione e dialogo sociale ai richiami alla lotta di classe diffusi dal bolscevismo.
Per dare un’idea del rilievo attribuito all’OIL e alla sua funzione di stabilizzazione economica e sociale, basti ricordare che, al pari del Covenant della Società delle Nazioni, il suo atto costitutivo fu inserito in tutti i trattati di pace .
Nonostante le aspettative iniziali, negli anni 20 l’OIL non giocò un ruolo di particolare rilievo.
È vero che, sotto la guida del suo primo Direttore, il socialista riformista francese Albert Thomas, il Bureau International du Travail (BIT), segretariato permanente dell’organizzazione, avviò fin dall’inizio una vasta opera di raccolta ed elaborazione di dati sui temi sociali e del lavoro, affermandosi rapidamente come un punto di riferimento fondamentale.
Anche l’attività normativa registrò buoni risultati, se si pensa che fra il 1919 e il 1932 furono approvate 33 convenzioni internazionali su una variegata gamma di temi, anche se non tutte ottennero il numero di ratifiche necessarie per entrare in vigore.
L’OIL però non ebbe mai un’effettiva centralità nel dibattito internazionale, dal quale le questioni sociali rimasero regolarmente escluse, in linea del resto con le modalità della stabilizzazione economica che interessò l’Europa a partire dalla metà del decennio, incentrata sul ritorno al gold standard e sulle conseguenti politiche di rigore.
Né fu coinvolta, se non in modo marginale, nelle grandi conferenze economiche internazionali di quegli anni, compresa quella di Ginevra del 1927 dove, dopo le difficoltà degli anni precedenti, gli stati membri sembrarono accordarsi per un rilancio del libero scambio, tema che pure stava al cuore dell’attività dell’OIL .
La situazione non sembrò migliorare col crollo di Wall Street del 1929 e lo scoppio della crisi economica, alla quale tutti i paesi reagirono rifugiandosi in un forte protezionismo, e che anche per questo ridusse al minimo gli spazi per la collaborazione internazionale. E, anzi, la conseguente involuzione autoritaria di molti paesi creò ulteriori difficoltà all’organizzazione, sfidata adesso anche dai nuovi corporativismi di destra e abbandonata nel 1933 da Germania e Giappone e nel 1937 dell’Italia.
Ciò detto, è vero che proprio gli effetti della crisi economica mondiale crearono le condizioni per l’evento che più di ogni altro avrebbe giocato in favore della “rinascita” politica dell’organizzazione: l’adesione degli Stati Uniti d’America .
Dopo aver partecipato attivamente alla sua istituzione durante la conferenza di Parigi, gli Stati Uniti erano rimasti fuori dall’organizzazione per effetto della mancata ratifica dei trattati di pace. Nel corso degli anni 20 avevano collaborato regolarmente con la SdN e l’OIL, partecipando a studi, ricerche e conferenze, ma sempre rifiutando le implicazioni e gli obblighi che sarebbero derivati dalla membership.
La crisi economica, e l’insediamento di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca nel 1933, avevano però cambiato le cose. Al cuore delle politiche del New Deal stava infatti l’idea di sviluppare robuste misure di intervento sociale per fornire un sostegno ai milioni di disoccupati causati dalla crisi, misure però da applicare sul territorio degli Stati Uniti in modo uniforme, di modo da non aprire la strada a pratiche di delocalizzazione industriale fra uno stato e l’altro. Poiché le convenzioni e le attività dell’OIL apparivano perfettamente funzionali a questo tipo di obiettivi, fin dall’inizio l’Amministrazione Roosevelt lavorò a favore dell’adesione, smussando le numerose resistenze presenti nel paese – provenienti soprattutto dai ranghi del partito repubblicano e dagli stati del Sud – e ottenendo il voto favorevole del Congresso alla metà del 1934.
A partire da quel momento gli Stati Uniti si affermarono come la forza dominante all’interno dell’OIL, orientandone in modo crescente gli studi e le ricerche, ma anche spingendola ad abbandonare il focus sulle problematiche europee – che ne aveva caratterizzata l’attività fino a quel momento – e ad avviare, ad esempio, un programma di assistenza tecnica per l’edificazione di sistemi di sicurezza sociale nei paesi dell’America Latina. Nel 1938 gli USA espressero inoltre il nuovo Direttore del BIT nella figura di John Winant, ex-governatore del New Hampshire e stretto collaboratore di Roosevelt.
Questo nonostante la ratifica delle convenzioni dell’OIL incontrasse fin dall’inizio forti ostacoli, scontrandosi con le numerose resistenze, all’interno del paese, a contrarre impegni attraverso accordi internazionali in materie tradizionalmente riservate alla competenza degli stati federati.
Per questo motivo gli Stati Uniti rimangono ancora oggi uno dei paesi col minor numero di ratifiche in assoluto .
Winant lasciò la direzione del BIT nel 1941, quando con l’approssimarsi del coinvolgimento USA nella seconda guerra mondiale, fu nominato da Roosevelt Ambasciatore a Londra. Prima di andarsene riuscì però a far trasferire la sede dell’OIL sul continente americano – ospite, per la precisione, dei locali della McGill University di Montreal – dove l’organizzazione poté continuare la sua attività al riparo dai rischi cui, con l’occupazione tedesca della Francia e l’entrata in guerra italiana, si trovava oramai esposta la sede di Ginevra.
Con un numero di funzionari ridotto al minimo, scarse risorse finanziarie e una parte dei paesi membri rappresentati da governi in esilio, l’OIL visse gli anni della guerra in una sorta di limbo, svolgendo studi e ricerche ma spesso addirittura dubitando della propria sopravvivenza futura. La 26esima conferenza internazionale del lavoro, che si tenne a Philadelphia nella primavera del 1944, rappresentò da questo punto di vista un momento di svolta.
La conferenza è tutt’oggi ricordata come un momento fondamentale nella storia dell’OIL, d’importanza pari, se non addirittura superiore, alla conferenza fondativa del 1919.
Al di là delle numerose risoluzioni e raccomandazioni relative alle necessità della futura ricostruzione post-bellica, il momento centrale della conferenza fu l’approvazione di una Dichiarazione che aggiornava la “ragione sociale” dell’organizzazione, affiancando ai suoi tradizionali principi-guida di dialogo e giustizia sociale una serie di obiettivi che si erano universalmente affermati nelle democrazie occidentali negli anni del conflitto.
Obiettivi come piena occupazione, miglioramento delle condizioni di lavoro, sicurezza sociale, condizioni di vita dignitose, che erano sempre stati parte del patrimonio dell’OIL, ma che le sofferenze causate dalla crisi e poi dalla guerra avevano reso ineludibili, e il cui perseguimento era ora innalzato dalla “Dichiarazione di Philadelphia” a compito fondamentale dell’organizzazione, nell’idea che costituissero componenti essenziali di un diritto universale degli esseri umani a ricercare il proprio benessere materiale e spirituale «in conditions of freedom and dignity, of economic security and equal opportunity» .
Alla fine della guerra l’organizzazione fu inserita come agenzia specializzata nella nuova famiglia delle Nazioni Unite. E, come l’intero sistema ONU, finì per rimanere invischiata nelle dinamiche della guerra fredda.
Va detto che per l’OIL la guerra fredda poneva problematiche particolari. Essendo stata creata, come si è visto, in voluta contrapposizione col messaggio di lotta di classe promanato dalla rivoluzione d’ottobre, essa aveva sempre incontrato l’ostilità dell’Unione Sovietica, il cui governo, nonostante i ripetuti inviti, aveva rifiutato di partecipare alla conferenza di Philadelphia e di aderire all’organizzazione.
Così, nei primi anni della guerra fredda, la sua ispirazione originaria e l’assenza sovietica contribuirono a determinare il sostanziale schieramento dell’OIL dalla parte dell’occidente.
Per dare un’idea, il primo programma di assistenza tecnica su vasta scala varato dall’organizzazione, il “Manpower programme” del 1948, aveva lo scopo di assistere i paesi dell’Europa occidentale nella gestione dei problemi di manodopera connessi col Piano Marshall.
È solo con la morte di Stalin, nel 1953, e il conseguente avvio della “prima distensione”, che l’atteggiamento del governo di Mosca si ammorbidì, portando nel 1956 all’adesione dell’Unione Sovietica all’OIL .
Nel frattempo, però, l’avvio del processo di decolonizzazione aveva già mutato gli orizzonti dell’organizzazione, distogliendone sempre di più l’attenzione dall’Europa e dal mondo occidentale per focalizzarla sui paesi di nuova indipendenza.
Già negli anni 30 erano state organizzate due “conferenze regionali” panamericane, dedicate cioè alle peculiarità e alle esigenze specifiche dei paesi di quel continente.
Nell’immediato dopoguerra la prassi era stata avviata anche per i paesi dell’Asia, e col progredire della decolonizzazione essa fu estesa a quelli dell’Africa, con l’organizzazione della prima conferenza regionale africana a Lagos nel 1960.
Contemporaneamente l’OIL affiancò alla tradizionale attività normativa – che fra la fine anni 40 e il decennio successivo produsse alcune delle sue convenzioni più importanti, dedicate a libertà di associazione, contrattazione collettiva, lavoro forzato e lotta alla discriminazione – un forte sviluppo dei programmi assistenza tecnica.
Era infatti evidente che per i paesi di nuova indipendenza, carenti di infrastrutture, con sistemi produttivi fragili e istituzioni giovani e ancora instabili, l’applicazione delle convenzioni internazionali del lavoro trovava ostacoli talvolta insormontabili.
Più promettente, e anche più sensata, appariva la messa a disposizione delle vaste conoscenze tecniche presenti nel BIT per aiutare quei paesi a consolidare i propri meccanismi e la propria legislazione in materia sociale e lavorativa, cosa che fra l’altro avrebbe anche contribuito a favorire la futura applicazione delle convenzioni .
A partire dagli anni ’50, quindi, in parallelo con un trend che caratterizzò tutte le organizzazioni della famiglia ONU – e spesso in sinergia con alcune di queste – l’OIL iniziò ad avviare una lunga serie di programmi di assistenza tecnica .
Nel 1969, in occasione del cinquantesimo anniversario dalla sua fondazione, l’OIL ricevette il Premio Nobel per la pace, motivato dal lungo impegno dell’organizzazione in favore della giustizia sociale attraverso la sua attività normativa e di assistenza tecnica.
Nello stesso anno l’OIL lanciò uno dei suoi programmi più ambiziosi, il World Employment Programme (WEP).
Il programma scaturiva dal generale ripensamento delle politiche di sviluppo avviate dalle Nazioni Unite nei decenni precedenti, e dalla necessità di aggiungere un elemento qualitativo alla mera ricerca della crescita economica. Intento del WEP, in particolare, era mettere il lavoro – in quanto fattore fondamentale di realizzazione dell’individuo e di affermazione della dignità umana – al centro dello sviluppo, assistendo i governi e gli altri organismi internazionali nella promozione di politiche mirate a dotare ogni essere umano di un impiego produttivo .
Il programma dispiegò la sua attività nel corso degli anni 70 e 80, ottenendo finanziamenti sostanziosi dai paesi membri dell’OIL e da altri organismi della famiglia ONU, che gli permisero di portare avanti un’ampia serie di studi sui temi dell’impiego e di avviare progetti pilota in vari paesi .
Le grandi ambizioni del WEP finirono però per scontrarsi con i cambiamenti strutturali che investirono l’economia mondiale negli anni 70 – con l’inizio della fluttuazione valutaria e l’impatto dei due shock petroliferi di inizio e di fine decennio – e col conseguente cambiamento del paradigma economico dominante.
Le nuove politiche di deregulation, stabilità monetaria e contenimento della spesa pubblica, inaugurate a cavallo dei due decenni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, mal si conciliavano con l’orientamento fondamentalmente keynesiano del WEP, e più in generale ridimensionavano il ruolo di un organismo strutturalmente incentrato sul dialogo sociale come l’OIL. In questo contesto, caratterizzato fra l’altro da un nuovo innalzamento dei toni dello scontro bipolare – con i noti attacchi del Presidente Reagan all’“impero del male” sovietico – riacquisivano un significato politico di rilievo alcuni aspetti della tradizionale attività normativa dell’OIL.
Questo fu particolarmente visibile nel caso della crisi scoppiata in Polonia all’inizio degli anni 80, quando il governo del generale Jaruzelski introdusse la legge marziale e sospese le attività del sindacato Solidarność, infrangendo così le convenzioni OIL su libertà di associazione e contrattazione collettiva che pure la Polonia aveva ratificato. Seguendo le apposite procedure dell’organizzazione, inclusa l’istituzione di una commissione di inchiesta, negli anni seguenti l’OIL invocò a più riprese il ritorno al rispetto delle convenzioni, contribuendo, assieme alle altre pressioni internazionali, alla decisione del governo polacco di riconoscere Solidarność e aprire così la strada alla libertà di associazione nel paese .
Con la fine della guerra fredda e l’avvento della globalizzazione, gli spazi d’azione dell’OIL non sembrano essersi particolarmente ampliati.
A partire dagli anni 90, anzi, con la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (e il tentativo fallito, in quel contesto, di affermare il principio di inserire una “clausola sociale” in tutti gli accordi commerciali) e la piena liberalizzazione dei movimenti di capitale a livello globale, le possibilità di influenza per l’organizzazione tripartita si sono forse ulteriormente ridotte. Ciononostante l’OIL ha cercato di individuare una via per dare un suo contributo peculiare al contesto della globalizzazione, puntando a diffondere l’applicazione e il rispetto di un piccolo gruppo di principi di base a livello mondiale.
La “ILO Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work”, del 1998, ha formalmente individuato in libertà di associazione, abolizione del lavoro forzato e del lavoro minorile, ed eliminazione di ogni discriminazione sul lavoro i “core labour standards”, il cui rispetto è da considerare irrinunciabile .
L’anno successivo, la “Decent work agenda”, ha avviato un nuovo programma di sostegno allo sviluppo dell’impiego che ha il rispetto dei “core labour standards” fra i suoi pilastri fondamentali .
Un’iniziativa, questa, che si è ulteriormente irrobustita nel 2008 con l’approvazione della “Declaration on Social Justice for a Fair Globalization”, una sorta di nuova dichiarazione di Philadelphia che ha riaffermato i tradizionali obiettivi di giustizia sociale dell’organizzazione e il suo impegno a renderli effettivi nel contesto della globalizzazione .

