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Fin dalla sua Presentazione, il Manifesto “per un diritto del lavoro sostenibile” rende evidente l’urgenza e la forza con la quale gli Autori sentono il bisogno di rispondere, con tono che essi stessi definiscono assertivo piuttosto che argomentativo, ai tanti interrogativi che riguardano il futuro del lavoro e il futuro del diritto del lavoro.
Il testo non può quindi che essere apprezzabile per gli spunti di riflessione che propone e i temi di indagine e approfondimento che suggerisce, con la speranza che possano trovare terreni proficui di lavoro comune da parte degli studiosi e degli attori sociali.
Non è certo possibile, nel volerne offrire un commento che colga lo spirito proposto dalla riflessione, ripercorrere tutti i capitoli trattati nel Manifesto stesso; se ne apprezza lo sforzo di analisi complessiva e interconnessa fra i diversi punti trattati.
L’approccio scelto dagli Autori, al di là delle singole valutazioni di merito sui singoli punti, è questione che maggiormente merita attenzione e riflessione. Ed è questione che a chi scrive desta alcune perplessità.
Non apparteniamo ai fautori della retorica del “nulla sarà come prima”; la crisi pandemica ha soltanto accelerato e reso drammaticamente più urgenti trasformazioni sociali ed economiche già evidenti nella epoca pre-Covid.
Altrettanto dicasi per gli effetti di medio e lungo periodo delle incidenze economiche e sociali derivanti dal ridisegno delle specializzazioni produttive sulle dinamiche proposte alla attenzione del Manifesto.
Apparteniamo però ai fautori del “nulla deve essere esattamente come prima”, nel senso che il cambiamento che ci si propone come necessario, a maggior ragione dopo gli effetti della pandemia, è quello di un vero e proprio cambio di paradigma nelle scelte che guidano l’economia e il sociale.
Costruire un diritto del lavoro orientato a ristabilire una salda priorità dell’etica e dei diritti sulle logiche dell’economia dovrebbe essere, a parere di chi scrive, la bussola con la quale proviamo a orientarci nel mondo, mettendone in discussione gli attuali rapporti di forza.
Ci pare di intuire come la logica della declinazione versus quella del cambiamento sia prospettata come quella più concreta e praticabile e forse potrebbe anche essere vero, tuttavia la lunga e condivisibile sequenza delle trasformazioni e degli shock con cui il diritto del lavoro e la società tutta si sono dovuti confrontare manca, a mio parere, di un punto politico ineludibile nella discussione.
Il governo ( o il non governo ) di queste trasformazioni non è stato neutro, ma ha assecondato le pressioni provenienti da una parte del sistema economico, pressioni che si sono perseguite attraverso la logica della competizione da costi , con la precarizzazione delle condizioni di lavoro, anche con la riduzione di diritti acquisiti, la frammentazione e deregolamentazione dei cicli produttivi. Gli effetti nefasti della abolizione, nel 2003, della parità di trattamento nella filiera degli appalti ne è una drammatica riprova. L’espansione del lavoro nero e della economia criminale ne sono ulteriore riprova. Su questi aspetti il Manifesto meritava riflessioni più approfondite.
Non si tratta quindi di negare dinamiche economiche sempre più globalizzate e interconnesse, ma si tratta di comprendere se tutto deve essere piegato per forza a quelle dinamiche economiche o se non sia possibile costruire, anche a partire dalla centralità del lavoro e non solo dell’impresa, equilibri differenti.
Il testo offre peraltro moltissimi spunti di riflessione, propone interrogativi attualissimi e davvero poco dibattuti , aiuta sinceramente a proporre domande a cui servono riposte urgenti.
Non posso qui soffermarmi su tutti questi punti; alcuni di essi, in particolare quelli sulle trasformazioni demografiche e sui connessi squilibri generazionali, nonchè quelli relativi alla crescente incidenza delle politiche e del diritto transnazionale davvero meritano un approfondimento interdisciplinare. In ogni caso è ineludibile, per la politica, affrontare queste dinamiche; dagli esiti della stessa dipenderà la qualità dello sviluppo e del futuro non solo della nostra economia ma della nostra società.