2. I principali strumenti d’intervento dell’OIL
Mancano, nella Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (OIL) , previsioni tali da esplicitamente vincolare gli stati membri – in ragione della loro mera appartenenza all’OIL – all’osservanza di regole e principi promananti dall’Organizzazione stessa.
Ed in effetti (salvo quanto si dirà sulla dichiarazione del 1998), i principali strumenti d’intervento dell’OIL, le Convenzioni, tramite le quali l’Organizzazione ha sostanzialmente introdotto degli “standard” internazionali in materia di lavoro, vincolano solo i paesi membri che le abbiano ratificate (art. 35 Costituzione OIL) .
Talvolta le Convenzioni si accompagnano a specifiche Raccomandazioni.
Queste ultime sono, in sé, prive di forza cogente, non abbisognano di ratifica ed obbligano gli stati membri unicamente ad attivarsi per sottoporle agli organi interni e a rendere poi conto delle decisioni adottate.
Vanno poi menzionate le risoluzioni, le conclusioni, nonché gli ulteriori strumenti operativi adottati dall’OIL. Le prime sono dirette, sostanzialmente, a esplicitare un indirizzo politico eventualmente nei confronti di singoli stati membri; le conclusioni possono riguardare specifiche tematiche tecniche, o rispondere ad esigenze specifiche; l’azione svolta dall’OIL tramite gli strumenti, per così dire, “operativi” si sostanzia principalmente nella realizzazione di programmi di cooperazione all’interno degli stati membri .

3. Il necessario rispetto degli “human rights at work”
È noto – per riassumere in breve un dibattito di vastissima portata – che a fronte della globalizzazione dei mercati si è posta con rinnovata urgenza la questione di come assicurare un livello effettivo di tutela ai lavoratori, impiegati nell’intera catena produttiva globale.
Con la dichiarazione di Singapore del 1996, in un primo momento, l’Organizzazione mondiale del commercio aveva espresso il rifiuto dell’uso ai fini protezionistici di “labour standards”, che mettessero in discussione il vantaggio comparato dei paesi in via di sviluppo, collegato, in particolare, al loro diverso standard salariale .
Diversa è stata, fin da subito, la posizione dell’OIL , la quale ha raccolto tali istanze di tutela: dapprima, nel 1998, tramite la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro (Ginevra, 18 giugno 1998) essa ha affermato che tutti i membri dell’OIL sono tenuti, in ragione della loro mera appartenenza all’Organizzazione, a rispettare, promuove e realizzare i “principi” riguardanti i diritti fondamentali, alla base delle otto convenzioni fondamentali dell’OIL, di valenza “costituzionale”. E dunque i principi in materia di libertà di associazione e riconoscimento della contrattazione collettiva (convenzioni C. 87 del 1948, C. 98 del 1949); l’eliminazione del lavoro forzato o obbligatorio (C. 29 del 1930, C. 105 del 1957), l’abolizione del lavoro minorile (C. 138 del 1973, C. 182 del 1999) e l’eliminazione delle discriminazioni in materia di lavoro e occupazione (C. 100 del 1951, C. 111 del 1958).
Tale “svolta” si fonda, sostanzialmente sull’«innesto, nello status di membro dell’OIL, dell’obbligo di rispettare quelle regole che, per l’inerenza del loro contenuto alle fondamenta del sistema di giustizia sociale, grazie al solo fatto della partecipazione all’Organizzazione internazionale del lavoro, non potrebbero essere neglette da Stati appartenenti a questa» . È stato tuttavia sottolineato, in senso critico, come la dichiarazione non obblighi gli stati membri a garantire un determinato livello di tutela, limitandosi a promuovere la realizzazione dei “principi” riguardanti i richiamati diritti fondamentali .
Dieci anni dopo l’OIL, con la Dichiarazione sulla giustizia sociale adottata a Ginevra il 10 giugno 2008, ha chiarito che «la violazione dei principi e dei diritti fondamentali del lavoro non può essere invocata come vantaggio comparato illegittimo», così sostanzialmente legittimando l’introduzione nei trattati commerciali internazionali di clausole sociali volte al rispetto delle convenzioni fondamentali dell’OIL; tale posizione è stata condivisa da chi ha sostenuto la necessità di “internalizzare” i costi legati al rispetto dei “core labour standards” in quello che, ai fini delle regole del commercio internazionale, viene considerato “valore normale” del prodotto .
Si tratta di clausole variamente connotate: talune (in particolare, quelle di matrice americana) caratterizzate da un approccio più “contentious”, altre invece (quelle di matrice europea) incentrate sull’attivazione di procedure di collaborazione e consultazione . Si tratta, ad ogni modo, di clausole la cui concreta “giustiziabilità” è spesso messa in crisi da una molteplicità di fattori : il contenuto spesso più “aspirational” che effettivamente cogente, la mancanza di un efficace apparato sanzionatorio, la non sempre chiara applicabilità, anche per esse, delle procedure di enforcement predisposte per le clausole commerciali, la riluttanza degli stessi stati membri a ricorrere alla sospensione degli scambi, in caso di gravi violazioni dei diritti umani.
Naturalmente, in parallelo, l’OIL ha proseguito nell’attività di elaborazione delle convenzioni. E, tuttavia, è stato notato che sostanzialmente «l’OIL si è trovata a elaborare regole, o meglio ipotesi di regole sociali, in isolamento rispetto alle dinamiche dei trattati commerciali e senza l’appoggio dei vantaggi e delle sanzioni di questi» .

4. Il ruolo dell’OIL nella promozione delle tecniche di “responsabilità sociale d’impresa”
Del pari, l’OIL ha svolto un ruolo importante nella promozione degli strumenti riconducibili alla “Responsabilità sociale d’impresa”, la quale comporta l’azione volontaria delle aziende, oltre le prescrizioni di legge, al fine di conseguire obiettivi sociali ed ambientali, nel corso della loro attività.
Particolare importanza, sotto tale profilo, riveste la Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale, adottata dal Consiglio di Amministrazione dell’Ufficio internazionale del lavoro nel 1977 e successivamente emendata, da ultimo nel 2017.
Obiettivo della dichiarazione è quello di sollecitare e favorire l’applicazione dei principi contenuti nelle Convenzioni e nelle Raccomandazioni internazionali del lavoro da parte delle multinazionali, lungo tutta la catena di approvvigionamento, «in modo da garantire il lavoro dignitoso per tutti, obiettivo universale riconosciuto nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile».
In sostanza, viene riconosciuto il crescente ruolo dell’iniziativa volontaria delle multinazionali, al fine di garantire adeguati standard di trattamento ed il rispetto dei diritti sociali, lungo tutta la catena produttiva. La dichiarazione OIL sulle multinazionali, in particolare, promuove comportamenti virtuosi da parte delle multinazionali stesse in tema di trasparenza nelle informazioni, occupazione e relazioni industriali, anticorruzione, tutela dei consumatori, prevedendo la predisposizione di meccanismi di “due diligence” diretti ad individuare e a prevenire il rischio di impatto negativo delle proprie attività (sull’ambiente, i diritti umani…), con riferimento all’intera catena di fornitura.
In sostanza, l’idea sottesa a tale dichiarazione tripartita è che non solo gli stati, ma anche le imprese multinazionali dovrebbero promuovere, assicurare e rispettare i diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale lungo l’intera catena degli approvvigionamenti. In particolare le imprese dovrebbero mettere in atto processi di “due diligence” per “identificare, prevenire e mitigare” i propri impatti negativi sui diritti umani e “rendere conto” del modo con cui affrontano il problema.
Analoghi principi sono espressi dalle Linee guida OCSE sulle multinazionali, aggiornate al 2011 e, in ambito ONU, dai “Principi guida su imprese e diritti umani” (c.d. Ruggie principles) del 2011.
Notevole importanza rivestono, altresì, “codici di condotta” e “linee guida” elaborati in seno all’OIL, al fine di sollecitare i diversi attori del panorama internazionale – ed in particolare le imprese multinazionali – a farsi promotori della tutela del lavoro, nel proprio raggio di azione.
Si tratta di strumenti riconducibili alle cd. tecniche di “soft law” che contengono «principi, norme, standards e ogni altro elemento identificativo di comportamenti attesi ma non obbligatori» .
Sicuramente interessante è, ad ogni modo, la pratica di (parziale) recepimento di tali codici di condotta in accordi collettivi transnazionali, stipulati dalle multinazionali, che contengano l’impegno da parte delle stesse al rispetto dei “labour standard” generalmente accolti nelle clausole sociali dei trattati .
Ed anzi, parte degli interpreti suggerisce la promozione da parte dell’OIL stessa di forme di etichettatura sociale dei prodotti, dirette a orientare i consumatori all’acquisto di beni prodotti da imprese che garantiscano nell’intera catena di approvvigionamento un “lavoro dignitoso” .
Vale qui la pena di sottolineare che tali linee guida, principi guida, codici di condotta elaborati a livello internazionale, ed in particolare in seno all’OIL (ma non solo), diffondendo il linguaggio e la cultura della responsabilità sociale d’impresa, hanno creato i presupposti per eventuali successivi interventi cogenti.
In questo senso si segnala in primo luogo una recente iniziativa in ambito ONU: nel 2014, su impegno di alcuni stati emergenti, tra cui Ecuador e Sud Africa, si sono aperti i negoziati per la stipula, in ambito ONU, di un vero e proprio trattato internazionale vincolante in materia di imprese e diritti umani.
Negoziati che, però, stanno procedendo molto faticosamente. Soprattutto, si segnala (quale “esempio”, sia pure settoriale di “integrazione” di tecniche di “soft law” riconducibili alla responsabilità sociale d’impresa, e di “hard law”) il Regolamento europeo 821/2017 che istituisce a carico degli importatori europei un “dovere di diligenza” nell’approvvigionamento di minerali provenienti da zone di conflitto, o ad alto rischio. Rendendo cioè obbligatorie quelle procedure di “due diligence” già introdotte, in via volontaria, a carico delle multinazionali in ambito OCSE, ONU, OIL .

5. OIL ed effettività delle tutele. Le clausole programmatiche e di souplesse
Come si è detto – al di là di quanto previsto dalla Dichiarazione del 1998 circa i principi riguardanti i diritti fondamentali, alla base delle otto convenzioni fondamentali – le Convenzioni dell’OIL vincolano unicamente gli stati che le hanno ratificate. Anche quando le stesse implichino che certe azioni siano intraprese dai datori o dai lavoratori, esse sono indirizzate ai governi, che sono obbligati a intraprendere le azioni necessarie per conformarsi alle loro previsioni .
È chiaro dunque – anche a fronte della presa d’atto della mancata ratifica di rilevanti convenzioni da parte di numerosi stati membri – che l’Organizzazione ha dovuto, nel tempo, adottare un approccio più pragmatico, diretto, in particolare, a favorire l’implementazione delle convenzioni tramite la concessione agli stati membri di margini di discrezionalità sempre più rilevanti.
Ed in effetti, le Convenzioni “di ultima generazione” si caratterizzano sempre più per un linguaggio non stringente, ma volto più ad affermare principi e ad indicare obiettivi da perseguire da parte dei legislatori nazionali, o comunque tale da lasciare anche ai paesi emergenti, più restii alla loro ratifica, spazi per modularne il rigore (cfr. art. 19, n. 3 della Costituzione OIL), anche tramite l’apposizione di riserve o di specifiche deroghe.
In sostanza, il tentativo di raggiungere un sempre maggiore numero di ratifiche da parte di stati connotati, inevitabilmente, da un diverso grado di sviluppo, ha portato ad ulteriormente attenuare il grado di uniformità perseguito , riducendo l’utilizzo di clausole prescrittive a vantaggio di quelle “programmatiche” e “di souplesse” , che consentono ad esempio di graduare anche temporalmente l’implementazione dello standard. Ciò che, tuttavia, ne riduce le potenzialità regolative.

6. Il difficile accesso alla giustizia nei paesi emergenti
È stato posto in evidenza, peraltro, come, non sempre, ad un’estesa attività di ratifica delle Convenzioni corrisponda un efficace sistema di accesso alla giustizia, in particolare in quei paesi emergenti ove manca un sistema giudiziario trasparente ed efficace: in sostanza, l’effettività delle tutele risulta sostanzialmente compromessa in quei paesi connotati da un ridotto tasso di democraticità, ove l’accesso al sistema giurisdizionale interno è largamente deficitario.