In questo impegnativo contesto, la prospettiva che si propone non è quella fra più Stato (o Stato padrone) e una amministrazione migliore , ma quella di un rinnovato ruolo dello Stato: esso, non solo in questa fase straordinaria, non può svolgere semplicemente il ruolo di regolatore del «traffico» economico. Deve ergersi ad attore primario e dotarsi di strumenti come l’Agenzia per lo Sviluppo, che consentano di ricostruire le filiere produttive indicando priorità e determinando le necessarie sinergie con il sistema della ricerca e il sistema produttivo. Ovviamente, per affrontare l’emergenza economica, deve soprattutto costruire le condizioni per creare, anche in modo diretto, il lavoro.
Alcuni dei punti proposti dal Manifesto alla attenzione di chi legge sono decisamente stimolanti e meritano qualche riflessione più approfondita.
Vale certamente per la parte riferita alle trasformazioni del lavoro, in riferimento alle sempre maggiori difficoltà ad identificare con nettezza i confini fra la subordinazione e la autonomia; altrettanto vale per le trasformazioni di un mercato del lavoro che sempre più prevederà momenti di discontinuità che avranno necessità di essere supportati da adeguate protezioni.
Se non è più rinviabile una riflessione che definisca una serie di diritti universali che devono essere garantiti a tutti e non essere più legati a determinate caratteristiche del lavoro che si svolge, come proposto dalla nostra Carta dei diritti, occorre anche interrogarsi sulle scelte che il mondo della produzione dilata e amplia circa le professionalità autonome o parasubordinate sempre più inserite nei cicli produttivi ed interconnesse con il lavoro dipendente. Il processo di frammentazione e di esternalizzazione che nel tempo ha reso sempre più complesso il governo di filiere e cicli produttivi (con lavoratori di diverse realtà adibiti alla produzione degli stessi prodotti/servizi) si replica anche all’interno della stessa realtà imprenditoriale, con differenti tipologie contrattuali che rendono complicata la ricostruzione di una collettività comune.
In tale contesto, le trasformazioni relative ai processi di digitalizzazione meritano alcune riflessioni ad hoc che, come organizzazione, abbiamo ripetutamente indagato.
Non cambia solo il luogo ed il tempo del lavoro; cambia l’organizzazione del lavoro, il ruolo della formazione e l’approccio rispetto alle norme sul controllo della prestazione lavorativa.
Di fronte alle tante sollecitazioni, una delle parti più stimolanti del testo non può che essere quindi quella dedicata alla riflessione sulla necessità, condivisa, di rivitalizzare la capacità di azione collettiva, di rivitalizzare cioè l’azione negoziale e contrattuale delle parti sociali.
E, di conseguenza, interrogare e sfidare il sindacato al suo cambiamento.
In epoca di allentamento dei legami forti e ideologici degli anni passati, anche il sindacato è chiamato a modificarsi e a leggere le trasformazioni, diventando soggetto autorevole di rappresentanza degli interessi in un mondo del lavoro sempre più polarizzato.
Occorre cioè un soggetto che riscopra la propria natura mutualistica, aggregativa dei soggetti più poveri e bisognosi di tutela e che al contempo sappia interpretare le trasformazioni del lavoro intellettuale, delle alte professionalità e dei professionisti autonomi.
Non è di poco conto ragionare di come sia mutata l’adesione sindacale in questi anni, come il rapporto di fiducia sia continuamente da ricostruire, come la partecipazione attiva, consapevole e partecipe dei lavoratori ai processi aziendali debba fare i conti con l’indebolimento del lavoro in questi anni.