7. Il sistema di supervisione dell’OIL
Al fine di garantire la ratifica e l’osservanza delle Convenzioni da parte degli stati membri, l’OIL ha istituito un sistema ordinario di supervisione, che ha il suo fulcro nella predisposizione, da parte degli stati, di periodici rapporti.
In primo luogo, gli stati membri devono informare il Direttore dell’Ufficio internazionale del lavoro delle misure prese per sottoporre la convenzione alle autorità competenti per la ratifica.
In caso di mancata ratifica, lo stato membro deve periodicamente inviare al Direttore generale rapporti sullo stato della sua legislazione e della prassi nazionale sul tema della convenzione oggetto di mancata ratifica, precisando le misure tramite le quali intende dare seguito alla stessa, chiarendo altresì quali sono le difficoltà che impediscono o determinano il ritardo nella ratifica (art. 19, n. 5, b Costituzione OIL).
Dette informazioni sono, in sostanza fatte oggetto di analisi da parte del CEACR nell’ambito dei suoi rapporti generali, nei quali il Comitato analizza le misure poste in essere tanto dagli stati ratificanti, quanto dai non ratificanti in ordine a specifiche convenzioni e raccomandazioni .
Non sono tuttavia previste significative conseguenze sanzionatorie, in caso di omissione: ai sensi dell’art. 30 della Costituzione dell’OIL gli altri stati membri interessati possono deferire la questione al Consiglio di amministrazione, il quale può fare rapporto alla Conferenza.
Quanto alle Raccomandazioni che, come si è detto, non devono essere ratificate – gli stati membri devono comunicare al Direttore generale le misure adottate per dare seguito alle stesse e – ove ciò non sia avvenuto – devono fare rapporto al Direttore generale in merito.
Gli stati membri devono, altresì, presentare all’Ufficio internazionale del lavoro un rapporto annuale circa i provvedimenti adottati al fine di porre in esecuzione le Convenzioni cui hanno aderito (art. 22 Costituzione OIL). Viene così realizzato un sistema di supervisione “permanente”, che prescinde dall’attivazione degli altri Stati membri eventualmente interessati a fare rilevare l’infrazione .
Peraltro, l’OIL supporta al contempo gli stati membri nell’applicazione delle convenzioni e raccomandazioni, attraverso il dialogo sociale e l’assistenza tecnica .
A tale sistema di supervisione “permanente” si affianca, poi, un sistema speciale di supervisione: le organizzazioni professionali dei lavoratori (sindacati) e dei datori di lavoro possono presentare un reclamo (rimostranza) all’Ufficio internazionale del lavoro (c.d. procedura di rappresentanza), contro gli stati membri che non abbiano provveduto a dare adeguata esecuzione alle convenzioni cui abbiano aderito. I governi sono sentiti in merito (art. 24 Costituzione OIL) e, ove le relative giustificazioni non siano ritenute soddisfacenti, il reclamo (rimostranza) (e la relativa risposta governativa) può venire reso pubblico da parte del Consiglio di amministrazione dell’OIL (art. 25) .
Gli articoli da 26 a 34 della Costituzione dell’OIL disciplinano, poi, la c.d. “procedura di reclamo”: gli stati membri che abbiano provveduto alla ratifica di determinate convenzioni possono proporre reclami contro altri stati membri che, pur avendo ratificato le convenzioni, non diano alle stesse corretta esecuzione (art. 26) .
Ove le eventuali risposte del governo in questione non siano ritenute sufficienti, il Consiglio di amministrazione può nominare una Commissione d’inchiesta, cui gli stati membri sono tenuti a comunicare tutte le informazioni in loro possesso (art. 27).
La medesima procedura può essere avviata da parte del Consiglio d’ufficio o su reclamo di uno dei delegati alla Conferenza. La Commissione d’inchiesta, all’esito dell’esame del reclamo, redige un rapporto e formula le proprie proposte circa i provvedimenti da adottare e la relativa tempistica (art. 28).
Ove il governo interessato non accetti le raccomandazioni contenute nel rapporto della Commissione, deve comunicare al Direttore generale dell’Ufficio internazionale del lavoro se intende sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia (art. 29) – organo giurisdizionale delle Nazioni Unite – competente a decidere in via definitiva i ricorsi e le controversie (art. 31), se del caso confermando, modificando o annullando le conclusioni o le raccomandazioni della Commissione d’inchiesta (art. 32) .
Ancora una volta, tuttavia, il “sistema sanzionatorio” è alquanto debole.
Se il paese membro non si conforma, nel termine assegnato, alle raccomandazioni della Commissione d’inchiesta, o contenute nella decisione della Corte internazionale di giustizia, il Consiglio di amministrazione proporrà alla Conferenza le misure opportune per garantire l’esecuzione delle raccomandazioni stesse (art. 33) .

8. In particolare: la procedura di supervisione relativa alla tutela della libertà di associazione e del diritto alla negoziazione collettiva
A tali procedure di supervisione si affianca quella relativa alla tutela della libertà di associazione e del diritto alla negoziazione collettiva, che vede il suo fulcro nel Comitato sulla Libertà di Associazione (CLA) (che si configura come una commissione del consiglio di amministrazione), istituito nel 1951, un anno dopo la “commissione di investigazione e conciliazione” . Detto Comitato è competente all’esame delle denunce promosse dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, o anche da un altro Stato membro interessato, a prescindere dalla circostanza che il paese membro abbia o no ratificato le specifiche convenzioni in materia di libertà sindacale (Conv. n. 87/1948; Conv. n. 98/1949) .
Ciò, in ragione del fatto che, per espressa previsione della Costituzione dell’OIL, tutti gli stati membri sono obbligati a rispettare la libertà sindacale in ragione della mera appartenenza all’OIL .
All’esito dell’esame del caso, in contraddittorio con il governo interessato, il Comitato sulla Libertà di Associazione redige un rapporto e formula, eventualmente, raccomandazioni. Esso può altresì intraprendere una “missione” diretta a risolvere la situazione, attraverso una procedura di dialogo, con il governo e le parti sociali.
Pur nella carenza di strumenti cogenti, le Raccomandazioni di volta in volta emanate dall’OIL in materia di tutela della libertà sindacale sembrano poter rivestire un qualche impatto nei diversi paesi, stimolando una messa a punto della relativa legislazione nazionale.
In tale prospettiva, può essere menzionato, ad esempio, l’intervento del CLA in relazione alla vicenda italiana FIAT FIOM, conclusasi con la emanazione della sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013, in ordine alla illegittimità costituzionale dell’art. 19 Stat. lav., nella parte in cui non consentiva la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali anche nell’ambito di sindacati che - pur avendo partecipato alle trattative per la stipulazione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva - avessero poi rifiutato di sottoscriverlo.
Nel caso italiano, la giurisprudenza costituzionale ha, per così dire, “preceduto” l’intervento del CLA , potendo poggiarsi su un substrato normativo e istituzionale invece carente in altri paesi, in cui il livello delle tutele sindacali è molto più basso. Un simile paradigma è, forse, difficilmente proponibile in diversi contesti connotati da un più ridotto livello di democraticità.
È, però, proprio in tali paesi che gli strumenti del diritto internazionale, sia pure non cogenti, possono manifestare la loro utilità.
Si pensi alla decisione del 2010, nella quale il CLA, da un lato, concludeva nel senso della sussistenza di una grave violazione della libertà sindacale, per avere il datore di lavoro (Delta Airlines) invitato i lavoratori a strappare le schede elettorali per l’elezione delle rappresentanze sindacali; dall’altro, dichiarava, nel contempo, l’equivalenza dell’importanza della libertà di espressione e della libertà di associazione .
L’Organizzazione internazionale dei datori di lavoro proponeva dunque un’interpretazione della decisione del CLA nel segno della libertà per i datori di lavoro – in nome della libertà di espressione – di porre in essere campagne antisindacali. Ma tale (erronea) interpretazione veniva confutata dall’ITUC (Confederazione internazionale dei sindacati) e generava un importante dibattito interno, con rilevanti risvolti nella giurisprudenza nazionale, in ordine alla legittimità o no della prassi di campagne antisindacali, diffusa negli stati Uniti.

9. Possibili sviluppi futuri
Detti meccanismi di supervisione, sia “periodici” che “occasionali”, hanno, ad ogni modo, subito profonde modifiche nel corso degli anni, talora suggellate da specifiche decisioni .
Parte degli interpreti chiarisce che per ridare effettività alle misure introdotte dall’OIL, occorrerebbe mettere a punto – a Costituzione invariata – talune modifiche relative al suo sistema di supervisione, eccessivamente penalizzante per gli stati che abbiano ratificato le convenzioni, rispetto a quelli che invece non le abbiano ratificate ; ciò, in particolare, valorizzando i “rapporti generali” del CEACR quale sede per l’analisi della situazione nei paesi non ratificanti; mantenendo ferma la centralità del CEACR in ordine alla redazione di rapporti relativi alle procedure “ordinarie” di supervisione di cui all’art. 22 della Costituzione dell’OIL ma ridistribuendo in modo appropriato le responsabilità relative alle procedure del sistema speciale di supervisione; mettendo a punto una nuova politica sociale, diretta a sostenere gli stati membri nell’ottimizzare le loro potenzialità, in sinergia con altri organismi internazionali .
Occorrerebbe inoltre istituire i Tribunali, previsti dall’art. 37, co. 2 della Costituzione dell’OIL .

10. La ratifica delle convenzioni e l’ordine di esecuzione
Si è detto che le Convenzioni divengono vincolanti per gli stati membri solo se ratificate, mentre, in mancanza di ratifica, gli stati sono soggetti unicamente ai limitati obblighi di cui all’art 19 della Costituzione OIL. Al contrario, le convenzioni non ratificate assumono lo stesso valore giuridico delle raccomandazioni.
In merito, con riferimento all’ordinamento italiano, si è peraltro notato come, di fatto, raramente le specifiche leggi nazionali tramite le quali si è data ratifica alle Convenzioni dell’OIL abbiano avuto reale incidenza nella disciplina della materia, od abbiano trovato applicazione giudiziale; e ciò, in sostanza, in ragione della tendenza del legislatore nazionale a “ri-regolare” le medesime questioni, con specifiche disposizioni normative, magari dotate di un apparato sanzionatorio e garanzie giurisdizionali più efficaci, come avvenuto, ad esempio, in tema di libertà sindacale con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori .
In sostanza, pur a fronte di norme convenzionali di contenuto precettivo, lo stesso legislatore tende, talora, ad “affiancare” alla legge di ratifica (contenente l’ordine di esecuzione) distinti, specifici interventi normativi, di per sé ultronei, ma diretti a facilitare una più ampia penetrazione di tali regole nel nostro ordinamento.
Si pone così il problema del rapporto tra le disposizioni internazionali, rese esecutive nell’ordinamento e tali disposizioni “interne”: questione che, stante il carattere di «norme minime proprio delle norme internazionali del lavoro» viene risolta nel senso della «prevalenza della disciplina più favorevole al lavoratore» .
E, del resto, «tale criterio, enunciato nelle varie norme internazionali o nel quadro normativo in cui esse si inseriscono, risolve anche le eventuali divergenze tra fonti diverse di diritto internazionale del lavoro» .
Si è però posta, in giurisprudenza, un’ulteriore questione, relativa al momento a partire dal quale detto effetto vincolante (della convenzione ratificata) si produce nel nostro ordinamento.
Si è già sottolineato che talora le Convenzioni (specialmente quelle “di seconda generazione”) evitano di imporre precetti stringenti, ma contengono una disciplina, per così dire, di principio, o che comunque necessita di essere completata tramite attività organizzativa e regolamentare dello Stato (come ad esempio per quanto riguarda le convenzioni in materia di ispezioni sul lavoro). Al contrario, talora le disposizioni delle convenzioni sono “self-executing” (in quanto di contenuto chiaro, preciso, incondizionato) e non necessitano per la loro attuazione (al di là della ratifica e dell’ordine di esecuzione) di un ulteriore intervento da parte dello Stato.
Tale distinzione si riflette anche sul momento a decorrere dal quale le disposizioni della Convenzione trovano applicazione nell’ordinamento nazionale .
Ove le norme della convenzione siano «complete e determinate nel loro preciso contento» , la Convenzione spiegherà i suoi effetti nell’ordinamento interno fin dall’entrata in vigore della legge di ratifica contenente l’ordine di esecuzione.
Ove, invece, le stesse abbiano natura programmatica «l'ordine di esecuzione non è sufficiente per una effettiva applicazione delle norme internazionali, occorrendo una normativa interna di attuazione», a far data dalla quale gli effetti si produrranno nell’ordinamento interno .
Così, ad esempio, in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL sui lavoratori migranti n. 143 del 1975, la Corte di Cassazione ha precisato che tale disposizione, nella parte in cui obbliga gli stati (che abbiano ratificato la Convenzione) a «formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio» ha natura programmatica ; sicché, per darvi concreta attuazione «non basta l’ordine di esecuzione impartito dalla legge di ratifica, essendo invece necessaria l’emanazione di specifiche norme da parte dello Stato .

11. La questione relativa alla portata vincolante, o no, degli orientamenti interpretativi del CEACR o del CLA
È chiaro che, in linea di principio, eventuali pronunce della Corte internazionale di giustizia, in merito ad una convenzione OIL ratificata da uno Stato membro assumerebbero portata “interpretativa” di questa. Ai sensi dell’art. 37 della Costituzione dell’OIL la Corte internazionale è, infatti, è competente a dirimere tutte le controversie concernenti l’interpretazione della convenzione e delle convenzioni concluse dagli stati membri.
Non sembrano assumere, invece, analoga valenza interpretativa “vincolante” gli orientamenti del CEACR e del CLA.
Questo, in effetti, sembra l’esito della complessa vicenda che, nel 2012, ha visto le organizzazioni datoriali opporsi all’interpretazione del CLA – poi fatta propria dal CEACR – in ordine alla possibilità di derivare il “diritto di sciopero” quale corollario della “libertà sindacale”, di cui alla convenzione OIL n. 87 del 1948; ciò, a fronte della posizione restrittiva della stessa Corte di Giustizia in ordine al bilanciamento del diritto di sciopero con le libertà economiche fondamentali tutelate dall’Unione europea e, segnatamente della scelta della Corte stessa di non richiamare - in occasione delle discusse pronunce Viking e Laval - i principi sul diritto di sciopero elaborati in seno all’OIL .
Ora, parte della dottrina ha notato come l’appropriazione, da parte del CEACR della c.d. “giurisprudenza” del CLA, non fosse un’operazione del tutto ortodossa: essa implicava in effetti un “salto di qualità”: laddove, nelle pronunce del CLA, il diritto di sciopero assumeva, inizialmente, la valenza di “principio”, il cui necessario rispetto discendeva dalla stessa appartenenza dello Stato all’OIL; mentre invece – nell’ambito del sistema di supervisione di cui all’art. 22 (per le convenzioni oggetto di ratifica) – esso viene apprezzato dal CEACR come vero e proprio diritto, la cui violazione può portare all’applicazione delle misure coercitive di cui all’art. 33 della Costituzione .
Ed, in effetti, le organizzazioni datoriali temevano la sempre più profonda penetrazione che tale “giurisprudenza” del CEACR veniva assumendo, in particolare nelle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo , ma anche nell’ambito degli strumenti di “soft law” sopra richiamati, quali linee guida e principi guida elaborati dall’OCSE o dalle stesse Nazioni unite .
Sta di fatto che – trattandosi di questione “interpretativa” – essa sarebbe in ultima analisi dovuta essere sottoposta alla Corte internazionale di giustizia secondo la procedura di cui all’art. 37, co. 1 Cost. (non essendo stati istituiti i tribunali, di cui all’art. 37, co. 2 Cost. ; soluzione, quest’ultima, che sarebbe senz’altro auspicabile de futuro).
Cionondimeno, le organizzazioni datoriali – pur senza avvalersi delle procedure di cui all’art. 37 della Costituzione dell’OIL – non si limitarono a fare registrare il loro dissenso, rispetto al rapporto generale presentato dal Comitato sull’applicazione degli Standard, nel 2012, ma si rifiutarono di esaminare i casi concernenti le violazioni della Convenzione n. 87 del 1948, con conseguente paralisi della procedura. Ed (al di là del merito della questione, se il diritto di sciopero possa o no essere derivato dalla convenzione n. 87 del 1948) “incassarono”, in quell’occasione la dichiarazione dello stesso CEACR (in controtendenza con la precedente dichiarazione del 2013 ) circa il carattere non strettamente vincolante delle proprie pronunce .
A tale proposito, tra le posizioni rilevanti assunte in ambito OIL merita di essere menzionata la recente pronuncia del Comitato tripartito , adito ex art. 24 della Costituzione OIL in merito alla rimostranza presentata da due confederazioni sindacali, avverso la legge spagnola in tema di licenziamento (l. n. 3/2012) – la quale, in particolare, prevedeva un periodo di prova di un anno, durante il quale il licenziamento poteva essere intimato senza una giustificazione, e senza indennità - ritenuta da detti sindacati incompatibile con la Convenzione n. 158/1982. A tale pronuncia si affianca quella del Comitato europeo dei diritti sociali , istituito nell’ambito del Consiglio d’Europa, relativa al caso finlandese .
Ora, come noto, la Corte costituzionale italiana ha recentemente negato che le pronunce di quest’ultimo Comitato (deputato ad assolvere alle procedure di reclamo collettivo previste dalla Carta sociale europea) abbiano carattere “vincolante”. E lo ha fatto sulla base di argomentazioni (pur criticate, in parte dalla dottrina) spendibili, mutatis mutandis, anche con riferimento al CEACR.
In sostanza la Corte costituzionale italiana (interrogandosi sulla efficacia delle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali) osserva come manchino, nella Carta sociale europea e nei relativi protocolli addizionali disposizioni equivalenti a quelle contenute nell’art. 32, par. 1 e nell’art. 46 della CEDU, le quali, rispettivamente, proclamano la competenza della Corte EDU sulle questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’impegno delle parti contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. Non può dunque assegnarsi alle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, in rapporto alla Carta sociale europea, quella particolare valenza “interpretativa” già riconosciuta dalla nostra giurisprudenza costituzionale alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento alla CEDU .
Ora, trasponendo al CEACR il ragionamento che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 194/2018, riferisce al Comitato europeo, occorre osservare che la Costituzione dell’OIL demanda, bensì, alla Corte internazionale di Giustizia (e ai Tribunali di cui all’art. 37, co. 2, se istituiti) la competenza a dirimere tutte le controversie concernenti l’interpretazione della convenzioni, ma non assegna analoga competenza interpretativa al Comitato. Sicché, anche con riferimento al CEACR sembra di dover concludere (ove si segua l’orientamento restrittivo adottato dalla Consulta con riferimento al Comitato europeo dei diritti sociali) per l’esclusione del carattere vincolante delle sue pronunce.
Ciò che, ancora una volta, farebbe ritenere giunto il momento di istituire i Tribunali, di cui all’art. 37, co. 2 della Costituzione dell’OIL .