Non è rinviabile una riflessione sulla necessità di addivenire ad una legge sulla rappresentanza sindacale. La proliferazione dei contratti collettivi, non di rado spuri, impone una legge che misuri la rappresentatività, anche datoriale, quantomeno ai fini di un salario minimo in attuazione dell’articolo 36 della Costituzione, come proposto dal Manifesto. Non abbandonerei tuttavia l’idea di attuare l’articolo 39 della Costituzione, come ci siamo sforzati di proporre nella nostra Carta dei diritti.
Quanto alla flexicurity, riproposta nel Manifesto come asse portante delle politiche del lavoro, non condividiamo il giudizio positivo sul “Jobs act”: l’alleggerimento sanzionatorio in tema di licenziamenti è pur vero che si è accompagnato con un ampliamento della platea destinataria di CIG e NASPI, al prezzo tuttavia di un serio rimaneggiamento della durata e dell’entità dei trattamenti. Il modello danese, proposto dal Manifesto, per essere preso ad esempio, richiede un drastico impegno finanziario pubblico (ed una vera politica anti elusione/evasione) assieme ad una gestione partecipativa sindacale dentro e fuori l’azienda, oltre che un contesto di domanda di lavoro e di mobilità nel mercato del lavoro molto differenti da quelli del nostro Paese.
La flexicurity, dunque, non potrebbe che collocarsi dentro un contesto ancora ben lungi dal potersi realizzare. Non siamo dunque disponibili ad accettare l’attuale disciplina sanzionatoria né tantomeno la riduzione, da 36 a 24, delle mensilità risarcitorie da licenziamento illegittimo come ipotizzata dal Manifesto; anzi, è il caso di ribadire la necessità della reintegra come misura di civiltà giuridica.
Il giudizio negativo, espresso nel Manifesto, sul blocco dei licenziamenti e sulle garanzie bancarie a gestione concordata sconta una visione ristretta della responsabilità sociale d’impresa, difficile da accettare in un momento drammatico come l’attuale. Nè può essere accettato il giudizio ivi espresso sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, come demandato alla giurisprudenza; nozione che legittima i licenziamenti economici anche per un maggior profitto, senza innovazioni di processo e/o di prodotto, contrariamente a quanto teorizzato dalla migliore dottrina economica e, soprattutto, a quanto sancito dal secondo comma dell’articolo 41 della Costituzione.
Meritoria, invece, è la proposta del Manifesto sul salario minimo ancorato alla contrattazione collettiva; la discussione sulla soglia minima mi sembra altrettanto ineludibile. Se, come tutto lascia presagire, la discussione ripartirà, attendiamo la proposta su cui saremo chiamati a confrontarci e la reazione in campo imprenditoriale, a partire da Confindustria.
Certamente va accolta la proposta del Manifesto di estendere e incentivare il secondo livello di contrattazione, ma non a scapito di quello nazionale, come avverrebbe per una remunerazione di merito a detrimento della paga di livello o con la ibridazione tra fonte collettiva e contratto individuale, tra part-time e contratto d’opera (vedi il caso Intesa San Paolo).
Siamo infine convinti della centralità di una governance condivisa delle strategie aziendali a forte impatto lavorativo: non a caso il tema della democrazia economica prende data dagli anni ‘70 nel vissuto del nostro sindacato.
Sull’arbitrato restano le nostre perplessità, se previsto come obbligatorio. Altro sarebbe il discorso sul potenziamento della giustizia togata e sull’arbitrato volontario, senza clausole compromissorie.
Il Manifesto, infine, si occupa meritoriamente di una ridiscussione radicale del welfare in una direzione universalistica. Un tema che evoca il ruolo della contribuzione sul monte salario, sul valore aggiunto aziendale, sull’IVA, sull’apporto pubblico. Temi che incrociano il peso da attribuire alle imprese tecnologiche e alla finanza dello Stato.
Nulla sarà come prima, forse, ma è tempo di impegnarsi seriamente ad un cambiamento profondo, non più eludibile.
E’ questo il merito principale del Manifesto: un avviso ai naviganti segnato dall’urgenza.

 

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