12. Il conflitto tra una norma interna ed una convenzione dell’OIL ratificata
Il rilievo che, nel nostro ordinamento, assumono le normative internazionali e, più segnatamente, le normative prodotte dall’OIL si coglie esplicitamente nell’art. 35, co. 3, Cost., ai sensi del quale la Repubblica «promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro» .
Quanto all’art. 10, co. 1 Cost. – ai sensi del quale «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» – è stato, invece, chiarito che esso concerne unicamente le norme internazionali generali (consuetudini e principi generali di diritto) e non già il diritto internazionale pattizio, sicché resta escluso che possa denunciarsi la mancata conformità all’articolo in commento di una disposizione nazionale che si ponga in contrasto con una convenzione internazionale dell’OIL.
Diversamente doveva ritenersi (in materia di condizione giuridica dello straniero) per quanto riguarda l’art. 10, co. 2 Cost., ai sensi del quale «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Tale norma pone, da un lato, nella materia, il principio della riserva di legge (relativa e rinforzata); dall’altro conferisce rilevanza costituzionale alle norme e ai trattati internazionali aventi ad oggetto il trattamento degli stranieri. Secondo parte degli interpreti, le leggi in materia di condizione giuridica dello straniero sono assoggettate, ratione materiae, a particolari vincoli di ordine costituzionale. Sarebbe pertanto incostituzionale, per violazione mediata dell’art. 10 cpv. Cost. una legge ordinaria successiva e incompatibile con le norme internazionali richiamate, tra cui figurano senz’altro le convenzioni dell’OIL, ratificate, in materia di lavoro degli extracomunitari. Queste ultime configurano dunque un limite alla discrezionalità dello Stato, garantendo l’adeguamento dell’Italia ai parametri vigenti nella comunità internazionale.
Al di là di quanto appena osservato, il diritto internazionale pattizio (ed in particolare quello dell’OIL) era però, fino alla riforma del 2001, formalmente sprovvisto di copertura costituzionale , anche se la dottrina internazionalistica aveva già da tempo avallato l’impiego di «tecniche interpretative (interpretazione conforme e specialità in ragione della fonte) che po(tevano) in taluni casi consentire al giudice ordinario di applicare comunque le norme internazionali pattizie anziché quelle interne contrastanti» .
La riscrittura dell’art. 117, co. 1 Cost. ad opera della riforma costituzionale introdotta con l. n. 3 del 2001 ha determinato rilevanti novità, fornendo un sicuro aggancio costituzionale ad una conseguenza già adombrata per il passato, ma (precedentemente) di incerta derivazione.
Pur nella varietà del dibattito, è infatti generalmente condivisa la tesi che una norma nazionale che confliggesse con una convenzione OIL ratificata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, co.1, Cost., il quale impone al legislatore di rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» .
Non può invece essere sindacato, secondo il parametro dell’art. 117, co. 1 Cost., il contrasto tra una norma nazionale e una convenzione OIL non ratificata dal nostro paese, posto che la stessa deve ritenersi “non vincolante”, come ha anche recentemente affermato la Corte costituzionale, con riferimento all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento .
Analoga distinzione vale ove il parametro evocato sia quello dell’art. 76 Cost. Anche a fronte di una legge delega che imponga il rispetto delle “convenzioni internazionali”, come ad esempio fa l’art. 1, co. 7 della legge di delegazione n. 183 del 2014, occorre, naturalmente, interpretare tale riferimento come riferito alle sole convenzioni “vincolanti” in quanto ratificate dal nostro Paese .
Del pari, la Corte costituzionale esclude che possa assumere rilievo (al fine di far assurgere la convenzione internazionale OIL non ratificata a parametro interposto) l’art. 18 della Convenzione di Vienna , che obbliga gli stati ad astenersi dal compiere atti suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo, posto che tale obbligo «non può spingersi fino a escludere la discrezionalità della ratifica e l'ineludibilità di essa ai fini dell’obbligatorietà del trattato - per l’Italia - sul piano internazionale» .

13. Il rapporto tra convenzioni dell’OIL e diritto europeo: il richiamo delle convenzioni OIL nei considerando di una direttiva
Quanto al rapporto tra le convenzioni dell’OIL e le fonti eurounitarie, occorre ricordare che le prime possono, bensì, essere ratificate dagli stati membri, ma non dall’Unione europea, che non è membro dell’Organizzazione .
In sostanza, si è notato, nell’ambito della «protezione multilivello attinente al diritto del lavoro attualmente vigente in Europa» si è creato uno scarto tra cessione di una quota di sovranità, a favore dell’Unione europea, da parte degli stati membri, e la circostanza che le convenzioni OIL vengano ratificate unicamente da parte di questi ultimi. Al punto che siffatto dibattito ha portato alla progettazione della possibilità, de futuro, di far ratificare le convenzioni all’Unione europea, piuttosto che ai singoli stati membri .
Non di rado, peraltro, talune direttive europee si richiamano, nei considerando, alle corrispondenti Convenzioni dell’OIL, precisando come occorra tenere conto dei principi in essi accolti.
Così, ad esempio, il sesto considerando della direttiva 2003/88 in materia di orario di lavoro si richiama ai principi dell’OIL espressi nella Convenzione in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Sulla base di tale richiamo, la Corte di Giustizia, a più riprese, ha valorizzato, in sede di interpretazione delle disposizioni della direttiva stessa, i “principi” di cui alla convenzione n. 132 dell’OIL .
Ora, pare chiaro che, in tal caso, le disposizioni della direttiva – vincolanti per tutti gli stati membri – debbano essere interpretate in conformità ai “principi” (e non già, necessariamente, ai singoli “precetti”) di cui alla specifica Convenzione . E ciò, parrebbe di poter aggiungere, anche qualora in ipotesi detta convenzione non sia stata ratificata da uno degli stati membri.
Non si tratterebbe, infatti, qui di imporre l’osservanza di obblighi discendenti dalla Convenzione in capo ad uno Stato che non la abbia ratificata, bensì di adottare – in sede di interpretazione delle disposizioni di una fonte del diritto derivato dell’UE, sicuramente vincolante per gli stati membri (la direttiva) – un’interpretazione “internazionalmente” orientata, in conformità all’espressa previsione della direttiva stessa.
Diversa questione è se una Convenzione dell’OIL – non espressamente richiamata nel diritto derivato dell’Unione europea – possa assumere, cionondimeno, valenza interpretativa di quest’ultimo.
Ora, analoga questione (circa la valenza interpretativa di una convenzione internazionale) si è posta, recentemente, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, con riferimento alla Convenzione ONU del 2006 sulla disabilità; lì la Corte ha, bensì ritenuto che le disposizioni della direttiva n. 78/2000 – dovessero essere interpretate in conformità a detta convenzione. Si trattava, tuttavia di convenzione che la stessa Unione europea aveva ratificato. Laddove, come si è detto, le Convenzioni OIL non possono essere ratificate da parte dell’Unione europea.
E tuttavia, come noto, vi è talora, nella giurisprudenza della Corte di giustizia un richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sicché, ben può darsi il caso che - ove ad una determinata convenzione dell’OIL faccia riferimento la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo – siffatta interpretazione “penetri”, sia pure indirettamente, nella giurisprudenza europea della Corte di giustizia .

14. Il conflitto tra una convenzione OIL ed una direttiva comunitaria
In ogni caso, sia la Corte di giustizia sia il giudice nazionale dovranno tenere conto degli obblighi scaturenti, a carico dello stato membro, dalla ratifica di una convenzione OIL, come subito si dirà.
La Corte di giustizia ha avuto modo di pronunciarsi sul rapporto corrente tra diritto europeo e convenzioni internazionali del lavoro in occasione della vicenda italiana e francese relativa al divieto notturno di lavoro per le donne.
In particolare, nella causa Levy , la Corte ha chiarito che il giudice nazionale ha, bensì, l’obbligo di garantire, nei rapporti verticali, l’osservanza dell’art. 5 della direttiva del Consiglio 76/207/CEE (disposizione self-executing) relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne, disapplicando ogni disposizione nazionale confliggente, ma fatto salvo il caso in cui l’applicazione di tale disposizione sia necessaria per «consentire allo Stato membro interessato di adempiere obblighi imposti da una convenzione stipulata con stati terzi prima dell’entrata in vigore del Trattato CEE».
Ed in effetti in una successiva pronuncia, la Corte (adita su ricorso della Commissione) ha avuto buon gioco ad affermare che – avendo mantenuto in vigore nel proprio ordinamento disposizioni che stabiliscono il divieto di lavoro notturno per le donne (l. n. 903 del 1977, art. 5, co. 1), pur avendo denunciato la Convenzione OIL n. 89 del 1992, precedentemente ratificata – il nostro paese era venuto meno agli obblighi sullo esso incombenti in forza del diritto comunitario .
In sostanza – in caso di conflitto – il criterio accolto dalla Corte di giustizia sembra essere quello secondo cui, ove lo Stato membro dell’Unione abbia contratto, prima dell’adesione all’Unione stessa, obblighi internazionali, esso in forza del “principio di leale cooperazione” di cui all'articolo 4, paragrafo 3, del TUE e dell’articolo 351 del TFUE, dovrà ricorrere a tutti i mezzi necessari per eliminare le incompatibilità (e così, ad esempio, denunciare la Convenzione).
In altra occasione, concernente i limiti al lavoro minerario delle donne, la Corte di giustizia ha tuttavia apportato dei temperamenti a questo principio. Sulla base del fatto che l’art. 7, co. 2 della Convenzione OIL n. 45 del 1935 consente la denuncia della convenzione stessa unicamente decorso un periodo di dieci anni dalla sua ratifica, la Corte ha ritenuto che uno Stato membro che non abbia prontamente denunciato la convenzione stessa a seguito dell’adesione all’UE utilizzando la prima “finestra utile”, in un momento in cui non era ancora chiara la sussistenza di un conflitto tra gli obblighi discendenti dalla convenzione e quelli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, non sia, per ciò solo, venuto meno agli obblighi sullo stesso incombenti per effetto del diritto comunitario .
Ove invece lo Stato abbia contratto obblighi internazionali in un momento successivo all’avvenuta adesione all’Unione, il conflitto andrebbe risolto secondo il criterio del favor.
In merito, parte della dottrina ritiene piuttosto che «un obbligo internazionale contrastante con una normativa comunitaria integra un vincolo non legittimamente assunto in quanto introduce una sua disciplina rispetto a materie “cedute” alla sovranità comunitaria. In altri termini, l’obbligo internazionale finirebbe per collidere direttamente con le previsioni del Trattato Ue e, conseguentemente, evidenzierebbe un contrasto con la disposizione di cui all’art. 11 Cost.» .

15. Gli ambiti di intervento dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: gli standard internazionali del lavoro, il lavoro dignitoso e Agenda 2030
Abbiamo esaminato, sin qui, gli aspetti più propriamente tecnici relativi alla natura giuridica degli strumenti e delle tecniche di intervento e regolazione dell’OIL, soffermandoci sulle questioni relative, soprattutto, alla loro effettività, “giustiziabilità” e supervisione.
Si tratta, ora, di tratteggiare, sinteticamente, quali sono gli ambiti di principale intervento delle norme (gli “standard”, nella terminologia inglese) internazionali del lavoro introdotte dall’Organizzazione.
La premessa ineludibile, a questo riguardo, è che se nella prima fase della sua attività l’OIL si concentrò sulla individuazione di regole minime di protezione umanitaria e sociale , successivamente, e progressivamente, l’ambito di intervento si è diretto verso il sostegno allo sviluppo economico e sociale.
La prospettiva, attualmente, è quella che si trova espressa nella c.d. Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile; si tratta di un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU ed ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile in un grande programma d’azione, consistente in 169 “target”/traguardi, che i paesi membri si sono impegnati a raggiungere entro, appunto, il 2030.
L’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 attiene al lavoro dignitoso, considerato come strumento per raggiungere uno sviluppo sostenibile e mira a “promuovere una crescita economica sostenuta, condivisa e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti”.
Questo è l’ambito di operatività diretta dell’OIL, il cui impegno nella direzione del “lavoro dignitoso” conferma, nel centenario dell’Organizzazione, la sentita esigenza da parte di quest’ultima di andare «oltre la disciplina dello stretto rapporto di obbligazione tra lavoratore e datore di lavoro, per estendersi ai più diversi aspetti che incidono sulla dinamica dei rapporti sociali» .
Questo aspetto è di sicuro interesse anche in relazione al dibattito, ancora in corso, ed aggravato dall’espansione del fenomeno delle piattaforme tecnologiche, circa il campo di applicazione delle regole lavoristiche.
Gli “standard” OIL tendono ad avere come oggetto di riferimento non solo il lavoratore subordinato, ma anche i lavoratori indipendenti, i proprietari di piccole imprese e, in termini più generali, “tout le personnes économiquement actives”.
Una chiara conferma di questa tendenza la si trova nei documenti conclusivi della Conferenza internazionale del lavoro tenutasi a Ginevra nel giugno 2019, ed in particolare sia nella “Dichiarazione per il futuro del lavoro”, sia nella nuova Convenzione 190 concernente l’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro; la Dichiarazione contiene principi destinati a tutti i lavoratori, privi di alcuna aggettivazione, mentre la Convenzione 190, all’art. 2, espressamente include nel proprio campo di applicazione “les travailleurs et autres personnes dans le monde du travail”, precisando che la nozione di persona che lavora è indifferente rispetto allo “statut contractuel” della relazione giuridica.
Il tema del lavoro dignitoso è oggetto dell’Agenda OIL del 1999, il cui concetto di fondo è che «il lavoro produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità, nel quale viene riconosciuta una giusta remunerazione, la previdenza sociale e la tutela dei diritti» deve orientarsi verso i quattro obiettivi strategici dell’OIL che sono la promozione dei diritti del lavoro, la promozione dell’impiego, la protezione sociale nelle situazioni di vulnerabilità, il potenziamento del dialogo sociale.
Il ruolo dell’OIL è centrale nella prospettiva della «manifestazione della portata universale dei valori sociali»; un recente saggio ha ribadito con chiara efficacia che «è proprio sul piano dei valori, l’unico capace di promuovere l’integrazione sociale nel lavoro e attraverso il lavoro, che dobbiamo anzitutto ricondurre il “mandato” dell’OIL e la sua incessante attività normativa» .
Il principio basilare su cui si regge il sistema dei valori e delle regole propugnate dall’OIL è contenuto, come noto, nella Dichiarazione di Filadelfia del 1944, che riconosce che “il lavoro non è una merce”.
Questo principio, recepito, nella sostanza, nelle Costituzioni degli Stati-nazione, esprime, in termini solenni, la “idea giuridica” secondo la quale il lavoro non è un prodotto inanimato, che può essere oggetto di negoziazione per ottenere il massimo profitto con il minimo prezzo.
Il lavoro è parte della vita quotidiana delle persone ed è cruciale nella prospettiva della dignità della persona, il suo benessere e lo sviluppo come essere umano . Il paradigma racchiuso nella negazione del carattere di merce del lavoro esprime il «rifiuto del modello proposto dalla teoria concorrenziale del mercato del lavoro relativo a domanda ed offerta»; questo assunto ha avuto e continua ad avere un risvolto normativo fondamentale, secondo il quale la società ha «un obbligo morale e legittimo di ricorrere alle leggi e alle istituzioni per modificare termini e condizioni di impiego ritenute inumane, anti-sociali o in violazione ai diritti umani fondamentali» .
Le norme internazionali del lavoro hanno la funzione di garantire che lo sviluppo economico rimanga focalizzato sul miglioramento della vita e della dignità delle persone, ed è ancora in questo senso che il concetto di “lavoro dignitoso” riprende le aspirazioni delle persone in relazione al lavoro.
È importante sottolineare la rilevanza strategica della scelta, operata dal Consiglio di Amministrazione dell’OIL nel 1998, e confluita nella Dichiarazione sui principi e diritti fondamentali nel lavoro, di identificare otto Convenzioni “fondamentali” che coprono argomenti che sono considerati principi fondamentali e diritti sul lavoro. I principi fondamentali del lavoro (i “core labour standards” nella terminologia anglosassone) attengono alla libertà di associazione ed all’effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva; all’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato od obbligatorio; all’effettiva abolizione del lavoro dei bambini ed all’eliminazione delle discriminazioni in relazione all’impiego ed all’occupazione.
Questi obiettivi di giustizia sociale sono contenuti nelle otto Convenzioni fondamentali sulla libertà di associazione e protezione del diritto di organizzazione (n. 87 del 1948), sul diritto di organizzazione e contrattazione collettiva (n. 98 del 1949), sul lavoro forzato (n. 29 del 1930 con il Protocollo relativo, del 2014), sull’abolizione del lavoro forzato (n. 105 del 1957), sull’età minima per il lavoro (n. 138 del 1973), sulle peggiori forme di lavoro minorile (n. 182 del 1999), sull’equa remunerazione (n. 100 del 1951), sulle discriminazioni (n. 111 del 1958).
La Dichiarazione del 1998 esprime l’impegno dei paesi membri di rispettare ed implementare gli otto principi e i diritti fondamentali sopra richiamati quali diritti sociali basilari riconosciuti come imperativi a prescindere dalla ratifica delle corrispondenti Convenzioni.
Un ruolo particolarmente rilevante dei c.d. “core labour standards” si gioca in relazione all’impiego dei medesimi nei trattati commerciali internazionali attraverso la promozione delle clausole sociali ovvero attraverso i codici di condotta delle multinazionali e la responsabilità sociale dell’impresa. Di questi aspetti si è detto più sopra nel paragrafo 4.
La relazione tra “core labour standards”, lavoro dignitoso e responsabilità c.d. “sociale” dell’impresa è strategica ed attiene al problema di conciliare il comportamento “socialmente responsabile” atteso dagli attori privati globali e gli sforzi legislativi statuali per attuare gli standard dell’OIL.
F. Maupain, nel suo articolo sul futuro dell’OIL , suggerisce che “la soluzione dovrebbe essere piuttosto che l’OIL lo rendesse gratificante per le imprese multinazionali sul mercato delle virtù sociali per contribuire a migliorare la legislazione nei paesi in cui scelgono di investire”. Una soluzione, si ritiene, potrebbe essere una “etichetta di lavoro decente”. È, questo, nella sostanza, il tema del “social labelling”, oggetto di ampia attenzione nella letteratura internazionale e di cui parimenti si è detto più sopra nel testo.
Si può a questo proposito evidenziare che è possibile intravedere una certa convergenza di obiettivi tra OIL ed iniziative normative dell’UE oltre che in relazione ad aspetti di carattere generale, come nel caso del sistema di “due diligence” di cui al già citato Regolamento 821/2017, anche nell’ambito di iniziative settoriali, quale la disciplina europea in materia di privacy. Il sistema di certificazione predisposto dal Regolamento 2016/679/UE, invero, rappresenta una sorta di etichetta sulla privacy. Ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 3, del Regolamento europeo da ultimo citato, infatti, l’aderenza ai codici di condotta riconosciuti, o i meccanismi di certificazione approvati, possono essere utilizzati come elemento per dimostrare la conformità agli obblighi del responsabile del trattamento.
Questa prospettiva può essere ricondotta agli obiettivi della Dichiarazione tripartita di principi riguardanti le imprese multinazionali (MNE) e la politica sociale adottata dall’OIL nel 1977 e successivamente modificata nel 2000, nel 2006 e nel 2017.
L’obiettivo della Dichiarazione MNE è (lo si è detto anche più sopra) di incoraggiare le società multinazionali a dare un contributo positivo al progresso economico e sociale e al raggiungimento di un lavoro dignitoso per tutti, nonché a ridurre al minimo e risolvere le difficoltà che le loro diverse attività possono creare.

16. Gli standard internazionali del lavoro: un quadro sintetico
Il principio della libertà di associazione è al centro dei valori dell’OIL.
Nella Dichiarazione sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta del 2008 si mette espressamente in evidenza l’esistenza di una relazione stretta tra i quattro obiettivi strategici dell’OIL (occupazione, protezione sociale, dialogo sociale e diritti nel lavoro) e si sottolinea come la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto di contrattazione collettiva siano fattori rilevanti per il raggiungimento dei quattro obiettivi strategici, da considerarsi “inseparabili, interconnessi” e sostenuti a vicenda, donde “il mancato raggiungimento di uno di essi pregiudicherà la realizzazione degli altri”.
La libertà di associazione (garantita dalla Convenzione n. 87 del 1948) assicura che lavoratori e datori di lavoro possano associarsi per negoziare relazioni di lavoro effettive.
La Convenzione sulla libertà di associazione sindacale è intimamente connessa con quella relativa al diritto di organizzazione e contrattazione collettiva, la n. 98 del 1949, completata dalla Convenzione sulle relazioni di lavoro nel settore pubblico (n. 151 del 1978) e dalla Convenzione sul contratto collettivo (n. 154 del 1981).
Il diritto di associazione sindacale quale elemento cardine della regolamentazione internazionale del lavoro è intimamente connesso al riconoscimento della non mercificazione del lavoro.
La libertà sindacale e la contrattazione collettiva contraddistinguono il lavoro dignitoso come un lavoro libero, «al quale si associa il principio del dialogo sociale come metodo di gestione dei rapporti lavorativi all’interno del principio della dignità» .
Non mercificazione del lavoro, libertà sindacale e contrattazione collettiva sono principi funzionali alla realizzazione della libertà del lavoro come principale veicolo di affermazione della persona umana e, conseguentemente, alle Convenzioni relative a questi aspetti sono intimamente correlate quelle sul lavoro forzato e la schiavitù oggetto, in particolare, delle Convenzioni nn. 29 del 1930 e 105 del 1957.
La prima vieta ogni forma di lavoro forzato od obbligatorio, mentre la seconda pone un divieto di lavoro forzato od obbligatorio quale forma di coercizione politica o educativa, ovvero come punizione per avere o esprimere opinioni politiche o opinioni ideologicamente opposte al sistema politico, sociale o economico stabilito. Nel 2014, considerata la persistente criticità globale rispetto alle pratiche di lavoro forzato e l’aumento del traffico di esseri umani destinati o da destinare allo stesso, in unione con l’accertata sussistenza di ampi difetti nell’implementazione delle Convenzioni citate, l’OIL ha adottato un Protocollo ed una Raccomandazione sul lavoro forzato.
È interessante notare come la Convenzione n. 29 preveda alcune eccezioni al divieto di lavoro forzato od obbligatorio, tra le quali, in particolare, rientra il lavoro richiesto in conseguenza di una condanna emessa da un Tribunale, a condizione che il lavoro o il servizio in questione sia svolto sotto la supervisione e il controllo di un’autorità pubblica.
Questo tema si ricollega a quello relativo al lavoro dei detenuti, che non è possibile affrontare in questa sede se non per sottolineare che, nella generale prospettiva delle tutele generalmente propugnate dall’OIL, pur considerando le eccezioni predette, a nessuno può essere negato il generale obiettivo del “lavoro dignitoso”, così come la promozione delle “capabilities” individuali da ultimo ribadita dalla Dichiarazione del Centenario OIL per il futuro del lavoro.
Altri ambiti fondamentali di intervento dell’OIL attengono al lavoro minorile e al divieto di discriminazioni.
Per quanto riguarda il lavoro minorile si deve ricordare la Convenzione sull’età minima di accesso al lavoro (la n. 138 del 1973) e la Convenzione sulle forme peggiori di lavoro minorile (la n. 182 del 1999); la Convenzione n. 138 prevede un’età minima di accesso al lavoro per tutti i settori produttivi pari a 15 anni, che si riduce a 13 per i “lavori leggeri” e sale a 18 per i lavori pericolosi (16 in presenza di determinate condizioni).
Il problema del lavoro minorile è particolarmente grave e complesso soprattutto se si considera che «il basso costo della manodopera minorile e, conseguentemente, dei beni prodotti e poi esportati dalle aree povere del mondo alle aree sviluppate è tra le ragioni evocate dai paesi in via di sviluppo per difendere i propri vantaggi comparati» .
Con riferimento alla parità di trattamento e di opportunità occorre richiamare almeno le Convenzioni n. 100 del 1951 e n. 111 del 1958, la prima delle quali esprime il principio generale della parità di trattamento retributivo tra uomini e donne per lavori, anche diversi, ma di equale valore. Interessante è la definizione della nozione di “remunerazione”, inclusiva del salario o stipendio ordinario, di base o minimo e qualsiasi emolumento supplementare dovuto direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore e derivante dal rapporto di lavoro del lavoratore.
La Convenzione n. 111 si riconnette espressamente alla Dichiarazione di Filadelfia e, segnatamente, alla parte in cui quest’ultima afferma che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla razza, dal credo o dal sesso, hanno il diritto di perseguire sia il loro benessere materiale e il loro sviluppo spirituale in condizioni di libertà e dignità, di sicurezza economica e pari opportunità.
Ai fini di questa Convenzione, il termine discriminazione include non solo qualsiasi distinzione, esclusione o preferenza fatta sulla base di razza, colore, sesso, religione, opinione politica, estrazione nazionale o origine sociale, che ha l’effetto di annullare o compromettere l’uguaglianza di opportunità o trattamento in occupazione o professione, ma anche (art. 1, lett. b), «qualsiasi altra distinzione, esclusione o preferenza che abbia l’effetto di annullare o compromettere la parità di opportunità o trattamento in materia di occupazione o impiego che può essere determinata dallo Stato membro previa consultazione con le organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, ove esistenti e con altri corpi appropriati».
Fra gli ulteriori, rilevantissimi, ambiti di intervento degli strumenti giuridici dell’OIL (tra cui si possono ricordare le consultazioni tripartite, l’amministrazione del lavoro, le ispezioni, le politiche occupazionali, la promozione del lavoro, la sicurezza, la retribuzione, l’orario di lavoro, la sicurezza sociale, la protezione della maternità, i lavoratori migranti, hiv/aids), merita un cenno la Convenzione sul lavoro marittimo, adottata il 23 febbraio 2006, successivamente modificata nel 2014 e nel 2016, entrata in vigore il 20 agosto 2013, ed attualmente ratificata da 93 Paesi membri, ivi compresa l’Italia.
Questa Convenzione revisiona e consolida 37 Convenzioni precedenti e relative Raccomandazioni e utilizza una tecnica normativa innovativa, con l’obiettivo di introdurre uno strumento unico e coerente che comprenda il più possibile tutte le norme aggiornate contenute nelle attuali convenzioni e raccomandazioni internazionali del lavoro marittimo nonché i principi fondamentali riportati nelle altre convenzioni internazionali del lavoro, ivi comprese le Convenzioni sul lavoro forzato, sulla libertà sindacale e la tutela del diritto sindacale, sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva, sull’eguaglianza di remunerazione, sull’abolizione del lavoro forzato, sulla discriminazione in materia di impiego e occupazione, sull’età minima e sulle peggiori forme di lavoro minorile.
La Convenzione 2006 reca in allegato un corposo e completo “Codice ILO-MLS” recante dettagliata disciplina delle condizioni di arruolamento marittimo.

17. La Dichiarazione per il futuro del lavoro adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro del 21 giugno 2019
Il rapporto della Commissione mondiale sul futuro del lavoro presentato nel corso della sessione del centenario dell’OIL contiene un piano incentrato sulla persona ed è basato sugli investimenti nel potenziale umano, nelle istituzioni del mercato del lavoro e nel lavoro dignitoso e sostenibile .
La Dichiarazione del Centenario è un documento breve ma essenziale che esamina le principali sfide e opportunità del futuro del lavoro: dalla tecnologia ai cambiamenti climatici, dai cambiamenti demografici al bisogno di nuove competenze. Fornisce indicazioni su come affrontare questi problemi urgenti e fornisce una piattaforma per la cooperazione con altre organizzazioni nel sistema internazionale. Ribadisce inoltre con forza il mandato dell’OIL di operare nella prospettiva della giustizia sociale e il ruolo cruciale del dialogo sociale e delle norme internazionali del lavoro.
La Dichiarazione recepisce un piano incentrato sulla persona e richiede di investire nelle risorse umane e nelle istituzioni del mercato del lavoro per salari adeguati, ore di lavoro limitate, sicurezza e salute e diritti fondamentali garantiti al lavoro.
Dall’esame dei diversi punti affrontati dalla Dichiarazione emerge un recepimento concettuale dell’approccio teorico delle c.d. “capabilities”, sviluppato da ampia parte della dottrina gius-lavoristica internazionale e collegato con l’art. 3.b della Dichiarazione di Filadelfia, che intende garantire un «impiego dei lavoratori in occupazioni in cui essi abbiano la soddisfazione di mostrare tutta la loro abilità e conoscenza e di contribuire per il meglio al benessere comune».
Il passaggio della Dichiarazione che si iscrive più esplicitamente in questa prospettiva è il punto II.A n. iii, dove si esprime lo sforzo di promuovere l’acquisizione di abilità, competenze e qualificazioni per tutti i lavoratori attraverso la loro vita lavorativa al fine, in particolare, di «migliorare la capacità dei lavoratori di sfruttare le opportunità disponibili per un lavoro dignitoso».
Altro aspetto particolarmente interessante e di attualità è quello relativo alla promozione di un sistema di governance internazionale per il lavoro su piattaforme digitali con attenzione specifica per la persona e la tutela dei dati personali dei lavoratori.

 

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